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Il vantaggio del sistema emotivo standard va quindi identificato nella possibilità di avere a disposizione una library condivisa alla quale attingere ogni volta in cui ne sentiamo il bisogno. Questo consente l’ottimizzazione delle risorse che, erogate via web, ci permettono di liberare spazio dentro di noi da dedicare a quello che ci pare. Per lo più ricordi e cose di tutti i giorni. Per i non addetti ai lavori, l’esempio da tenere in considerazione è quello della musica. Anziché occupare memoria di pc, tablet e smartphone con i file delle canzoni, è sufficiente richiamarli dal cloud ogni volta che vogliamo attraverso la nostra connessione wireless o telefonica di nuova generazione. La differenza è che, nel caso degli stati d’animo, al momento non è previsto un servizio a pagamento premium, pro o de luxe, quindi già nel contratto base c’è davvero ampia disponibilità di materiali. Ma i meno ottimisti – o quelli più soggetti al fascino dei complotti – già hanno fiutato l’ennesima truffa ai danni dei consumatori. Perché sprecare energie e tempo a gestire anche le emozioni più rare, quelle di nicchia, quelle meno commerciali, quelle che riguardano la minoranza ad alta sensibilità? Perché non lavorare solo sugli aggiornamenti delle emozioni mainstream, magari facendole anche più ampie in modo da accontentare una massa di individui sempre più corposa e da favorire il riconoscimento a questo o quel modo di sentire generalizzato con più facilità? Si finirà con avere un monopolio anche in questo settore così delicato? Facciamo un esempio. Riflettere su cosa saremo tra dieci anni, nel caso di un utente finale quasi cinquantenne, comporta vibrazioni abbastanza similari al ricordo di quello che si provava a distanza di uno stesso lasso di tempo in precedenza, trascorrendo un pomeriggio estivo sotto le frasche di ferragosto. In un futuro prossimo, l’emozione provata sarà la stessa, priva delle sfumature accessorie: l’abbandonare le membra a una proiezione futura del sé sempre più ridotta per ragioni anagrafiche, da una parte, la stessa cosa ma con l’errata consapevolezza che le cose non hanno una fine né uno scopo dall’altra.

fantascienza di serie b

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Se sapessi che si tratta di Street Marketing chiamerei subito mio cugino Gian per dirgli che proprio sotto casa mia si sta consumando un riuscitissimo esperimento di Street Marketing. Ma considerando che sono ancora un ragazzino per me l’episodio a cui sto assistendo è poco meno di un miracolo perché c’è la realtà che incontra la fantascienza. Quella specie di supereroe che fa la pubblicità del detersivo e che vedo sempre lanciarsi nella lavatrice e che poi indefesso si tuffa nel catino con i capi più delicati e migliora l’esperienza di lavaggio dei consumatori che acquisteranno il prodotto da cui ha preso il nome ora è a un isolato da qui. Siede su una lussuosa specie di Batmobile (se fosse Batman) cabriolet e ha al suo fianco un prestante autista-aiutante tipo Robin (sempre se fosse Batman). Dalla avveniristica macchina si diffonde il noto jingle dello spot, molte casalinghe al ritorno dalla spesa si avvicinano al misterioso supereroe e ricevono in cambio campioni (anche se il vero campione è lui), curiosi e passanti si avvicinano divertiti, i bambini piccoli tirano le nonne che sono le più scettiche sull’utilità dell’operazione, d’altronde nessun personaggio del futuro può battere la caparbietà di una donna anziana negli anni settanta. Poi si avvicina l’ora di pranzo, così vedo la specie di Robin che scende dalla cabriolet e, facendo svolazzare il suo mantello, fa il suo ingresso trionfale in uno dei due panettieri che, uno di fronte all’altro, si contendono le massaie del quartiere. L’aiutante dell’eroe mascherato, anch’egli mascherato ma che se l’è tolta per non allarmare le commesse, l’episodio di Re Cecconi fulminato per una finta rapina in banca negli anni del terrorismo è ancora sulla bocca di tutti, torna in macchina con una borsa di nylon. Dalla mia finestra che è al quinto piano è comunque facile immaginarne il contenuto. L’autista e il supereroe ora sono entrambi a volto scoperto tanto la via è semi-deserta come tutti gli altri giorni feriali all’ora in cui la gente è a tavola. I due si dividono almeno mezzo chilo di focaccia appena sfornata, una cosa che a me che faccio le medie non fa nessun effetto ma ai più piccoli potrebbe suonare strana. Nel futuro o negli altri pianeti della galassia i marziani si cibano come da noi? I Rockets hanno un apparato digerente come tutti gli umani? Così non ci penso due volte, vado al telefono e chiamo subito mio cugino Gian per dirgli che qui sotto casa mia c’è il Gran Dixan che mangia la focaccia.

l’eredità

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Tra genitori e figli il passaggio dei beni in caso di decesso è un fattore delicato, non tanto per il processo in sé che è regolamentato dal diritto e infatti non mi riferivo ai cosiddetti patrimoni, quanto ai piccoli o grandi oggetti del quotidiano che viene da tenere con sé come ricordo di un padre o una madre. Le cose che stavano tanto a cuore a loro e che ci portiamo nelle nostre case con la speranza che da sole, pur nella loro immobilità, possano costituire un efficace surrogato di una persona che non c’è più. Ho parlato di speranza, ma temo si tratti più di un’illusione. Mio papà, per esempio, era un cultore di musica organistica, per lo più sacra. Ha una collezione di dischi e cd raccolti nel corso di una vita che non vi sto a descrivere. Una decina di scaffali che traboccano di musica. Ma, come molti e come me, aveva le sue preferenze e verso la fine della sua vita ascoltava pochissime cose selezionate, soprattutto la Toccata dalla Quinta Sinfonia per organo op. 42 #1 di Charles-Marie Widor. Non c’era volta in cui, nel corso delle mie visite, non mi chiedesse di ascoltare una delle numerose esecuzioni di quel brano in suo possesso e anche quando l’Alzheimer si era già portato via una parte considerevole della sua testa e del suo corpo, comunque reagiva con interesse all’incisivo attacco di quel celebre pezzo. Ho chiesto così a mia mamma il permesso di portare a casa con me il suo disco preferito, per lo più un gesto simbolico, considerando che con i sistemi che esistono ora di procurarsi contenuti musicali o anche solo l’ascolto in rete tra Spotify e Youtube ogni problema di disponibilità è ampiamente superato. Non ho ancora capito però il motivo per cui la Toccata di Widor a casa mia suona differentemente anche dal vecchio disco che era di mio papà. Ho provato a pulire accuratamente il vinile, a controllare la testina, a bilanciare diversamente l’equalizzazione, eppure il risultato non cambia. C’è una specie di patina che attutisce il timbro e grava sulle note facendole depositare da qualche parte del cuore prima di arrivare al sistema di decodifica che, in condizioni normali, collega direttamente le orecchie al cervello. Ho scoperto così che si tratta di un problema di rimpianti hi-fi, prima che di impianto stereo.

bootleg

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L’unico ad accorgersi che quello è il tema di “Summer on a solitary beach” è il parroco, viene sotto il palco improvvisato con un paio di pedane da cattedra per farmi sapere, appena distolgo lo sguardo dal mio synth monofonico, che Battiato piace anche a lui. Non posso certo deluderlo dicendogli che ho accennato quella melodia solo per attirare l’attenzione di qualcuno durante quella specie di sound check e che a tutti pensavo fuorché a lui, ma pazienza. Ci sono già molti dei partecipanti alla festa di fine anno dell’oratorio, nostri coetanei ma che sembrano appartenere a un altro pianeta sociale. Ci sono già anche quei due o tre amici che ci hanno invitato lì a suonare, si vedono anche un bel po’ di ragazze che poi quella è la cosa principale. Di certo tutti pensano che li faremo ballare, c’è l’equivoco di fondo che quelli che suonano devono per forza fare disco music e, dalla parte dei musicisti, che il pubblico è lì per ascoltare a prescindere. È presente anche qualche adulto, ci sono i catechisti e c’è mio padre che mi ha portato in macchina per via della strumentazione ed è rimasto lì, d’altronde abbiamo quindici anni ed è meglio controllare anche se in un ambiente così difficilmente ci si imbatte in abitudini trasgressive. Basta solo che a uno gli scappi “che sballo” come apprezzamento entusiasta su qualcosa che tutti corrono ai ripari. La serata comunque fila via liscia, in effetti c’è qualche pezzo ritmato su cui ci si può dimenare, liquidiamo il nostro acerbo repertorio in meno di un’ora e poi, tutti insieme, lasciamo la parola ai dischi. D’altronde abbiamo scelto di esibirci per puro diletto, mica volevamo guadagnare qualcosa. Finisce che noi cinque ce ne stiamo da parte e tutti gli altri attendono la mezzanotte insieme, la festa finisce poco dopo e noi smontiamo e torniamo a casa. La serata sarà memorabile, almeno per per me, solo perché rimarrà l’unico live della mia vita in cui ho cantato un pezzo, con un testo inventato sul momento e in un finto inglese.

ci sarà anche, da qualche parte, un presepe online interattivo e social

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Possiamo parlarci apertamente, osservanti o praticanti o niente di tutto questo, e confessarci che il presepe ci piace perché è un plastico, la riduzione in miniatura di un mondo come i trenini, le autopiste, il subbuteo e tutto quello che continua ad attirare il maschio adulto probabilmente per qualche attitudine innata al controllo sugli spazi più piccoli di noi. In casa comandano le nostre mogli, in ufficio i nostri superiori, nella vita pubblica a torto o a ragione i “grandi” che con il nostro voto deleghiamo a prendere decisioni in nostra vece, per questo appena vediamo un ambiente ridotto in scala ci viene d’istinto di andare lì e osservare ciò che è alla nostra portata, magra consolazione. Il gioco che ne deriva è proprio questo, no? Stare fermi e guardare e basta, ci sappiamo accontentare. Questo per dire che il presepe siamo noi uomini, il sesso maschile, che insistiamo per farlo. Le nostre compagne ogni anno cercano di farci desistere perché il presepe comporta disordine, roba da portare in casa dalla cantina, subbuglio, mensole da liberare ad hoc e quindi ripiani da stipare con le cose spostate per lasciare spazio alla rappresentazione della natività.

E chi se ne importa se gli elementi non sono tutti dello stesso tipo, se le proporzioni tra agnelli, certi pastori con la mercanzia in testa, il mulino e la capanna non sono proprio quelle giuste. Io per esempio ho una predilezione per una serie di casette che ha costruito mio nonno, che è mancato nel 72 e potete immaginare da quanto tempo resistono ai passaggi di mano e traslochi vari. Mio nonno era un contadino e muratore, di quelli che un tempo erano in grado di costruirsi la casa da soli, e se la cavava anche con lavoretti di falegnameria. Le sue casette del presepe riflettono la sua forma mentis rurale, ma il colpo di genio consiste nel rivestimento delle aperture delle finestre e dell’uscio con fogli di plastica rossa trasparente. Le lucine, collocate dentro, danno un effetto particolarmente suggestivo che in periodi come questi, dove basta un accordo in minore per farmi venire il magone, considerando che è il primo Natale che passo senza mio papà, danno quell’effetto mistico dei vetri colorati nelle chiese, quello in grado di convertirti se non alla religione almeno a guardarti dentro. Al nonno comunque piaceva anche il vino, ho come un ricordo di qualcosa di rosso scuro mescolato con la gazzosa nel bicchiere a pranzo, ma se così fosse significa che ho bevuto alcolici a cinque anni, probabilmente mi confondo. E ci sono altre opere del nonno: una specie di pinocchio in legno, un burattino bidimensionale costruito e assemblato nelle varie parti di profilo, e il suo capolavoro, un set completo di gusci di noce incollati sotto le zampe di un cagnolino di peluche, non chiedetemi il motivo né chi gli ha chiesto di farlo perché non ne sono a conoscenza. Sta di fatto che il cagnolino elaborato in versione rally viaggia sui pavimenti in marmo che è un piacere.

Il presepe è quindi una costante della nostra cultura catto-qualcosa perché fa parte della tradizione, è una cosa che non dovete toccare ai fanatici del crocefisso nelle scuole e della famiglia eterosessuale. Ma nemmeno ai bambini come me, come ero io intendo, quelli che si mettono a spiare questo spaccato di società immobile e pura, anche se primitiva. L’approccio al suo allestimento da parte dei più piccoli, lo avevo io e l’ho notato pure in mia figlia, è lo stesso dei giochi con gli animali e i pupazzetti. Io addirittura, suggestionato dall’attualità dei tempi – gli anni 70 – filtrata dal telegiornale delle otto, mi divertivo a tentare esperimenti come far esplodere miccette sul ponticello del fiume di carta stagnola, per emulare gli attentati e le bombe nere che erano all’ordine (nuovo) del giorno. Ed ero stato scoperto lo stesso anno in cui proprio sotto Natale avevamo avvertito una forte scossa di terremoto, con l’alto albero tutto addobbato che dondolava paurosamente a lato della tv in bianco e nero e nei pressi del camino acceso della sala da pranzo, che i miei mettevano in funzione solo per occasioni come quelle, mentre nel resto dell’anno doveva restare chiuso con una porticina di ferro, in quanto facile via di accesso per i topi dal comignolo sul tetto.

vi presento il direttore dei lavori

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Non tutti gli ambienti di lavoro sono come i nostri dove siamo tutti più o meno laureati o diplomati o X, dove X sta per i nuovi cosi triennali che vanno di moda oggi per tenere i figli lontani dalla disoccupazione, un pareggio tra l’illusione di un posto credibile e la consapevolezza che è meglio tirarla alle lunghe per stare sereni. Da noi più o meno siamo tutti educati e al massimo senti smadonnare quando si bomba il pc e non avevi salvato, o qualcuno che manda a cagare il cliente ma solo dopo essersi accertato che la telefonata è definitivamente chiusa, al massimo ci sono tipi un po’ caratteriali che si prendono a brute parole reciprocamente, poi così sono condannati all’ostracismo relazionale e finiscono per assalire di conversazioni compulsive i malcapitati che gli passano nei pressi all’ora di pranzo, con tirate sull’umidità nell’abitacolo della macchina, il bacia mano della Camusso o il pc rubato con dentro il romanzo della vita in fase di chiusura. Voglio dire, provate a incontrare un vecchio compagno delle superiori in un cantiere edile, uno che fa l’ingegnere ma non stona nella babele di lingue dell’est e del nordafrica, in mezzo a ordini e avvertimenti impartiti con grida nel fracasso di gru, betoniere, frese, mazze e trapani in una sorta di esperanto tecnico che un giorno, se si imporrà sulla nostra debole civiltà del terziario e dei social network, darà agli studiosi una visione distorta della nostra società, che sarà interpretata erroneamente come un’era di uomini di tutte le razze mescolati per il bene comune della cementificazione. A vederlo bardato con l’armatura di protezione mi veniva da fermare tutto e raccontare, a quell’underground umano a cottimo, della sua vita di piccole menzogne culminata con il plagio di una canzone altrui (leggi mia) che non sarebbe stato in grado di comporre nemmeno sotto acido lisergico, e solo per farsi bello con il flirt della vacanza in Sardegna. O anche, tempo prima, della smania di tenere l’esercito nazista dei soldatini Atlantic e di considerare la mia idea di una pizzata per tutte le truppe coinvolte nel gioco – indiani, americani, giapponesi, inglesi – poco opportuna tra ambienti così ostili. E con tutto quel baccano a malapena ho capito a cosa ti riferivi (posso darti del tu, vero?) quando mi hai chiesto se avevo concluso poi quella ricerca di scienze, che nel codice di allora significava come era finita la lettura del numero di Playboy con Nastassja Kinski, e solo quella specie di tragedia personale mista alla casualità dell’essere capitata proprio in quell’istante, noi che ci siamo incontrati dopo così tanti anni, mi ha impedito di rilanciare con la tua ossessione per il rapporto causa effetto tra l’auto-erotismo e i voti di Latino e i sensi di colpa per la media che derivava dalla pratica del sesso in autogestione. Non ci vedevamo da una vita e ci siamo visti poco prima di essere avvertiti, lì nel cantiere, della figura sotto un ponteggio che non si capiva se fosse umana o no, come quella volta che passando di fianco al cimitero in campagna di notte avevamo visto due mostri incappucciati che poi erano la nonna e la zia che ci stavano cercando perché era tardissimo. Un’ombra che invece è uno dei tuoi, uno slavo disperato per aver scoperto che la pochette piena di soldi che ha trovato (o rubato, chi lo sa) contiene in realtà banconote fac simile di un celebre gioco da tavolo, e la sua reazione è la stessa di me quando avevo intuito, ma ero davvero un bambino, che la macchina fotografica che avevo costruito con i mattoncini (i Lego dei poveri) non avrebbe mai potuto produrre istantanee come le vere Polaroid.

situazionismo padano

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Ci si mette il loden blu quando si è invitati a mangiare la cassoeula a pranzo nei giorni festivi con quel tempo che c’è solo qui, potrei aggiungere una foto a corredo – una foto del grigio uniforme, mica un selfie, per chi mi avete preso? – anche se certe mogli, meno avvezze di noi al situazionismo padano ma mi verrebbe da dire al situazionismo tout court, fanno di tutto per farci desistere sottolineando la linea obsoleta di un capo di abbigliamento ahimé ormai fuori moda che, in parole povere, ci fa sembrare vecchi. Molto più di quanto lo siamo a prescindere.

Si pedala con una bici nera con i freni a bacchetta e la mantella nella nebbia già alle quattro del pomeriggio sul pavé, anche se la nebbia a Milano non esiste più dall’89, la bici nera con i freni a bacchetta (attenzione, la “e” si pronuncia esageratamente aperta) è meglio non prenderla che alla prima sosta te la fregano. Anzi, è preferibile tenerla in garage come un pezzo da museo e cercare a qualche mercatino dei ricettatori una qualsiasi finta mtb di seconda mano da usare per andare in stazione ogni mattina. Qui da me ti rubano pure i catorci, ma c’è qualche ladro gentiluomo che in cambio ti lascia un rottame che con un po’ di olio di gomito di chi sa risistemarli, e altrettanto olio di gomito a trovarlo, uno che le risistema le biciclette, magari qualcosa ci tiri fuori ancora. Il pavé, poi, ti sfascia le natiche che ormai sono avvezze solo alle sospensioni ultra hi-tech di quei cassoni dei ricchi che ogni due per tre bloccano persino il passaggio del tram, che basterebbe anche solo non lasciarli sulle rotaie del tram ma sarei più contento se non ve li compraste neppure.

Si sfoggiano persino neonati all’Esselunga come se l’imprinting della grande distribuzione locale fosse più importante di qualunque altro tipo di battesimo, sacro o profano. L’ingresso in società qui è inteso come il tuffo nella calca alla ricerca dei prodotti al 40% minimo, per quello pure ci si veste bene e se ci sono germi poco raccomandabili per la nostra prole meglio così, è situazionismo anche quello, manifestato a vantaggio degli anticorpi.

Il sorriso con cui convincere i cingalesi che vendono fiori che in fondo siamo felici così, infine questo va nella categoria del un punto di situazionismo e mezzo punto di ripudio dell’economia sommersa, d’altronde qui c’è stato l’incubatore dell’Italia post-tangentopoli, mica puoi pensare che siamo rimasti gli stessi. Che poi parlo io che non sono nemmeno di Milano, ma mi piace applicarmi affinché lo scenario di volta in volta mi confonda al meglio con le persone, le cose, gli ambienti nel bene e nel male, nello splendore e nello squallore. Mi siedo a un tavolo di un bar con tavolini d’epoca oggi gestito dai soliti cinesi, una sambuca e il Corriere del giorno prima che quello di oggi qualcuno se l’è pure fregato, dice il barista cinese, sicuramente qualcuno dell’est.

l’annuario delle piccole storie d’amore che poi non lo sono mai state

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Tutti sembrano giustamente presi dalle proprie e altrui tragedie sentimentali, e ci mancherebbe che le storie che si chiudono o i partner di una vita che prendono il volo non debbano avere il diritto di occupazione, per meritata gravità, dei grandi spazi emotivi, artistici, letterari privati e pubblici e in alcuni atroci casi anche della cronaca. Così ho pensato che sarebbe però corretto ritagliare un angolino per le piccole delusioni amorose, gli episodi che non spezzano il cuore delle persone ma che, anche se lo scalfiscono perché la cosa è agli inizi o non c’è nemmeno una relazione sancita dalle parti ma solo un po’ di flirt o ancora meno, ti piace una e la vedi con un altro o scopri che ascolta Biagio Antonacci o che vota Grillo, per dire, ecco sono impercettibili ostacoli alla felicità che magari si stemperano nel giro di qualche giorno grazie all’amor proprio, però poi uno si può anche chiedere dove vadano effettivamente ad esaurirsi tali velleità, se ci sia o no in poche parole un cimitero delle infatuazioni temporanee. Dove vengono fatte brillare tutte queste cariche esplosive, ma giusto per una procedura fin troppo esagerata, trattandosi di ordigni a salve. Quelle volte in cui è successo che sembrava che… e invece poi niente. Quando si usavano le agende di carta, ed era un regalo natalizio piuttosto diffuso, più o meno in questo periodo si poneva l’annoso problema di copiare indirizzi e numeri di telefono su quella nuova. L’abbiamo fatto tutti, no? Ecco, molta di quella potenziale energia rimaneva lì, annidata nei contatti che non venivano trasferiti nell’anno successivo perché inutili, superati, sorpassati. Il registro degli innamoramenti con riserva veniva aggiornato proprio al netto della realtà dei fatti. Magari si trattava solo di un paio di voci, a volte una manciata, in ogni caso un sistema di fare bilanci su quanto ci eravamo spesi e quanto, l’anno successivo, ci saremmo comportati esattamente allo stesso modo.

la fila per le risposte giuste è di qua

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Se si potesse risalire alla prima domanda che si è posto un essere umano, e davvero questa volta attenti perché la prendo alla lontana, la prima domanda fatta a se stesso non si sa da chi e con chissà quale verso – immaginiamoci i primi rozzi tentativi di auto-percezione – ecco, sono pronto a scommettere che la prima domanda possa essere stata se nelle altre specie non evolute come l’uomo, e ancora provate a pensare a quanto poco evoluto fosse quell’uomo lì, se nelle altre specie animali dicevo non evolute come l’uomo possa esistere il dubbio. Che domande. Ve la immaginate una tigre con i denti a sciabola che ha paura di prendere una decisione? Un dinosauro adolescente che chiede a suo padre un consiglio, e non stiamo parlando di cartoni animati? Una di quelle primordiali creature acquatiche che conta fino a dieci prima di fare una scelta? Pensate un po’ oggi, con tutte le bestie che comunque un po’ di strada ne hanno fatta da allora. Gli animali domestici che gli manca la parola, le mucche che capiscono se tocca a loro e i maiali che si disperano per i congiunti dell’allevamento in pericolo. Nessuno di tutti gli esseri viventi protagonisti di questa storiella sarebbe comunque qui a raccontarci la propria perplessità in quel frangente, dal momento che quando si tratta di vita o di morte c’è poco da esitare. Il dubbio si manifesta nella vulnerabilità che a sua volta si traduce in inadeguatezza che, nel caso degli adulti, li fa sembrare bambini, ovvero incapaci di vivere in autonomia, badare a sé, sopravvivere nella giungla che c’è là fuori, giusto per rimanere nella stessa metafora. C’è la compassione nei crostacei? Esiste la sensibilità negli insetti? Si può trovare un equivalente di Sinking dei Cure nella cultura dei rettili, per esempio? Si fanno domande sulla weltanschauung le renne, giusto per contestualizzare l’argomento alla stagione in corso? Alle antilopi prima di farsi sbranare da un branco di leonesse passa tutta la vita davanti agli occhi come un film? Ma guardate che ce n’è anche per noi. Certe civiltà indigene, quelle che ogni tanto osserviamo sui canali di documentari e nelle trasmissioni di antropologia, una volta assicurati gli approvvigionamenti quotidiani, cosa fanno tutto il giorno?

cosa aspetti a baciarmi, vol. 3

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Alla madre snaturata che sta assicurando al figlio che non lo accompagnerà più dal dentista se lui ha così paura la costringerei a impostare come sfondo del suo smartcoso la radiografia panoramica delle mie arcate dentarie, un monito abbastanza severo per i genitori a non farsi soverchiare dalla compassione. Bisogna sapersi imporre no? Ma come se non bastasse la sua confidente invece la consola perché la figlia, che non c’è verso di farle utilizzare il trolley per portare a scuola le decine di kg di libri di testo sulle spalle e badate solo per un mero canone estetico del tutto arbitrario per un gruppetto di preadolescenti ai quali, se ci trovassimo ancora ai bei tempi della scuola gentiliana, qualcuno avrebbe già ridimensionato le velleità dispotiche a suon di bacchettate sui polpastrelli. Invece, da quanto sento, la ragazzina saltella lieta e pensosa fino in classe con un Eastpak alla moda ma a rischio di tutte le malformazioni che terminano in -osi e che riguardano una approssimativa postura della spina dorsale soggetta a sforzi completamente fuori portata. Non bisogna lasciare il potere di scelta ai figli quando sono in quella fase, soprattutto se un capriccio o un vezzo può risultare fatale. Non che non li capisca, io facevo impazzire mia mamma con il fondo dei pantaloni che un cambiamento repentino di stile aveva imposto molto stretto e chi aveva una dotazione ancora a zampa e non aveva molte possibilità di convincere i cassieri di famiglia a rinnovare il guardaroba era costretto a soluzioni di risulta. Il mio piano B era ricorrere a Zia Pina e alle sue abilità sartoriali. Pensate il divario di preoccupazioni che sussiste tra gli undici e i cinquant’anni. Anche se uno ci raccontasse cosa succede dopo ma con un bel docu-film fatto con i contro-cazzi probabilmente non ci crederemmo neppure. Alle preghiere di ragionevolezza e di pensare in tempi lunghi un qualsiasi undicenne ti potrebbe rispondere “sì ma io ne ho bisogno adesso”. La madre snaturata comunque si merita i miei piedi sulla borsa che ha posato sul pavimento del treno tra me e lei e aspetto come quel motto del cadavere e della riva del fiume che mi dica qualcosa quando la tirerà su una volta arrivata alla sua fermata. La sua confidente invece è sputata la Francesca nel periodo in cui eravamo così amici ma così amici che poi, quando Lara mi aveva convinto ad accompagnarla al Motorshow di Bologna, manifestazione di cui – sia chiaro – non mi importava una minchia, non a caso dopo aver giaciuto nello stesso letto del suo appartamento in un palazzo storicissimo di Via Castiglioni mi ero, la mattina dopo, rifiutato di pagare un biglietto per visitare stand pieni di esagitati delle due ruote e avevo optato per un sano tour tra negozi di dischi e osterie gucciniane da solo, dicevo che poi la Francesca quando ero rientrato da Bologna mi aveva detto al telefono che le ero mancato. Probabilmente si trattava di un po’ di gelosia, perché eravamo così amici ma così amici che poi, la sera stessa di ritorno dal Filmstudio, mi aveva baciato sul collo mentre guidavo, costringendomi a fermare l’auto con le quattro frecce per risolvere la situazione seduta stante.