come gliele suonava, a quelli di sinistra

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9 gennaio 1972: Pollini suona nella fabbrica poligrafica occupata di Genova. «Volevo una buona acustica, si decise di ricoprire le macchine di cartoni. L’occupazione coinvolse l’intera città. Parlai con gli operai, mangiai con loro il cibo che portavano i genovesi». 3 marzo 1970: Pollini suona al Conservatorio di Milano, in Vietnam gli americani hanno appena bombardato Hanoi. Pollini prova a leggere una dichiarazione. «Ma dopo cinque secondi, la parola Vietnam suscita un boato spontaneo. Non avevo la pretesa di fare propaganda politica. Era una semplice protesta contro un efferato episodio di guerra. Rimasi di sasso per la violenza e la precisione della reazione. Nella mia ingenuità, pensavo che avrei potuto suonare egualmente».

Da un’intervista a Maurizio Pollini sul Corriere di qualche tempo fa. Buon compleanno, maestro.

sul bel danubio blues

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Ieri sera canticchiavo a mia figlia l’aria di noto valzer viennese, uno di quelli che la tradizione vuole eseguito come sottofondo mentre si consuma l’opulento pranzo di Capodanno. Uno di quei balletti che amiamo seguire un po’ frastornati dall’ora tarda che ci ha visto coricare la notte prima e già scettici sul superfluo eccesso di zelo con cui il direttore d’orchestra, da lì a breve, condurrà musicisti e pubblico in ghingheri nella marcetta che, al di qua del lombardo-veneto, celebra da un secolo e mezzo una delle débâcle dei Savoia. Le canticchiavo la melodia del valzer imitando per quanto possibile tutti gli strumenti mentre lei, imbracciando la camicia da notte felpata come se fosse un partner da guidare lungo la sequenza di tre movimenti in cui il ritmo si suddivide, simulava la danza in coppia, spinta dal timbro principesco che quel brano, avulso dalle immagini di Kubrick, mantiene inalterato.

E pensare che una riduzione di quel valzer per intrattenimento da balera faceva parte del repertorio standard dell’ultima orchestrina con cui mi sono guadagnato da vivere quando, agli esordi della mia attività professionale che svolgo tutt’ora, uno stipendio non era sufficiente a un’esistenza decorosa in una abitazione dotata di energia elettrica e altre utilities basilari, per intenderci. Ma per onorare gli impegni con gli altri orchestrali avevo dovuto interrompere la collaborazione con una band con cui si era lì lì per “sfondare”, come tutte le band con un contratto major ma trattate dalla major stessa come ultima ruota di un carrozzone poco fruttuoso, per loro. Non avendo più tempo da perdere, decisi per il denaro facile di un impiego tradizionale, con prestazioni da “volgare” musicista da festa in piazza di contorno per arrotondare.

Perché era così che quel mestiere veniva percepito da chi era in grado di permettersi la sussistenza solo con un presente precario e un futuro illusorio di successo ma basato su patrimoni altrui. Ogni compromesso con l’arte commerciale e retribuita sembrava un tradimento alla causa. Tanto che, nel corso di una delle prime esibizioni nella mia nuova veste di musicista folk – diciamo così – colui che teneva redini del gruppo da cui avevo dato le dimissioni, non capacitandosi di una scelta così lacerante per il proprio orgoglio, fece capolino tra il cerchio di anziani timidi raccolti intorno alla pista a seguire invidiosi la sfrontatezza dei loro coetanei, lanciati in evoluzioni lungo l’area dedicata al ballo, sottostante il palco. Le note erano quelle di Strauss, il tema eseguito con una sezione di archi campionata e riprodotta da un dispositivo molto in voga tra i tastieristi all’epoca. E ricordo il gesto delle sue dita a forbice sul secondo e terzo tempo di quel ritmo cadenzato, a sottilineare che la versione ufficiale del mio commiato, di cui lui  e i miei ex soci si erano convinti e avevano divulgato, era che io ero stato “tagliato” fuori da loro, e che l’onta della preferenza accordata al ballo liscio non sarebbe mai stata più lavata.

Il brano volge al termine, la mia voce produce un rallentamento e una chiusura inesistente nella versione originale, ma ormai è tardi e bisogna mettersi a nanna. La camicia da notte, quella con il gufo disegnato sul petto, trova la sua giusta collocazione e ci mettiamo tutti ai nostri posti, pronti a lasciar libera la testa a quello che ci pare. Io mi sto per raccontare una nuova storia che, fino a pochi minuti prima, avevo rimosso, chissà perché.

glockenquiz, primo livello

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Allora il gioco è questo: dovete scrivere, nei commenti qui sotto, il titolo del brano, l’album in cui è contenuto, il nome del gruppo che lo ha pubblicato, l’anno di uscita, e un aneddoto credibile che sia legato al pezzo in questione, o che ne riprenda il testo, descritto al meglio delle vostre capacità narrative. Il riff del brano qui sotto è eseguito il più possibile fedelmente alla versione originale, tenendo conto che lo strumento è quello che è e la tecnica ancora peggio. Allo scadere della mezzanotte di non si sa quale giorno la giuria decreterà il vincitore. Il primo livello ovviamente è il più semplice, a mano a mano la difficoltà aumenterà. Il premio di questa prima manche consiste in una Menabrea in bottiglietta da 33 cl offerta da plus1gmt in persona alla Belle Aurore, a due passi dal mio ufficio, a Milano, in data e orario da destinarsi. E non si dica che i liguri, anche trapiantati altrove, hanno il braccino corto. Stay tuned.

a day in the life

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E niente, volevo solo presentarvi il mio calendario da cucina per il 2012.

inna babylon

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Qualche tempo fa, sul mio socialcoso preferito, si discuteva di reggae inglese e, in pieno mood da classifiche, ho proposto d’istinto come miglior album di musica in levare targata UK quel capolavoro che è “Signing Off” degli UB40. Vi ricordo che, prima di motivetti da tanto al mucchio come Red red wine o I got you babe, gli UB40 hanno avuto un passato di tutto rispetto, di cui il primo album nominato sopra (ma mettiamoci pure il secondo “Present Arms”) costituiscono i momenti migliori, spero ne conveniate con me. Ma nella fretta avevo dimenticato di far rientrare nella competizione (anche se di gara non si tratta, e poi non è che bisogna fare sempre le gare come i bambini a chi arriva prima) Linton Kwesi Johnson, jahmaicano ma a Londra dal 63, quindi parte del gioco. Abbiamo trovato così all’istante una soluzione all’impasse introducendo due differenti categorie, il reggae inglese bianco e quello non-bianco, in cui può primeggiare in tutta la sua maestosità “Forces of victory” di LKJ, seguito a ruota dal suo terzo lavoro dalla copertina indimenticabile, “Bass culture”. Vi rimando a qualche estratto dalle opere citate, a prova di quanto si è sostenuto. Nell’ordine:

UB40 – Tyler (da Signing Off nella versione live al Rockpalast dell’81)
UB40 – Burden of shame (da Siging Off, idem, vi segnalo il finale del brano, una coda d’n’b ante litteram)
UB40 – One in ten (da Present Arms, idem)
LKJ – Fight dem back (da Forces of Victory)
LKJ – Inglan Is A bitch (da Bass Culture)

Per non far torto a nessuno, né all’uno né agli altri, vi lascio questa hit one shot, che comunque ai tempi ha avuto un suo perché.

o almeno chiamarci con il suo nome

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Al primo ascolto non mi sembra così male, qualche chance che è un po’ la birra media e un po’ le aspettative che ho portato con me da casa. Ma è solo il primo pezzo, poche battute e parte il cantato in italiano, come pensavo il testo mi mette a disagio. Occulto la smorfia di disappunto all’istante. Dal sedile del passeggero, la macchina è ferma parcheggiata sul marciapiede antistante il pub, vedo il resto del corpo che ha dato vita a quella discutibile melodia. Il cantante del gruppo chiude gli occhi, con la nuca sfiora il poggiatesta del posto di guida di quel fuoristrada vero, in un’epoca in cui qualunque veicolo di dimensione superiore è chiamato così, e assapora per la milionesima volta, suppongo, la sua creatura sonora rendendola tangibile lì sul volante, con le mani che battono il tempo. Finisce il primo ritornello, estrae la busta di tabacco e rolla una sigaretta, io ne approfitterò subito dopo.

Non diresti che il ragazzo è cileno, i suoi genitori sono fuggiti da Pinochet un paio di decenni fa, io stesso non l’avrei capito se non me l’avesse raccontato poco prima, rompendo il ghiaccio del nostro primo appuntamento. Siamo lì per capire se lui e suoi compari sono la band che fa per me e viceversa. In effetti la loro musica non ha nulla degli Inti Illimani, per chi pensa che uno che è cileno debba per forza fare quel genere lì con gli zufolotti. Anzi, se devo dirla tutta, il rock elettronico che mi sta sottoponendo non è poi così male, potrei davvero divertirmi a programmare tutto quel ben di dio analogico. Ma le parole, diamine, proprio non ce la farei mai. Non è difficile calcolare il coefficiente di compatibilità già tra la prima e la seconda traccia di quell’album che dopo mi sarà lasciato come supporto da ascoltare con calma, a casa, per pensarci su.

Potrei tranquillamente dare subito il responso negativo se non venissimo entrambi distratti da una folla che va radunandosi nella piazzetta poco più avanti e da un’ambulanza che irrompe alle nostre spalle, a sirene spiegate, la intravediamo negli specchietti retrovisori. Non mi preoccupo nemmeno di chiudere con eccessiva forza lo sportello di quella jeep militare, sono già in strada mentre lui ancora armeggia con i comandi dello stereo per mettere in pause un presunto capolavoro.

Una bambina di quattro anni, tutti i dettagli e le dinamiche le scoprirò solo il giorno dopo sul sito del Corriere, è volata giù dal balcone del suo appartamento al terzo piano, è stato un incidente e lei non ha avuto scampo. Io ho una figlia poco più piccola e mi sento male all’istante per lei che mi aspetta a casa, per quel corpo simile al suo che invece è caduto, per i due genitori protagonisti già smarriti in una trama scritta per errore ma che non conoscerà editing meno tragico di quello.

Quanto a me, so per certo che da domani cambierò abitudini. Passo di lì praticamente tutti i giorni per andare a pranzo in quello stesso pub in cui ho appena bevuto una birra media con un cantante e frontman italo-cileno. Ma anche lui si rende conto che non è giornata, non è proficuo ciò che non nasce sotto una buona stella.

non te la toglierai dalla testa per tutto il decennio

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Lo pensavo anche prima di leggere, anni fa, Metapop di Paul Morley, ve lo giuro. A prova di ciò, dichiaro pubblicamente di trovarmi in linea con i risultati di questa classifica che celebra quel gran pezzo di tormentone di “Can’t Get You Out Of My Head” come il brano più suonato del decennio. E il fatto che Kylie sia oltremodo caruccia (soprattutto nella clip sottostante) non influenza il mio giudizio. Giuro.

stare così appiccicato è traumatizzante

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Dovreste capirmi: uno ama alla follia un gruppo che fa un pezzo così:


nel cui video tra l’altro il cantante indossa la canotta di uno dei suoi gruppi preferiti (i Beat) oltre alla band in questione:

ma questo non c’entra. Il problema è che poi la band in questione, i Police, passato qualche anno e chissà chi si credono di essere diventati quei tre, rifà quel pezzo così:

e uno non si riprende più dal trauma, non trovate?

cominciamo bene

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Il livello di una civiltà lo si evince anche dal tenore degli artisti ospiti nella trasmissione tv della notte di Capodanno sulla rete ammiraglia, quella che uno tiene come riferimento solo per gli ultimi centottanta secondi di conto alla rovescia, giusto per essere sincronizzati con il resto del mondo e poi, anziché spegnere, lascia lì perché è da non credere.


(nemmeno i Gipsy Kings veri ci possiamo permettere)

(la prima poesia per il nuovo anno)
(prima o poi riusciranno a liberarlo quel benedetto pensiero che da quarant’anni, questi qui, hanno chiuso chissà dove)

love is a banquet on which we feed

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Molto tempo prima dei lucchetti di Ponte Milvio e degli auricolari dei dispositivi portatili per l’ascolto della musica condivisi tra le giovani coppie in barba alle principali leggi della stereofonia, era tutt’altro che raro che ragazze e ragazzi innamorati a vicenda, alla domanda “qual è la vostra canzone” – intesa non certo come quale pezzo presentate al prossimo Festival di Sanremo bensì come quale brano considerereste colonna sonora della vostra storia se la vostra storia fosse un film – in almeno nove casi su dieci (stima puramente inventata dal sottoscritto), rispondessero senza indugio alcuno “Because the night”. Come biasimarli, d’altronde. Si tratta di una delle canzoni d’amore e struggimento più note della letteratura musicale di tutti i tempi, che in molti (in Italia) legano al suo utilizzo come sigla di Fuori orario su Rai 3 dalla notte dei tempi, e che ve lo dico a fare. Insomma, ci siamo capiti. Ma la moltitudine di persone che non riesce a non inserire il suddetto brano in una qualsiasi compilation a sottofondo di turbamenti di ogni sorta è suddivisa in due macrocategorie: quelli che amano la versione di Patti Smith, e i supporter della versione originale di Bruce Springsteen, altrettanto arcinota ma pubblicata solo recentemente nell’album The Promise, uscito lo scorso anno. E non me ne vogliano i fan dei 10,000 Maniacs, la loro cover è stata solo esercizio di stile. (Ah, io voto per Springsteen).