grandi muscoli e poca carne

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Ho capito, forse, la causa scatenante di tutto. Quelle coincidenze impossibili  che quando accadono creano un pandemonio e aprono porte su dimensioni parallele. Per esempio, posare il piede su una zolla di bosco mai calpestata da un essere umano (forse c’era su un albo di Dylan Dog o me lo sono sognato), oppure leggere per sbaglio una formula magica al contrario e zac! Là dove c’era un muro ora c’è una porta aperta su un baratro senza ritorno. No, questa è meno cupa come allucinazione ma altrettanto inspiegabile. In tangenziale ovest, direzione nord, c’è il traffico delle diciotto di un giorno feriale, sono alla guida della Passat aziendale. Fuori trentacinque gradi abbondanti e un sole da ferragosto malgrado il mese di scarto. Ed ecco la probabile sequenza di eventi magici: guardo l’ora sull’orologio al polso sinistro (un Casio Calculator vintage) la cui superficie riflette il sole, abbagliandomi, mentre involontariamente con la mano destra cambio stazione radio e parte “L’ultima luna” di Lucio Dalla. Sono nel panico, per un paio di secondi non vedo più nulla. Quando la vista ritorna, mi trovo al volante di una Fiat 128, mi sorprende il marchio sul clacson nel centro del sottile volante e il cofano verde scuro che si dipana davanti. L’impianto hi-fi con lettore mp3 non c’è più, al suo posto vedo un estraibile con le manopolone in plastica e gomma. Svanisce la cintura di sicurezza. Mi guardo intorno: una 131 Mirafiori blu, una Opel Kadett, l’immancabile 126, una due cavalli. E cosa sono quei manifesti pubblicitari sui palazzi? Il punt e mes, Calindri che lotta contro il logorio della vita moderna, quindi eccolo lì il miracolo, l’epifania, il momento topico dell’estasi suburbana. Lucio Dalla immortalato con il suo inseparabile berretto scuro di lana, la testa china sul piano e dietro una luce di scena, una gigantografia che ricopre un muro in alto a sovrastare anche la tangenziale. Sotto, la reclame di una marca di jeans d’epoca e un pay-off che ricordo come un mantra: Blu Jeans, Blu Jesus. Oddio, mi sento male, tra l’altro l’aria condizionata in macchina non c’è più, mica era stata inventata, così tiro giù il finestrino (a manovella). Mi supera una Giulietta della Polizia, diamine, penso, e se adesso mi si affianca qualcuno e inizia a sparare? Poi “L’ultima luna” sfuma, irrompe un jingle assordante, cambio stazione, sento Gigi D’alessio, e spero che non succeda una cosa analoga. Che salto spazio-temporale potrebbe capitarmi?

il momento del bis

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Ho letto con enorme interesse la porzione di intervista di Fabio De Luca a Simon Reynolds in occasione dell’uscita in Italia di Retromania, un saggio in cui il musicologo inglese approfondisce il tema dell’ingombrante peso del passato prossimo musicale sulle tendenze contemporanee e sulla produzione stessa, tanto da impedire, ora come non mai, l’affermazione di novità realmente tali, al netto di commenti del tipo le note sono dodici, è impossibile creare qualcosa di nuovo dal nulla eccetera. In particolare, ma tenete conto che non ho ancora letto il libro e mi riferisco solo all’articolo presente qui, Reynolds riassume nell’interrogativo “cosa succederà quando saremo a corto di passato” un tema che è fondamentale nell’interpretazione del presente musicale, e consente agli anziani come me di bullarsi con i ragazzetti che si riempiono la bocca di gruppi che hanno conosciuto di sponda e di rimando, con i quali (gruppi, ma a volte anche ragazzetti) a volte mi chiedo se sia il caso persino di perdere tempo.

L’impressione che ho io è che i (pochi) rappresentanti delle ultimissime generazioni di musicisti, diciamo a partire dal nuovo e attuale secolo, abbiano trovato un sistema già saturo di ispirazione artistica e si siano mossi come se l’unica via per andare oltre fosse prendere l’ispirazione musicale e il prodotto di questa ispirazione più vicino all’estetica e al gusto del momento e ri-suonarla in modo fintamente filologico, perché il modo in cui era suonata e registrata allora era oggettivamente inadeguato. Provate a mettere uno dopo l’altro, per esempio, due brani abbastanza simili come matrice, come ritmica, come timbro, e lasciate perdere per un attimo tutti i risvolti emotivi che vi legano differentemente a un brano del passato come Transmission dei Joy Division e a un epigono di qualche stagione indiepop fa come Munich degli Editors. Oppure mantenendovi scevri da ogni giudizio, immaginate la stessa Transmission suonata direttamente dagli Editors, con una sezione ritmica moderna e un bilanciamento della stessa in fase di missaggio in linea con le sonorità attuali e con la tipologia di impianti di riproduzione audio che, nel frattempo, si sono evoluti. Ecco, il meglio dell’ispirazione con il meglio della tecnica musicale e audio. Lo stesso discorso può essere fatto per altri generi musicali. I batteristi oggi suonano come i campionatori che negli anni 80 e 90 hanno rubato i pattern e i passaggi di batteria dai dischi funky dei decenni precedenti, imparando a essere meno rumorosi e più lineari, meno piatti e più regolari nell’inserire o togliere elementi, fino a quel miracolo che è stato la drum’n’bass suonata da esseri umani (quanto mi piaceva). Ecco, in questo senso, secondo me, non si può parlare di nostalgia. Come dice Reynolds “nessuno guarda al passato con struggimento, né desidererebbe tornare indietro nel tempo”, perché è chiaro che nessuno vorrebbe avere a che fare con strumenti intrasportabili e cavi ronzanti. E Infatti secondo Reynolds esiste ancora un istinto esplorativo, ma che ha a che fare con la riscoperta. Siamo circondati da cacciatori del passato. Parallelamente il mercato spinge questi “retrogradi”, perché il pubblico appartiene alla stessa generazione e li richiede. Per non parlare dei nostalgici veri, quelli come me per intenderci, che per motivi anagrafici si ricordano bene di tutto e che non disdegnano le ultime produzioni.

E proprio perché ci ricordiamo tutto perfettamente, riteniamo fondamentale fornire un adeguato servizio di memoria storica a chi ne ha bisogno e a chi no, e ricordare che il background su cui questa forma di nostalgia poggia non è assolutamente un magma unico a cui attingere acriticamente, ma una base ben stratificata a settori, ciascuno con la propria delimitazione e importanza. Perché, lo sappiamo tutti, ci sono i settanta e i Settanta, gli ottanta e gli Ottanta. Siamo pronti a fornire consulenza musico-geologica a tutti gli archeo-artisti che vogliono sfondare. Fatevi sotto, prego.

l’acqua alla gola

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È la traduzione più o meno letterale dell’inglese “Dire Straits”, e mi serve solo a introdurre il senso di piacevolezza derivato dall’ascolto di “Making movies”, on air sul mio impianto stereo poco fa. Un gruppo, quello dei fratelli Knopfler, che non mi sono mai minimamente filato ai tempi, orbo e intollerante nei miei stereotipi culturali e pregno di estetica post-punk tanto da snobbare una musica così mainstream. Ma quel pugno di brani che probabilmente ascoltavo di nascosto da me stesso perché ricordo perfettamente, mi riferisco alle prime tre tracce del lato A che, oggettivamente un po’ di storia della musica l’hanno fatta, finalmente dopo il conseguimento della maggiore età (i cosiddetti -anta) e dell’abbattimento delle barriere dell’ignoranza, oggi mi rizzano i peli sulle braccia per l’emozione. Un sintomo della vecchiaia, lo so, quello di commuoversi per cose un tempo impensabili, se non derise. Ma è così, ed è una fortuna che i gusti, con gli anni, possano cambiare.

trapassato dal futuro

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La musica pop è ricca di esempi di celebrità di sesso maschile che altro non fanno che applicare la tipica curva ormonale e, più in generale, esistenziale del loro genere di appartenenza alla carriera. La stessa curva che contraddistingue la vita dei comuni mortali, invero. Acquistano popolarità in quanto giovani ribelli che si bombardano di sostanze stupefacenti e groupies ed eccessi vari. Poi verso i trenta – ma ultimamente anche verso i quaranta – diventano adulti e iniziano ad occuparsi e a parlare di cose serie, magari perché nel frattempo hanno messo su famiglia. Poi iniziano i primi acciacchi, causati anche dagli eccessi esercitati in precedenza, ed ecco che apriti cielo, si percepisce che in fondo non siamo così immortali. Quindi si manifesta la svolta mistica, il pizzetto ormai bianco e il codino da santone, lo yoga e la spiritualità, che nelle popstar coincide spesso con una svolta acustica, world music se non addirittura new age. Ma alla lunga ti fai due palle così, un tempo tifavi rivolta in faccia a un pubblico esterrefatto e ora sei qui a intonare a occhi chiusi Adeste Fideles in chiesa. Nel frattempo maturi il sentore che, in fondo, sei sempre lo stesso, ti tira come in gioventù, la vecchiaia che hai sempre temuto e che hai pensato che il modo migliore per sconfiggerla fosse fartela alleata è ancora distante, hai davanti almeno ancora un decennio buono prima del tracollo. Così riformi la banda, colleghi come una volta il distorsore tra la chitarra e l’ampli e ti godi la seconda giovinezza, più o meno come nella vita normale i cinquantenni che fuggono con le ventenni. Ecco, non mi stupirei, tra poco, di un ritorno sulle scene dei CCCP.

meriti una lezione

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Rita la zanzara si batteva per una scuola più yeyè, Lorenzo per una scuola più grunge, Frankie Hi Nrg per una scuola più pop, e meno male che non la vuole più rap, perché haimè i suoi tempi, quelli della buona old school, sono finiti, e ci troveremmo gente come i Club Dogo nei corridoi a imporsi come modello per i nostri ragazzi. Ma a me basterebbe che la scuola fosse solo più scuola, magari con un po’ meno sumeri e fenici e più resistenza e dopoguerra, un po’ meno Machiavelli e Guicciardini e più Pavese e Vittorini. In generale più novecento, che spesso è la cenerentola dei programmi perché la maturità incombe e bisogna fare presto. Per Lady Gaga c’è tempo, se ne può parlare nell’intervallo o dopo la campanella. E, nel dubbio, sto come sempre con i Ramones.

saluti dalla nicchia

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Quella sera d’estate di sette anni fa, quando i The National avevano suonato per pochi intimi in spiaggia all’Hana-Bi di Marina di Ravenna, sembra lontana anni luce. Ora i paragoni si scomodano e loro stessi ci scherzano su. “Sembra l’inizio di “Pride” ma nel tono sbagliato”, ha detto sorridendo Matt Berninger a Ferrara, riferendosi all’attacco strumentale di “Sorrow”. Ma è un bene che non sia così.

E non è così, perché si riferiva all’inizio di “Where the streets have no name”, lo si capisce anche da qui, se vogliamo fare i fighi almeno facciamolo con le citazioni corrette. Ecco perché tutti noi preferiremmo che i The National rimanessero ancora un “piccolo segreto da scovare” e che nessuno, tranne il sottoscritto naturalmente, scrivesse recensioni dei loro concerti.

lo sciocco e il suo denaro

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Ho notato, sai, che hai notato che ti ho notato, cara copertina di “Kind of blue” che fai capolino dalla vetrina dell’edicola qui sotto, edizione in vinile 180 grammi a sette euro e novanta, prima uscita di una collana di ristampe dedicata al jazz che già so sarà causa di discussioni con mia moglie per tutta la durata dell’iniziativa De Agostini. Perché proprio lì sul sito ho visto poi qualche anticipazione sulle prossime, Blue train e Time out, per esempio, roba che ho già originale su CD ma che diamine mi ha scatenato una salivazione che non avevo dai tempi della scoperta di Amazon e del mercato di 33 giri nuovi che sui siti di e-commerce musicale sta rifiorendo. Ti sono passato davanti gà quattro volte, una ieri, quando è scattato il colpo di fulmine e tre oggi, tu eri lì con Miles e la sua tromba appoggiata sulle labbra, scommetto pronto a partire con il solo di So What, vero? E so come andrà a finire, perché la prima uscita a metà prezzo sarà mia la prossima volta che passerò di lì, cioè tra poche ore, ma le successive a quindici euro l’una? Come si fa a lasciare indietro uno solo di voi, agognati vinili di jazz, che vi vorrei avere tutti impilati nella libreria e pronti a girare sotto la puntina nelle fredde serate dell’imminente inverno milanese? So che non vedete l’ora di trasferirvi tutti a casa mia, cari. Farò il possibile.

sol dell’avvenire

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o niente

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Il Deboscio si porta avanti con un coccodrillo per Vasco Rossi, eccolo qui (o leggetelo ).

Vendesi coccodrillo per Vasco in stile Studio Aperto. (Contattateci se interessati, prezzo modico)

E allora dai che prendiamo il volo, cantava. Questa volta, a volare in cielo è stato lui. Il Blasco. Un mito per tutti, che ha messo d’accordo quattro generazioni, che da trent’anni ci emoziona, diverte, e che ci ha unito sotto un’unica grande bandiera: quella del rock, delle emozioni da urlare forte al cielo sotto una pioggia di stelle. Ma oggi anche le stelle piangono l’astro più luminoso del firmamento. E chissà le donne del Vasco, oggi magari sposate e con figli, cosa diranno. Forse anche un pezzo di loro è volato su nel cielo con Vasco. Cosa diranno Sally, Gabry, Susanna, Jenny, Laura? Cosa dirà Toffee? Come potrà lenire il suo dolore Giulia? Forse non potrà come non potremo noi, oggi che una parte di noi non c’è più.
La più strabordante, caotica. La nostra vita spericolata è scomparsa e da oggi torna ordinaria, grigia, vuota. Forse L’alba non sarà mai più chiara.
La sua vita spericolata, esagerata, il suo equilibrio sopra la follia, oggi non c’è più. Ciao Vasco, con te se ne va un pezzo fondamentale di storia della musica italiana. E quando il cielo sarà buio e scuro forse potremo riuscire a distinguere una stella, luminosa come mai. Noi sapremo che sei tu, Vasco, e a quella stella rivolgeremo un ultimo, accorato “eeeh…!”, e ai nostri figli, lo racconteremo noi.

finché lo vuoi sentire

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La cosa più difficile è decidere con che pezzo iniziare, perché non sei un artista famoso e non fai parte di un gruppo e non hai i tuoi fan, là fuori, che non stano più nella pelle per assistere alla tua esibizione. Sei solo un intrattenitore momentaneo, il sottofondo musicale di una serata al pub o di una traversata in traghetto, solitamente il tuo lavoro non fa la differenza. Anzi, spesso è vissuto come fastidio, come barriera architettonica al chiacchericcio alcolico, a una lettura o qualsiasi altro passatempo di un viaggio verso le vacanze. Sei un pianista e/o un cantante di pianobar, e quando ti siedi dietro al tuo strumento non è detto che al di là dello spazio in cui il gestore del locale in cui ti esibisci – che solo raramente è un palco – ha ricavato dalla sua sala o nel suo dehor ci sia abbastanza pubblico.

E in quel momento, comunque, la gente che è lì ti nota ed è per questo che la cosa più difficile è decidere con che pezzo iniziare. Il biglietto da visita, la prima impressione, conquistare o meno la fiducia del pubblico, non è facile. Perché il pubblico, appunto, non è lì per te, si fa bellamente gli affari propri. Le coppie parlano tra loro, quelle più consumate bevono e guardano le altre coppie, ecco, forse loro faranno attenzione alla tua performance. I gruppi di amici scordateli, ciascuno giocherella con il proprio smartphone tra un sorso di birra e una battuta per conquistare la leadership della serata e del tavolo. Se il locale ha un’utenza varia, hai qualche speranza con i bambini in età prescolare, che ti si piazzano davanti, i più intraprendenti vorrebbero persino dare una manata sul tuo strumento per vedere l’effetto che fa. Parlare di strumento, poi, è sempre meno realistico. Gli strumenti musicali, pesanti e ingombranti, non li porti quasi più. Al massimo una chitarra, la tastiera, ma poi è il computer che suona tutto il resto, la batteria il contrabbasso eccetera.

E c’è sempre quell’imbarazzo che non coglie nessuno, che mentre gli altri sono in festa tu sei lì a lavorare; il sabato sera, la notte di capodanno, i matrimoni, ferragosto, compleanni e ricorrenze varie. E che la tua famiglia fa lo stesso festa senza di te, il sabato sera, la notte di capodanno, i matrimoni, ferragosto, compleanni e ricorrenze varie. Che poi, uno dice che è un bel mestiere, comunque sei un operatore dello spettacolo, ti permette di guadagnare suonando, ogni tanto metti in scaletta una cosa che ti diverte e che non necessariamente il pubblico apprezza. Sì, ci sono quelli talmente fanatici che la vedono da questo punto di vista. Ci sono quelli anche talmente bisognosi che lo fanno come secondo lavoro, rientrando ad ore assurde per poi la mattina dopo andare in ufficio a risolvere le solite rotture con botte di sonno da combattere fino a sera.

Ci sono quelli fanatici che invece lo fanno come secondo lavoro perché suonare è una passione, e suonare i pezzi di Concato o di Antonacci o di Raf è comunque una passione, anche se poi quei pezzi lì ti fanno cagare. Perché la scaletta non la scegli tu. Non puoi suonare quello che ti piace. Ci sono quelli, infatti, che pensano che allora è meglio non suonare del tutto, e che qualsiasi altro lavoro che ti lascia liberi il sabato sera, la notte di capodanno, i matrimoni, ferragosto, compleanni e ricorrenze varie è meglio.