le cose possono cambiare

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Il giorno in cui Gheddafi fece recapitare ben due missili Scud su Lampedusa io me lo ricordo bene, perché è stato l’unico giorno della mia vita in cui sono entrato in una sede locale della Democrazia Cristiana. Ero lì a impersonare il nichilista ribelle e a disprezzare tutto e tutti, anche se i miei interlocutori giovani e democristiani mi stavano offrendo la possibilità di essere invitato come ospite, io e il mio gruppo di allora, a un evento culturale con concerto annesso. Tenete conto che era il 1986, e nella città in cui vivevo, di profonde radici comuniste e socialiste, la DC aveva un peso irrisorio. Tant’è che quando squillò il telefono in sezione e il capo dei giovani democristiani ci mise al corrente dell’accaduto, era il tardo pomeriggio del 15 aprile, mi presi il lusso di figurarmi il volto rubizzo e trafelato di Spadolini come poteva essere in quel momento, lui e tutto il suo pentapartito, roba che oggettivamente oggi ci leccheremmo i baffi. Poco dopo arrivò persino il Senatore, un vecchio amico di mio padre, lo stesso a cui chiesi una raccomandazione quando mi stroncarono la domanda per l’obiezione di coscienza e finii a fare il C.a.r. a mille chilometri da casa, e chissà dove mi avrebbero mandato senza il suo intervento. Sapeva già tutto ma preferì parlare di quel concerto, dell’opportunità che ci avrebbe concesso, fermo restando che la musica di base allora era in mano a quelli dell’Arci. Ma, a proposito della crisi in corso, nessuno si precipitò a verificare i fatti: siamo in guerra con la Libia? E gli Stati Uniti cosa fanno? Il Senatore invece ci comunicò che si era assicurato la presenza per la serata di un noto show man, nostro concittadino, in veste di presentatore. La cosa si faceva interessante. Ma il mio chitarrista, che di politica non ne sapeva nulla tantomeno di affari esteri, tornando a casa mi chiese se c’era pericolo per una guerra, lui era più grande di noi e stava per partire militare in marina. Non lo so, mi ricordo di aver risposto, magari scoppia prima e salta il concerto.

mute math: odd soul

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È uscito il nuovo album dei Mute Math, band che avevo scoperto all’epoca della pubblicazione del loro primo album omonimo per caso, in macchina con un amico. In una compilation casalinga ascoltai Noticed, che è il pezzo seguente:

e che mi riaccese la voglia di Police, in un periodo musicale ampiamente caratterizzato da cloni di tutti i miei gruppi preferiti dell’adolescenza. Poi mi procurai quel disco, scoprendo che di Sting, a parte il timbro della voce in alcuni passaggi, c’era ben poco, rivelandomi però una band divertente, a tratti pop in eccesso per i miei standard, ma tutto sommato godibile, un mix di rock pop elettronica funky e new wave. Sì, c’è di tutto, oltre a un modo molto familiare di utilizzare i synth e i campionamenti. In più elessi immediatamente Darren King a batterista dei miei sogni. Ed ecco il loro terzo album Odd Soul (il secondo non è stato granché ma confesso di avervi dedicato pochissima attenzione), qui sotto il video del primo singolo:

c’era un ragazzo che come me

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L’irrisolvibile conflitto del ventesimo secolo, che si protrae tutt’ora nelle culture dominanti e alternative vuoi per appurato valore dei soggetti contrapposti vuoi per carenza di elementi di pari grandezza, è quello Beatles o Rolling Stones, qui nominati in ordine puramente alfabetico. A nulla sono serviti, giusto per rendere l’idea, i tentativi di rendere popolari nuovi conflitti cambiando i termini di comparazione con Duran versus Spandau o i più recenti Blur e Oasis. Converrete con me che non c’è partita, stiamo parlando di categorie completamente diverse. E non voglio risolvere la dicotomia, né aggiungere nulla alla letteratura in proposito. Riflettevo solo sul fatto che sono due band imparagonabili, tanto che a me piacciono moltissimo entrambe ma per motivi diversi. I Beatles per l’eclettismo compositivo e per essere durati così poco, avendo concentrato in un decennio un fenomeno di portata epocale e essendo di quel decennio probabilmente la massima espressione da numerosi punti di vista. I Rolling Stones invece per il loro approccio rock blues e per la qualità di prodotti sulla lunga durata, tanto che li preferisco di gran lunga nel periodo degli anni 70 fino ai primi 80, con album spesso sottovalutati quali “Goat Head Soup” ed “Emotional Rescue”. Ecco, mai prender posizioni quando una può farti perdere le cose belle dell’altra.

un storia senza coda

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Ora riesco a guardarlo con distacco, non sono più innamorato anzi mi è del tutto indifferente. Del tutto proprio no, chiaro, mi sono seduto in braccio a lui per così tanto tempo. Mi sono persino rovinato la schiena per stargli il più addosso possibile nel modo più corretto possibile, a discapito della colonna vertebrale. Il bello è che prima ero in sua balìa, era lui a decidere dove andare, cosa fare e come farlo. Ma ero così giovane e innocente, lui con il suo fascino avrebbe potuto fare di me quel che voleva. Ora è vecchio e io sono nel pieno dell’età adulta, basterebbe avere un po’ di elasticità in più e sono convinto che avrei la meglio, lo terrei in pugno. Il trucco è stato non vederci più, addirittura cambiare città e mettere tra noi duecento chilometri. E i primi tempi proprio l’avevo rimosso, ero tutto preso da altre passioni. Avevo occhi e carezze solo per esperienze più moderne, più fredde, la plastica contro il legno, la tecnologia contro la tradizione. Poi sapete com’è, si cresce e si impara a perdonare, i punti di vista cambiano, si re-interpreta il passato. Ma se penso a quanto mi ha fatto soffrire. Probabilmente era troppo per me, stavo ore e ore con lui ma non ne aveva mai abbastanza, e andava sempre peggio perché era sempre più difficile. E quando le cose non andavano per il verso giusto mi accecavo dalla rabbia, gli ho dato pugni e calci. Poi mi facevo beffe, lo prendevo in giro, anziché seguire le regole facevo di testa mia, complice sicuramente qualcuno che da fuori sobillava. E lì è stato il momento di rottura, le sue pretese sono diventate inaccettabili e io capito che era meglio finirla. Anche se a lui non importava nulla di essere abbandonato, sapeva che ormai sarebbe rimasto una parte fondamentale della mia vita. Tanto che ci ho riprovato, ero già grande, ma a nulla è servito. Il rapporto si era rotto per sempre. Poi basta.

E ieri, e ieri l’altro, nella stessa stanza in cui ha riposato tutti questi anni, mi sono seduto di fronte a lui. Ho aperto un libro, uno di quelli che capivamo solo noi due, gli ho chiesto di tenerlo in mano, e ho provato a leggerglielo. Ho capito che, allora, non ero pronto, e come allora è difficile perché ancora oggi non so dove guardare, ed è li la chiave di tutto. Guardo il libro e quei segni, o guardo le mani che corrono su di lui, ma che se non sanno dove mettere le dita devo tornare sul libro e il segno non è detto che sia ancora lì, a portata di mano. E ho ritrovato tutto come era allora: la stessa angoscia di commettere gli errori che spezzano l’incantesimo dell’esecuzione, i passaggi in cui basta mettere un dito al posto di un altro e non riesci a arrivare in fondo o in cima alla scala. Le alterazioni in chiave e il bequadro che la annulla, ma è il tasto nero o quello bianco? Le terze, le seste, le none. L’interpretazione, il pianissimo e il puntato. Bach. Mozart. Secoli di musica che gli studi classici non tengono in considerazione, probabilmente non è nella nostra cultura, o invece oggi le cose sono cambiate e non lo so. L’improvvisazione è alla base anche del piano di studi per il diploma in pianoforte? Non credo proprio. Ma non sta a noi due decidere queste cose, litigare non cambia nulla, per un giorno facciamo finta. Ed è stato bello passare insieme un pomeriggio, dopo che per anni per ore e ore sono stato lì a produrre suoni e imparare pezzi, tanto che mi è bastato qualche minuto per ricordarli come se non avessi mai smesso. E se sono tranquillo è perché non è più nelle mie corde, anzi è solo nelle sue e forse, nelle mie, non lo è stato mai, e l’ho capito solo ora.

tono su tono

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Non ricordo chi scrisse che verrà un giorno in cui la SIAE farà pagare  le suonerie dei telefoni trasmesse a volume elevato in pubblico, quindi accomunate alle altre esecuzioni musicali dal vivo e soggette alle norme sul copyright. Forse è una cosa che ho pensato io, ma ne dubito, sin troppo elaborata. E quello che è successo per la Nokia e il celebre jingle dedicato ai suoi utenti è emblematico; i grandi vendor che ingaggeranno i dj di grido per realizzare remix delle loro musichette – o anche di canzoni celebri – da utilizzare in esclusiva sui loro nuovi modelli. O, faccio un esempio, la famosissima cantante pop che metterà a disposizione tramite iTunes una suoneria dedicata all’iPhone. Tutta roba che esiste già? Comunque, si tratta di un mercato occupato da un servizio di cui, almeno fino a poco tempo fa, non se ne sentiva il bisogno. Ma che mi lascia perplesso: in giro si sentono sempre più suonerie generiche, il classico driiiiiiiin per farmi capire, tanto che tutti siamo sempre lì, sul treno, a controllare chi sta ricevendo la chiamata. Forse la gente è finalmente stufa di set live estemporanei di fronte a sconosciuti?

mi han detto che ti piacciono le ragazze col ciuffo

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Nel 1983 o giù di lì convinsi un mio compagno di classe ad accompagnarmi nell’intrepida impresa di seguire una tipa, una liceale di cui mi ero invaghito perché vestiva di grigio e portava una acconciatura che allora andava molto di moda, un insieme che costituiva il mio ideale estetico. La tipa in questione stava facendo shopping con la sua mamma, io mi tenevo a debita distanza. Non avevo altra pretesa che inebriarmi un po’ della sua scia di beatitudine, sapete come succede quando si è giovani e imbevuti di quella sostanza psicotropa nota come Sturm und Drang corretta con una giusta dose di ormoni in subbuglio. La sessione di interruppe bruscamente quando madre e figlia entrarono in un negozio di biancheria intima, sbirciai la scelta di un reggiseno grigio ma mi trassi via imbarazzato, onestamente non ero ancora pronto a tanto. Ma non è di questo che volevo parlare, bensì di quel taglio di capelli che era un must all’epoca di chi aveva il diario farcito di ritagli di Ciao 2001 di gruppi New Wave tendenti al New Romantic. Un’acconciatura di tendenza che in Italia aveva avuto la sua massima esponente in Diana Est, la cui bellezza latin-brit potete verificare in calce a questo post. Oggi la pettinatura in questione, che non saprei come definire se non “a schiaffo” e che consiste in un lato rasato che sfuma in un ciuffo lunghissimo dall’altro, è tornata in auge. Se portate i capelli così e vi sentite seguite da qualcuno, fate attenzione. Potrei essere io.

con la testa sulla porta (ma era un sogno)

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Non sono molti i dischi che mi piacciono per intero, intendo l’ascolto in sequenza di tutti i pezzi. Magari c’è quella canzone che mi annoia o che mi disturba, ma la lascio lo stesso perché sentire dall’inizio alla fine un album è un segno di rispetto per il gruppo o l’artista. La tracklist ha un senso e i pezzi devono essere ascoltati solo in quella direzione, ognuno a suo modo prepara il successivo, altrimenti il concept sarebbe stato pensato diversamente. Una visione un po’ integralista alla musica, direte voi, ma che ha un suo perché che può sfuggire considerando l’odierno approccio random su migliaia di pezzi, con l’effetto Virgin Radio che ne deriva, che lo ha reso superato. D’altronde l’aver messo in discussione il supporto e il mezzo stesso di contenimento del prodotto musicale ha completamente cambiato le carte in tavola.

“The head on the door”, come sapete, è l’ellepi dei The Cure che ha aperto la strada del successo pop alla band di Robert Smith. Non a caso i puristi al massimo arrivano a The Top, l’album precedente. Addirittura c’è chi si limita al solo periodo new wave del gruppo inglese, dagli esordi alla triade che si chiude con Pornography. Io non la penso così. “The head on the door” è un album che ha costituito la colonna sonora del mio primo vero upgrade, perdonatemi il termine, una serie di pezzi piuttosto facili considerando la categoria di appartenenza del gruppo in questione, che però hanno la rara caratteristica di rappresentare tutta la gamma degli umori, tutta la scala degli stati d’animo ciascuno con il suo ph, dal più depresso al più frizzante. Se non siete d’accordo, almeno provate a vederlo, anzi, ad ascoltarlo con le orecchie di un diciottenne. Ma bollori adolescienziali a parte, almeno ne si riconosca la straordinaria varietà di atmosfere, dal fill di batteria di “In between days” fino al delay con cui si inabissa “Sinking”, nel ronzio di un ascolto a volume smodato. Insomma, non c’è un solo pezzo che stona, non credo di averne mai saltato uno né in quel 1985 né ora, mentre sta per iniziare il riff di “Push” in questa seduta di ascolto pomeridiano. Un disco da meditazione, come quei liquori da gustare nei bicchieri appropriati, sufficientemente larghi da inalarne lo spirito. Un suono da notte in autostrada, da solo sulla strada del ritorno. E una manciata di canzoni da guardarsi in faccia e sorridersi, perché abbiamo capito che cosa è stato inutile dirsi.

Post Scriptum: prima di acquistare il disco, un caro amico me ne fece una copia su cassetta, gli ellepi costavano non poco e un ascolto preliminare all’investimento era d’obbligo. Ma il suo disco saltava su “A night like this”, quindi omise la traccia otto dalla registrazione senza avvertirmi. Ho consumato quella cassetta convinto che tra “Close to me” e “Screw” non ci fosse nulla. Oggi credo che “A night like this” sia una delle canzoni più belle dell’album, spero converrete con me. Allora non andò proprio così, anzi rimasi interdetto: un solo di sax in un pezzo dei Cure, che sacrilegio!

alle radici degli smiths

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A distanza di quasi dieci anni ho capito finalmente che canzone mi ricorda The Seed 2.0, il pezzo di Cody Chesnutt poi rifatto nel 2003 insieme ai The Roots. Magari è cosa arcinota, o si è trattato di un tributo e non lo sapevo e e non mi sono documentato prima di scrivere e ci faccio una figura di “compost” (chiedo il parere più autorevole di Fdl), ma non ditemi che la somiglianza dei ritornelli la colgo solo io.

The Roots: The Seed 2.o

The Smiths: Rush and a push and the land is ours

campioni del mondo

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Attenzione: post per addetti ai lavori, si tratta di speculazioni da musicista nerd. Astenersi chitarristi (a parte SpeakerMuto, so che mi capisce.)

Avete presente, immagino, la relazione che sussiste tra la pressione di un tasto qualsiasi della vostra tastiera, ammesso che non siate ancora passati al touch screen e mi stiate leggendo su un iPad (cosa di cui sarei onorato, visto il periodo) e comunque anche in quel caso avrete pulsanti da premere per far accadere l’evento che fa partire l’azione che genera una conseguenza, no? Apri una pagina, chiudi una pagina, fai partire un video e così via. Nella mia idea di tastiera elettronica, nel senso di strumento musicale, quella che in parole povere si suona e che assomiglia al pianoforte che avete in salotto ma non riproduce alcun suono a meno che non sia allacciata alla rete elettrica o, in taluni casi, non sia collegata ad un ampli o, i più evoluti di voi, non sia connessa via usb al pc. Quella che la moltitudine indotta (nel senso latino, da indoctus) chiama volgarmente pianola. Dicevo, la mia idea di tastiera elettronica è più simile a una componente di un pc più che a un pianoforte. Una periferica composta da tanti tasti funzione – F1 F2 eccetera, quelli che stanno in alto e che nessuno oramai usa più – assegnabili a una nota, a un suono, a un rumore, a un loop a discrezione dell’utente. Dodici tasti bianchi e neri per ottava, ma non necessariamente note in scala (do do# re re# ecc…) ma programmabili a seconda delle esigenze.

Questo preambolo incomprensibile ai più, mi serve a introdurre il sampler, in italiano campionatore. Il sampler è stato per anni la mia passione perché ha dato vita alla perfetta materializzazione di quanto detto sopra. Quando tramontò temporaneamente l’era dei sintetizzatori analogici, siamo a metà anni 80, furono immesse sul mercato tastiere che emulavano i suoni reali (piano, chitarra, fiati e così via) con una fedeltà a dir poco esilarante, ma a noi tastieristi non si richiedeva più di emettere mooggiti (bella questa, nevvero?) e inviluppi con tanto di portamento (anche questa non è male), bensì di fare la parte degli ottoni e degli archi, oltre a un ritorno a piano e organo. E già io non ci stavo dentro.

Poi ecco il campionatore, che c’era già. O meglio, esisteva il Fairlight ma potevi barattarlo con un appartamento, tanto costava, e poi senza appartamento non avresti saputo dove posizionarlo, perché intrasportabile. Furono immessi sul mercato, finalmente, sampler abbordabili, sempre a seguito di contratti capestro e rate impietose, chiaro. Però ci si divertiva a registrare i rumori e a trasformarli in suoni talvolta improponibili e difficilmente utilizzabili se non per il proprio autoerotismo melodico. Assoli di trapano, incidenti stradali con il pitch a meno quarantotto, componenti ritmiche da adattamenti di fragori di dubbia provenienza. E poi il loop, il ritmo lo faccio io e tu, batterista, se vuoi ti metti il clic in cuffia e mi segui, altrimenti faccio a meno di te. Tanto più che posso prendere i pattern scoperti dai cd, registrarli e riprodurli in eterno così, senza passaggi e rullate e sterili virtuosismi. Ma la cosa rivoluzionaria era che le mani non necessariamente dovevano suonare accordi o melodie, era come pilotare una console di comando di un universo sonoro che ora è passato di moda, fortunatamente grazie al ritorno dei mooggiti di cui sopra. Quindi, per fare un esempio, anche effetti già intonati all’esecuzione del pezzo assegnati al tasto più comodo a seconda delle altre parti di tastiera. Insomma, c’era davvero da divertirsi e si è trattato di una tecnologia musicale innovativa che ho sfruttato alla grande.

Oggi molti tastieristi usano il Mac collegato alla tastiera (nel senso di pianola): il computer può contenere infatti sia i sintetizzatori virtuali, che i campionamenti, che le tracce già pronte su cui suonare. Insomma, come avviene per gli altri ambiti in cui è utilizzato, è un unico strumento che fa tutto. Ma il rischio, che per l’Apple è più raro ma che comunque sussiste, è quello di dover interrompere un concerto e annunciare di dover riavviare il sistema. Per questo, anche se ho smesso di suonare ma non si sa mai (ehm), io ho ancora in cantina un vecchio Yamaha A3000 con 128 mega di ram, che fa ridere, ma collegabile via SCSI (che fa ancora più ridere) a uno Zip (qui ci sbellica letteralmente) a un Jaz o un lettore cd, da cui caricare ogni volta i banchi di suoni campionati necessari. Memorie su cui ho campionato tutto il campionabile, tanto quelli, i sampler, non crashano mai.

wilco – the whole love

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Il nuovo album dei Wilco inizia così. Potete immaginarne il resto.