domani compriamo la macchina nuova

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Avrete sicuramente sentito dire che uno dei pochi motivi per cui è bello trascorrere tempo guardando la tv è per via della tv della Feltrinelli. Il problema è che laEffe si vede solo su SkyTv. Non rientra cioè nella gamma delle emittenti presenti sul digitale terrestre. Ed è per questo che la moglie di Nino, mentre rientravamo in auto dal pranzo di Santo Stefano, ha imbracciato il suo smartphone dichiarando «Ora compriamo Sky!». Io ho capito subito che intendeva un abbonamento, mica tutta la rete. La moglie di Nino ha avvicinato il telefono alle labbra come fa sempre quando vuole interpellare l’oracolo di Google e ha scandito in perfetto linguaggio macchina «Quale – Offerta – Sky – Attivare – Per – Vedere – La – Effe». Ma lo sapete come vanno le cose: i motori di ricerca trovano tutto quello che non serve e alla fine ha composto un numero verde per parlare con qualcuno. Da quel poco che abbiamo capito – abbiamo attraversato svariate gallerie in autostrada e la conversazione in viva voce con l’operatrice del contact center non è stata certo delle migliori – sembra che il canale 135 si prenda solo tramite parabola. Insomma, per farla breve, trascorsi nemmeno trenta minuti la curva di dedizione all’acquisto di un abbonamento Sky era rientrata ai valori da cui era improvvisamente schizzata in alto.

È successo così anche per la friggitrice ad aria, per la nuova cintura da regalare al figlio adolescente, per l’impianto di aria condizionata per la casa, per il camper, per la radiosveglia, per l’albero di Natale nuovo, per la sostituzione della vasca da bagno con la doccia. Ma il mancato acquisto più ricorrente è quello dell’auto nuova. La differenza intanto è che la curva di dedizione per l’acquisto dell’auto nuova dura molto più di mezz’ora. La curva di dedizione per l’acquisto dell’auto nuova dura tocca il punto più elevato al ritorno dai viaggi più lunghi, quando risulta palese che la vecchia berlina di famiglia non è in grado di assicurare gli standard di comfort e di sicurezza garantiti dalla tecnologia automotive più recente. Adriana e Nino così rientrano a casa e passano in rassegna i più noti portali dedicati alla compravendita di veicoli. In alcuni casi prendono persino appuntamento con un paio di concessionarie ma poi, compreso il reale impegno economico dilazionato nel tempo che comporta una macchina nuova o usata acquistata a rate, si accommiatano dal venditore con la promessa di pensarci su. Li sentirete dire spesso «domani compriamo la macchina nuova». L’hanno detto anche ieri sera. «Domani compriamo la macchina nuova», ha detto Adriana, la moglie di Nino, ma state certi che non è vero nemmeno questa volta.

polpette di che cosa

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L’aspetto che più sorprende il visitatore è che l’Ikea è una città nella città. Dentro comprende quartieri e caseggiati, ciascuno frammentato in nuclei abitativi a loro volta frazionati in ambienti attraverso finte pareti o separé costituiti da librerie, armadi o pannelli. Una moderna metropoli multiculturale ma priva di spazi di aggregazione dedicati alla comunità, con edifici immaginari pensati senza piazze e cortili perché quello che conta è dentro la casa, il suo interno e chi lo abita.
Questo è l’incipit della prefazione all’edizione 2022 della guida turistica “Ikea” a cura di Ingo Besta, edizioni (Owner of a) Lonely Earth. Ingo Besta è un esploratore professionale di non luoghi e l’idea di pubblicare un supporto dedicato a chi sceglie di trascorrere un weekend in uno dei numerosi templi dell’arredamento prêt-à-porter svedese nasce proprio da un dato di fatto. Chi si addentra nello spazio espositivo viene così rapito dai milioni di mobili, complementi di arredo e suppellettili posizionati nelle soluzioni allestite da non notare i passaggi segreti tra un settore e quello contiguo. I percorsi segnalati sono infatti tracciati per guidare il cliente lungo la totalità dell’esperienza di visita, in una pienezza di prodotti che trova il suo apice nel market sottostante. Solo gli abitanti del luogo sanno come e dove trovare quello che cercano senza visitare tutto il superfluo e la guida di Ingo Besta ci fa sentire accolti nel posto molto di più di un cittadino onorario qualsiasi. Non mancano i consigli per mangiare e trovare ristoro senza spendere un capitale, proprio come i volumi dedicati alle mete del turismo di massa. Ma c’è di più. La guida Lonely Earth “Ikea” 2022 ci mette a disposizione gli strumenti più utili per vincere il mal d’Ikea, ovvero quella sensazione un po’ così che ci prende quando lasciamo la città per inoltrarci nei bassifondi a cercare i prodotti di cui abbiamo preso diligentemente nota tra le stanze di quel popolo immaginario che ci ha ospitato con un trasporto senza precedenti nei suoi ambienti più privati. Il piano terra svela l’arcano e cerca di indurre a una sintesi ma con un limite: dove sono tutte le cose che, viste insieme, fanno innamorare il turista? Gli ambienti destrutturati e la nuova collocazione ricomposta per tipologia di impiego si riduce agli occhi come un sottosopra da film di fantascienza. La sicurezza mossa dall’intimità domestica viene minata dalla disposizione per articolo banalizzando le totalizzanti personalizzazioni dell’esposizione a un catalogo secondo generi ed è lì che il viaggiatore realizza che il suo appartamento decostruito è uguale a tutti gli altri. I suggerimenti di Ingo Besta permettono invece di tornare al parcheggio con il carrello pieno di mobili e di certezze. Persino le polpette, una volta cucinate in padella dopo una lunga sessione di montaggio con manuale, brugole e viti, acquistano un altro sapore, anche se non è ben chiaro quale sia il nuovo e quale fosse l’originale. La guida Lonely Earth “Ikea” 2022 di Ingo Besta si conferma così un compagno di viaggio irrinunciabile per le nostre scelte di arredo e di conseguente vita in casa. 

rapporti

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Le persone che conosciamo potrebbero essere in mille modi diversi da come sono. I nostri cari, i colleghi al lavoro, certi amici e persino la gente con cui ci capita di condividere brevi sentieri della nostra vita. Il discorso vale anche per me e voi, certo, ma noi siamo fuori concorso perché qualche certezza occorre sempre mantenerla. Quindi visto che l’idea l’abbiamo avuta noi, è giusto che a cambiare ci pensino gli altri. Se sapete di qualcuno che vuole fare altrettanto, liberissimo di provarci. Questo pomeriggio mi sono guardato un po’ in giro per capire come vanno le cose. Ho preso la bici e ho pensato che un po’ di svago all’aria aperta era proprio quello che ci voleva. Andare in bici con il vento in faccia è una sorta di rimedio a tutto, una panacea. Ci sono siti e app con le mappe per i ciclisti dove puoi prepararti un percorso da seguire, con le distanze e le piste al riparo dal traffico. Sulla carta, anzi sul web, virtualmente ho già percorso centinaia di km qui intorno. La realtà però è differente. Basta qualche minuto che sento già la nostalgia di casa, del libro che sto leggendo, dello stereo e dei dischi. Poi non ho l’attrezzatura adeguata, specialmente per alleviare il fastidio del sellino, avete presente? Anche il casco, ci vorrebbe, non mi trovo a mio agio in strada, con tutte quelle macchine. Basta qualche incomprensione con la gente per capire se non è giornata per girare in bicicletta. Prendete il kebabbaro in centro, quello che ha appena cambiato gestione. Dall’ingresso è uscito un addetto alle consegne a domicilio sul monopattino elettrico a tutta velocità proprio mentre passavo lungo il tratto di pista ciclabile lì davanti. Ci siamo fermati entrambi in tempo e non è successo nulla. Poco dopo ho attirato le ire di un’automobilista che non era certa di avere spazio sufficiente per superarmi, e quando lo ha fatto l’ho sentita gridare qualcosa a sottolineare il mio incedere. Ha parcheggiato appena svoltato l’angolo successivo, l’ho guardata per capire quale fosse il problema ma, ancora chiusa in auto, ha fatto di tutto per non ricambiare l’attenzione. Così ho pensato fosse meglio rientrare a casa, dedicarmi a ciò che dicevo prima di preferire, il libro e la musica, ma poi mi sono venute in mente queste considerazioni. Ho pensato che sarebbe bello saper scrivere bene ma non necessariamente per scrivere libri, giusto solo per raccontarsi certe cose da poco che si provano quando non ci sono grandi emozioni da condividere.

a secco

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A ridosso dei diciott’anni ho svuotato il libretto dei risparmi che mi avevano attivato i miei genitori da bambino per pagarmi la patente. Il libretto era un vero e proprio opuscolo protetto da una copertina in plastica di una texture e un colore riconducibili al cuoio. Nelle pagine interne venivano registrate, a penna e con il timbro della banca, tutte le operazioni di deposito e prelievo. Sino ad allora ero stato decisamente meticoloso sull’uso dei soldi che avevo da parte. Il costo della scuola guida era di poco inferiore a quello che ero riuscito ad accumulare, anche se – a onor del vero – da qualche tempo le mie esigenze erano aumentate e, da adolescente, non avevo mai più raggiunto i livelli di risparmiatore che avevo tenuto da piccolo.

Non ricordo perché avessi scelto di procedere in autonomia per il conseguimento della patente. Non credo che i miei genitori si sarebbero opposti. Probabilmente non volevo metterli con le spalle al muro per una uscita economica non pianificata e temevo che la mia urgenza di rendermi indipendente – per modo di dire, perché tra il superamento dell’esame e l’appartarmi con la mia ragazza da qualche parte c’era la necessità di disporre di un mezzo tutto mio, ostacolo non da poco ma a cui avrei pensato in un momento successivo – passasse in secondo piano dopo le priorità dell’intero nucleo famigliare.

E infatti l’intero processo si chiuse più di due anni dopo, quando mio padre mi fece trovare a tavola, in mezzo al tovagliolo, le chiavi di una Fiat Ritmo 60 bianca. Terminai il pranzo in fretta e furia per mettermi subito alla guida della mia prima auto. Ero a digiuno di pratica e, davvero, mi sfugge la spregiudicatezza con cui mi lanciai immediatamente nel traffico.

Ho ripensato a quella sensazione più volte, durante le scorse settimane di vacanza. Ho guidato per quasi 5mila km tra Italia ed Europa e non c’è stato istante in cui mi sia sentito mai completamente rilassato al volante. Si dice che da vecchi aumentano ansie e timori, il fatto è che ho viaggiato per ore e ore assalito costantemente da svariate paure irrazionali. Che mi si guastasse l’automobile all’estero, innanzitutto, e di dover ricorrere a carro attrezzi e officina in un paese straniero. Non ho più la Ritmo da trent’anni ma sono proprietario di un veicolo del 2007 che fa tutt’ora il suo dovere egregiamente, però non sempre ispira fiducia, tantomeno per un’impresa itinerante così impegnativa. Il mercato automobilistico è un continuo cambiare le carte in tavola sempre più frenetico per linee, tecnologia e approccio, e oggi una macchina di quattordici anni non trasmette affatto sicurezza. Scarrozzare la propria famiglia in giro, poi, ti fa sentire doppiamente preoccupato, perché oltre all’incolumità di chi guida c’è anche quella dei propri cari. E portare sulle strade un mezzo del cui controllo sei tu il responsabile è comunque un compito per nulla secondario.

Ma il timore che più mi vergogno di aver provato è quello di trovarmi senza carburante, di sbagliare i calcoli sulle distanze da percorrere e consumo di litri per chilometro. Guidavo sbirciando in continuazione l’indicatore del serbatoio tentando previsioni sullo spostamento della lancetta, che comunque sulla mia auto lo si può percepire in tempo reale. Ho invidiato, seduto all’interno dell’abitacolo ampiamente superato in quanto a optional per gli standard delle macchine di nuova generazione, i veicoli che mi sorpassavano e le loro prestazioni pensate per una mobilità moderna e sostenibile. Centinaia e centinaia di km con un pieno a fronte della mia necessità di soste continue per consentire al motore di raffreddarsi e, a me, di riposarmi dalla concentrazione imposta dal viaggio e tutte queste paure.

Naturalmente, come è facile immaginare, poi è filato tutto liscio. Si è accesa la spia dell’olio motore solo una volta, l’auto ha i suoi anni e lunghi percorsi a velocità elevate la costringono a funzionare a ritmi probabilmente fuori dalla sua portata. Il trucco è stare sotto i 110 e portare sempre con sé un paio di confezioni di olio da aggiungere. Quando ho parcheggiato sotto casa, a vacanza finita, ho sfilato la chiave pensando a come la vera ricchezza consista proprio nell’aver la possibilità di comprare risposte efficaci alle proprie paure – anche quelle infondate – e mi sono chiesto se, davvero, circondarsi del meglio sia la chiave per vivere in serenità.

in miniatura

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Alla fine hanno scelto tutti di restare o tornare bambini e l’umanità si è trovata completamente priva di adulti, con tutto ciò che comporta. Avete presente cosa ci vuole per procreare? O anche solo le competenze per portare a termine un intervento chirurgico, costruire un microchip, preparare una torta, contare fino a un milione, girare un film con un storia che abbia un inizio e una fine e una trama coerente, esportare dei prodotti in oriente, compilare la dichiarazione dei redditi, guidare un aereo ma anche un camioncino, organizzare una vacanza, conoscere qualche fondamento di chimica per non avvelenarsi, riconoscere una truffa, giocare in borsa, anche se tutte queste cose, senza gli adulti, non solo non sono possibili ma nemmeno immaginabili. Le cose sono andate così: una tizia ha scritto come status di Whatsapp: “Non mi interessa nulla dell’essere adulti. I soldi, l’indipendenza, le relazioni, il lavoro. Stasera voglio solo avere dieci anni e mettermi a fare i compiti delle vacanze sul tavolo in cucina dopo aver passato tutta la giornata al mare”. Il fatto è che ha premuto una combinazione di tasti sullo smartphone che funziona un po’ come la lampada e il genio che esce fuori, ma con conseguenze molto, molto più gravi e irrimediabili. Un virus si è diffuso su tutta la rete e così alla fine hanno scelto tutti di restare o tornare bambini e l’umanità si è trovata completamente priva di adulti, con tutto ciò che comporta. Pure io adesso ho dieci anni, ma prima di regredire sono riuscito a salvare in bozza questo post.

lettori di agosto

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Conosco diverse persone a cui non piace viaggiare e, credetemi, non è il caso di biasimarle. Il viaggio comporta una serie di difficoltà da affrontare, di responsabilità di cui farsi carico e di scelte da prendere, per noi stessi ma molto spesso per chi ci accompagna perché difficilmente viaggiamo da soli, anche se viaggiare da soli è una figata che non ha paragoni. Il fatto è che noi italiani siamo ancora legati al calendario dettato dalla Fiat e da tutto il suo ecosistema e indotto che imponeva di prendere le ferie in agosto. Oggi la Fiat non esiste più, l’ecosistema probabilmente è soggetto al calendario cinese, nonostante ciò continuiamo a fare vacanze in agosto. Occorre quindi manifestare tutta la nostra solidarietà a coloro ai quali non piace viaggiare e, di conseguenza, sono costretti a fare cose alternative durante le settimane di ferie imposte in agosto. Tenendo conto che ovunque è tutto chiuso, ci sono quaranta gradi, c’è il Covid, la tv è una merda, ci sono i gatti degli amici – che invece partono – da curare e cose così. Perché se a chi non piace viaggiare fosse consentito di prendere ferie in altri periodi dell’anno sono certo se la passerebbe meglio e, a dirla tutta, la formula potrebbe interessare anche a gente come me. Voglio dire, non vi piacerebbe staccare due o tre settimane a marzo? O a giugno? Parliamone. In altri periodi, con tutto aperto, uno a cui non piace viaggiare potrebbe godersi davvero il posto in cui vive. Vederlo sotto una luce diversa dalla canicola di ferragosto, l’asfalto che brucia e nemmeno una pizzeria aperta in giro. Per farvi capire quanto sono disperati quelli a cui non piace viaggiare vi dico solo che il numero di lettori di blog come questo, nelle settimane centrali di agosto, cresce a dismisura. E non credo che leggere articoli inutili o deprimenti sia un passatempo adatto a chi ozia sulla sdraio in una spiaggia della Sardegna del sud. Secondo me è gente che sta a casa, che le ha provate tutte e che sta raschiando il fondo del barile per trovare qualcosa da fare. Amici lettori a cui non piace viaggiare, mettetevi comodi: questo post è tutto per voi.

titolo provvisorio

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I viaggi che organizziamo per trascorrere le vacanze in agosto servono principalmente per consumare le ferie arretrate da noi stessi. Partiamo e andiamo via da ciò che siamo tutto l’anno e, per qualche settimana, facciamo finta di preferire le parole delle persone con cui ci accompagniamo a quel mantra di cose che ci sentiamo ripetere da sempre nella testa dal nostro abituale interlocutore interiore, pensieri sempre uguali con l’aggravante del tempo che dilata la nostra memoria e li fa sembrare sempre più oggetti puzzolenti di muffa da mercatino dell’antiquariato. Distanti da noi stessi portiamo solo qualche cianfrusaglia emotiva giusto per poter dimostrare, quando occorre, le nostre generalità. Un paio di libri, il computer con cui scrivere cose come questa sul nostro blog, le password di accesso ai servizi di streaming musicali e cinematografici che non si sa mai.

Seduto sul divano di casa, insieme al gatto nutrito e controllato da qualche vicino di fiducia, resta il nostro esoscheletro nella posizione segnaposto con cui ci lasciamo vivere il resto dell’anno, nemmeno fossimo un insetto qualunque. A quel simulacro di noi stessi, che torneremo a indossare al termine della vacanza come una tuta del Decathlon macchiata qualsiasi, abbiamo lasciato in custodia tutto ciò che tiene caldo a partire dalla depressione che ci coglie ogni fottuto agosto e, davvero, meno male che abbiamo messo da parte due lire per muoverci altrove.

Giunti a destinazione, disponiamo con cura nei cassetti dell’appartamento che abbiamo affittato tramite Airbnb – alla faccia di chi ha paura della gentrificazione – il bagaglio di ansie a cui non possiamo rinunciare e che ha condiviso il viaggio insieme a noi ben stipato nel Thule porta-tutto. La provvista di sogni ricorrenti che ci siamo portati da casa invece consente un rilascio graduale notturno a copertura di tutto il periodo di permanenza e, come quel sistema per cui Google all’estero ti restituisce risultati nella lingua del paese in cui ti trovi, il nostro subconscio programma un palinsesto estivo decontestualizzato dalle preoccupazioni stringenti del quotidiano invernale, una sorta di Techetechetè personale ma molto, molto più appassionante. Ecco quindi trasmissioni oniriche che non andavano più in onda da decenni con attori e comparse di cui avevamo perso le tracce pure su Facebook.

Poi, a metà viaggio, quando sembrano mesi che siamo via di casa e il rientro risulta così distante da non costituire alcuna preoccupazione, ci chiediamo regolarmente il senso delle cose e tentiamo risposte alle grandi domande della nostra vita. Gli stranieri che ci ospitano esistono davvero o stiamo partecipando a un reality? Chi ci crediamo di essere per sventare il complotto di chi sostiene che la terra sia tonda se, volando fino a qui, abbiamo notato qualche curvatura? Perché Marcell Jacobs vuole disinteressarsi del tema dello ius soli e segue Salvini sui social? Per tutto ciò non ci sono certezze, delle notizie sbirciamo solo i push sui nostri smartphone e poi camminiamo e basta. Camminiamo per km e km, controlliamo i passi su Google Fit, guardiamo le case diverse, le persone diverse, i menu diversi scritti in una lingua diversa. In tutto questo, le risorse per bearsi nello spleen sono davvero poche. Meglio risparmiare per una birra in più perché, si sa, all’estero per gli italiani è tutto molto più caro.

background

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Il mio compagno di banco si chiamava Roberto come me e come milioni di altri Roberti nati negli anni sessanta. Ci ha messo cinque anni a finire le medie e io me lo sono ritrovato in classe in terza. Gli ho dato una mano a preparare l’esame perché era simpatico ma anche perché la sua famiglia gestisce tutt’ora la pizzeria migliore della città. Studiavamo da lui e a merenda ci servivano spesso una margherita preparata alla napoletana, accompagnata da un bicchiere di Pepsi con ghiaccio e limone. Quando ho saputo che la figlia di uno dei masterchef frequenta lo stesso liceo della mia ho pensato così al menu delle festicciole che darà per i suoi compagni di classe, sempre che una celebrità di quel livello dia delle festicciole, si presti a far da mangiare per gli invitati e che la figlia abbia degli amici. Spero si noti la fortissima invidia per chi può dire di avere un genitore di quel rango. Per questo stesso motivo non credo che, quando si presenterà l’occasione, sceglierò di tenere il quadro che sovrasta il letto in cui dorme mia mamma, un dipinto che si sono regalati lei e mio papà molti anni fa e che ha accompagnato buona parte della loro vita matrimoniale. Perderò la possibilità di mettere le mani su un’opera di grande valore affettivo e di poche decine di Euro ma proprio non mi piace, a differenza del quadro che mi ha regalato la zia di mio padre, mia madrina nel paio di sacramenti di cui sono stato beneficiato. Pochi mesi prima che morisse, memore di quanto ne fossi attratto, zia Giulia ha dato disposizioni affinché la sua badante si occupasse di incorniciarlo a modo e me ne facesse dono. Anche in questo caso non si tratta certo di un pezzo da museo, però ha uno stile piuttosto originale che, inserito nell’arredamento del mio soggiorno, fa la sua figura.

Il quadro dei miei invece è stato realizzato da un artista noto nella comunità da cui proveniamo entrambi. Frequentavo i suoi figli, il più grande giocava a basket con me e con la sorellina addirittura – anni dopo – ci siamo baciati ma poi è finita lì. Ultimamente vedo spesso celebrato il padre pittore nelle pagine di cultura locale sui social network di massa, probabilmente ricorre l’anniversario della sua prematura scomparsa. Ho osservato con attenzione vecchie foto loro pubblicate – i figli sono rimasti orfani poco più che adolescenti – e ho notato la luce negli occhi di tutti i componenti di quel nucleo famigliare. Padre, madre, figlio e figlia, splendenti di quella bellezza che tocca pochi fortunati passeggeri di questo mondo. Gente destinata a compiere gesta esclusive e a una vita al riparo dall’ordinarietà, aspetti che si comprendono dal modo in cui rimanevano ritratti nelle fotografie e dalla scelta dello sfondo in cui sceglievano di scattarle.

Non mi piace guardare le vecchie foto di famiglia ma di recente, in occasione di una visita a mia mamma, mia figlia me lo ha chiesto e non mi è stato possibile sottrarmi. Qui a casa mia non ne ho nemmeno una, se non qualcuna scattata con le band in cui ho suonato e un intero servizio di quando giravo conciato come Robert Smith. Le vecchie foto di me bambino e della mia famiglia che ha conservato mia mamma – foto in località di villeggiatura, ricorrenze con parenti e altre occasioni altrettanto semplici – colpiscono per lo sfondo dimesso. Neve sporca, automobili parcheggiate, sconosciuti di spalle o di passaggio, ciminiere in lontananza, edilizia popolare, recinzioni instabili, tinte male abbinate, pannelli pubblicitari. Prima delle fotocamere digitali e degli smartphone le foto si facevano così. Si metteva l’occhio nel mirino, si serrava l’altro, si chiedeva di stare immobili e di sorridere, si scattava, si portava il rullino a sviluppare e ci si beava del risultato. Mi sono chiesto chi fosse l’incaricato alla documentazione delle occasioni importanti e dei momenti particolari e perché, chi ci scattava le foto, non si preoccupasse dell’inquadratura o almeno non ci chiedesse di spostarci in un punto diverso, di fare attenzione a tenere gli occhi ben aperti, di trasmettere ai posteri un messaggio più comprensibile, un futuro più facile da indovinare.

seconda casa

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Piove ogni giorno alla stessa ora, c’è gente che sfreccia in monopattino ovunque, ce ne sono altre che camminano in fretta con la mascherina. Se qualcuno dall’altra parte del pianeta si chiedesse che cosa succede dall’altra parte del pianeta, cioè qui da noi, questo potrebbe essere l’inizio di una storia. Ma mi accontenterei se fosse il testo di una risposta da inserire nella seconda edizione del libro che raccoglie molte delle e-mail che ho inviato dalla casella di posta dell’ufficio in cui lavoravo prima. D’altronde la letteratura epistolare è vecchia quanto la scoperta che si possono tessere relazioni a distanza. Ora si fa presto, grazie a Internet, ma non per questo le conversazioni in differita come le conoscevamo prima sono cessate. Il mio editor ne ha approfittato per togliere quelle più laconiche, con risposte tipo “perfetto, grazie” oppure “ok” ma, a onor del vero, erano davvero poche. Impegnarsi nella scrittura in modo cordiale ed esaustivo, oltreché puntando sulla correttezza della forma, può aprirvi molte opportunità in questo caos di scrittori e self publishing. Ho insistito però affinché fosse mantenuto un ricco scambio raccolto in un’unica e-mail in cui, a causa di inoltro a terzi estranei al carteggio, avevo lasciato per errore un paio di considerazioni poco rispettose dell’interlocutore. Si trattava di un cliente e per fortuna che non sono state mai lette dall’interessato, probabilmente avrei perso il posto. Peraltro il format, un po’ come accaduto per le lettere degli apostoli o le ultime – più celebri – di Jacopo Ortis, è molto più accessibile rispetto a un romanzo e se proprio non trovate uno spunto su cui lavorare ve lo stra-consiglio per tenere alta l’attenzione sulla vostra attività. Sto lavorando proprio a un romanzo su uno scrittore che fonda la sua nuova vita post-pandemia dando alle stampe un po’ di scambi sui social a cui si è dedicato durante lo scorso lockdown. Ora sono al punto in cui, terrorizzato dall’imminente nuovo blocco totale per la variante delta, decide di trasferirsi nella seconda casa, cosa che io non farei mai perché non ho una seconda casa e, nel caso, non saprei con che mobili arredarla. Dice mia moglie che un conto è affittarla, un conto possederla e personalizzarla. La proprietà infatti induce le persone a considerarla una sorta di emanazione dei principali spazi che siamo abituati ad abitare. Pensavo di attribuire al protagonista una turba causata dal remote working, quella di tenere la mascherina per non sentirsi costretto a indossare un ponte di denti finti e poter parlare da solo, per strada. Vedremo.

barriera

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In un futuro prossimo, in un bel mix bilanciato tra distopia e ucronia, la gente ne ha due coglioni così del calcio come lo conosciamo noi spettatori degli Europei 2020 e la FIFA, per dare un po’ di brio al gioco e non perdere sponsor a causa della disaffezione dei tifosi, cambia alcune regole. Si riuniscono i più importanti dirigenti, gli allenatori più blasonati, i calciatori più forti e i vertici delle tifoserie e stabiliscono che, da quel momento in poi, l’autogol cambia la prospettiva delle partite e la rete realizzata viene conteggiata a favore della squadra che l’ha subita. In poche parole, i giocatori possono segnare sia nella porta della compagine avversaria che nella propria. Succede così che l’obiettivo dei calciatori è, allo stesso tempo, fare gol come hanno sempre fatto, cercare di realizzare nella propria porta (in questo caso il portiere si fa da parte per lasciare passare la palla), e impedire che la squadra avversaria realizzi un autogol perché, nel caso, aumenterebbe il proprio punteggio. Le azioni possono quindi svilupparsi in un senso o in un altro e i portieri devono prestare attenzione a chi tira: se è un compagno di squadra meglio stare immobili, se è un avversario respingere il pallone in modo da favorire i propri difensori affinché segnino nella propria porta. Lo slancio difensivo per un contropiede altrui può trasformarsi, dopo aver intercettato la palla, in un’azione di autogol. Una seconda regola riguarda invece l’arbitro che è tenuto a usare lo spray per delimitare l’esatta posizione di un calcio piazzato a seguito di un fallo in modo creativo. Sarà compito del VAR valutare la bellezza dell’opera dipinta in bianco sul prato intorno al punto da cui dovrà essere battuto il calcio di punizione e a conferire quanti gol meriti il direttore di gara. L’arbitro assurgerà al ruolo di terza squadra vera e propria e, in caso di punteggio superiore alle due sfidanti, potrà aggiudicarsi l’incontro.