companytelling

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Mia mamma, 73 anni, non ha ancora ben capito in cosa consista il mio lavoro, benché io mi occupi più o meno della stessa cosa da oltre 15 anni. Probabilmente, non essendo chiaro nemmeno a me, non sono mai stato esaustivo con lei. In più, sebbene i dati della penetrazione di Internet e le nuove tecnologie nella terza età confermino un trend di crescita, mia mamma appartiene ancora a quella fetta di âgé che, parlando al telefono, aumentano il tono della voce maggiore è la distanza che li separa dall’interlocutore. Ancora a disagio con le vecchie tecnologie, le nuove – la cui curva di apprendimento sembra essere comunque più rapida rispetto a un forno a microonde, per esempio – sono ancora fuori portata. Ma, al di là del mezzo, c’è anche un problema di messaggio. E per un permalosone che si occupa di contenuti, un affronto materno può essere deleterio per l’autostima, più che qualsiasi altra cosa. Sentite qui.

Ospito la mamma da me per un paio di giorni, in attesa di un ricovero in una delle strutture del sistema sanitario lombardo (che a un ligure fanno ancora l’impressione di una visita con il Dottor Spock sull’Enterprise). In attesa di consumare una frugale cena, mi chiede di mostrarle “una delle riviste su cui scrivo”. E, vi giuro, non ho mai gonfiato la portata della mia attività, non sono un millantatore né un fanfarone (almeno non con la mia mamma). Non mi sono mai dichiarato giornalista.

Il mio mestiere di copy consiste principalmente nel raccontare le aziende. Sintetizzare ed esplodere attività, tradurre il lavoro altrui in un linguaggio comprensibile a profani e a sacri, volevo dire agli addetti. Tutto questo principalmente in ambito ICT. C’è un ma. Purtroppo si tratta di un mercato saturo, ed è facile immaginare il perché. E, soprattutto, in momenti in cui diminuisce il lavoro altrui c’è ben poco di cui parlare. L’umore è così crollato improvvisamente, e allora ho fatto finta. Giusto per tirarmela un po’, le ho mostrato questa pagina Internet, quella che state vedendo, ma come si presentava ieri sera, prima di scrivere il qui presente post. “Mamma, sono un bloggher“. “Ah. E sono queste le cose che scrivi per la C…o?”.

Colto in fallo, identificata l’informazione mendace, il bug di quella comunicazione, sono arrossito. Mia madre si ricorda del mio principale cliente, probabilmente perché vede le pubblicità alla tivvù, da quando è diventato consumer. Ma, cosa più importante, mia mamma si accorge se suo figlio le dice o meno la verità. Così sono andato sul sito della C…o, nella sezione case study, e lo mostrato un po’ di customer testimonial e i video a corredo che ho realizzato nell’agenzia in cui lavoro. “Ah“, ha ripetuto. A quel punto Fabio Fazio ha chiamato in scena Luciana Littizzetto, mia mamma ha tolto le lenti bifocali e non ha più badato al frutto del mio lavoro, evitandomi una lunga spiegazione su tematiche quali collaboration e unified communication. E lì ho pensato che il marketing non può nulla contro l’entertainment. Chissà, forse di fronte a un post come questo nulla l’avrebbe distratta. Chissà.

non fatemi parlare

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ma gli androidi sognano un posto pubblico?

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Io ne ho viste cose che voi statali non potreste immaginarvi. Suv aziendali da 60mila euro al largo delle reception delle multinazionali. E ho visto CEO balenare nel buio vicino alle porte dei Direttori Marketing. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come Stock Options nei Fringe Benefit. È tempo di cambiare lavoro.

 

 

 

millenovecentoduepuntozero

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Probabilmente, le Giornate Marconiane devono essere tenute per statuto da coetanei del grande inventore. Nell’angolo di Pierani l’età media dei relatori che interverranno al convegno introduttivo intitolato “ICT, Italia. Idee, rischi, opportunità” fa più di 68. (via manteblog).

 

il lavoro rende liberi di aspettare

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Sotto l’ufficio di S., al piano terra, c’è una di quelle agenzie duepuntozero molto gheddaun e hipster, peraltro in attività da una decina d’anni, questo a prova che l’essere gheddaun e hipster nel mondo della creatività e della comunicazione digitale è comunque un sistema di sopravvivenza. E molto probabilmente non si tratta di gheddaunness e hipstership (dio mio, ma come sto scrivendo?) omologate, ma di una vera e propria alternativa al mood alternativo. Sapete, comunque, di cosa S. sta parlando. Open space, distesa di mele con il computer intorno, cataste di Wired in abbonamento all’ingresso e via dicendo. Caratteristiche estetiche che, spesso, nella sostanza distraggono il prospect dall’alto turn over e dai contratti stilati con inchiostro simpatico a gggiovani collaboratori e stagisti, con lauree brevissime in tutto quanto fa comunicazione.

L’organigramma, sono parole di S., è una cascata di geek e indie e indie/geek con qualche rara voce fuori dal coro: il rasta che non fa pausa sigaretta perché fa pausa canna, il nerd programmatore che appena può si sistema in Accenture e via dicendo. In questo scenario, S. mi racconta di una ragazza di cui non conosce il nome – chiamiamola E. – con cui si incrocia ogni mattina nell’androne. E., da qualche mese, è in forza all’agenzia gheddaun e hipster. S. entra infreddolito (siamo in inverno) e chiama l’ascensore, la cui porta si trova a fianco dell’ingresso dell’agenzia gheddaun e hipster. Canticchia, fischietta o, è lui a confessarmelo, a volte borbotta da solo (questo è il risultato di 15 anni di esperienza nel campo dei new media, trecentosessantacinque giorni l’anno a confrontarsi solo e unicamente con intelligenze artificiali. Parlare da soli è una delle più comuni conseguenze: è profondamente ingiusto biasimare i creativi).

Poi avverte la presenza e si gira. Sdraiata sul muretto, sotto la finestrona che dà sul cortile, c’è lei: E. Un concentrato di tutto quello a cui puoi associare il concetto di agenzie geddaun, ovvero (dall’alto verso il basso): taglio a caschetto con ciuffone tendente all’emo, auricolari conficcati nelle orecchie tra lobi ricolmi di anellini i cui cavi portano a i-phone di ordinanza tra pollici in continuo fermento (skippare brani dalla playlist, rispondere a messaggi e commentare commenti degli amici su FB) e che talvolta lascia il posto a un libro, giacca blu scuro con spillette di gruppi inesistenti, foulard, pantalone stretto sulle caviglie e all-star pelose e nere. Età: tra i venti e trenta.

Cosa ci fa la nostra indie-girl alle otto e quarantacinque del mattino, in un portone della city? Aspetta che l’agenzia gheddaun e hipster apra i battenti, non prima delle nove se non nove e trenta. Si, avete letto bene. I soci dell’agenzia, probabilmente gli unici ad avere a disposizione le chiavi e il codice dell’allarme, entrano con la dovuta calma. Magari stanno facendo colazione al bar delle modelle, all’angolo, e se ne fottono. La nostra E., proveniendo da chissà dove con chissà quale treno a chissà quale ora in chissà quale stazione, non ha scampo: quella è l’unica ora utile a cui arrivare per non rischiare il ritardo. E, in modo intelligente, anziché guardare nel vuoto, consumare il proprio rimborso spese nei bar del centro o respirare smog fresco di giornata passeggiando in circonvallazione, ha fatto dell’androne il suo riparo temporaneo prima di immolarsi al marketing digitale.

Il pippotto di S., spropositamente lungo, lascia trapelare un po’ di tenerezza verso quella giovane adulta costretta a prolungare la propria adolescenza oltre i livelli di guardia a causa della peggiore situazione economica del dopoguerra, che ha lasciato l’imprenditoria in mano a una generazione di fanfaroni. Perché S. è certo che tra qualche mese, quando ineluttabile sorgerà il sole sul giorno della scadenza del suo contratto farlocco firmato da ambe le parti con l’inchiostro simpatico di cui sopra, E. tornerà nel suo cyberspazio fatto di newsletter di offerte di lavoro, lavorifighipuntocom e così via. A nulla sarà valso quel sacrificio, il dedicare quotidianamente ore della sua vita in quell’anticamera della produttività senza un mazzo di chiavi utile ad anticipare la sua giornata lavorativa, di conseguenza la fine della stessa, di conseguenza il ritorno a casa, di conseguenza a vivere la sua vita privata decorosamente.

Ho suggerito a S. così di costituire un club di solidarietà, tutti i creativi e i web designer e i flash developer e gli art director e gli online strategist e i video producer e i social media content manager uniti, se occorre mi rendo disponibile in prima persona per un dj set visto che i copy sono più che ridondanti, alle otto e quaranticinque con tè caldo e biscotti nell’androne di quel palazzo anni cinquanta, ad aspettare i soci proprietari dell’agenzia hipster-gheddaun. Una sorta di flash mob contro chi, dei flash mob, si riempe la bocca e i powerpoint e cerca di venderli alle multinazionali. E dàtele un mazzo di chiavi, che diamine. Barboni.

i love radio rock

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Ma la radio esiste ancora? Me ne accorgo solo quando mi sparo, come è successo ieri, 800 km in macchina in meno di 24 ore. Ed è un peccato essere disabituati all’intrattenimento freddo, quello che puoi esercitare facendo altro. Peraltro, ogni volta che mi capita scopro qualcosa di nuovo. Lo zapping radiofonico si conferma il mio passatempo preferito, una semplificazione di quanto facevo da ragazzino: mani pronte sul radioregistratore a cassette, schiacciavo con riflesso immediato il pulsante rec ogni volta in cui, passando da una stazione alla successiva, riconoscevo le note di un pezzo a me gradito. Addirittura, nell’era analogica, c’era l’abitudine (almeno io lo facevo) di chiamare durante i programmi di canzoni a richiesta delle emittenti locali per richiedere i brani, implorando gli speaker di trasmetterli integralmente senza parlarci sopra, in modo da poterli registrare puliti. E la mania di cercare continuamente qualcosa di interessante, anziché subire le proposte dei conduttori, la pratico tuttora, benché pericolosa se la strada è trafficata. Ora che le emittenti locali libere sono storia e i network commerciali hanno ucciso la radio più dei video, faccio sempre più fatica a fermarmi su qualcosa di interessante. Che alla fine, scopro essere trasmesso dalle emittenti pubbliche. Ci sono però alcune riflessioni che ho raccolto guidando, e che ora provo a riportare qui.

Virgin Radio. La conoscete vero? Me la immagino come un incommensurabile mediaplayer, una stazione orbitante tipo l’Enterprise ferma in qualche punto indefinibile dell’etere, o una entità astratta in una sorta di dimensione parallela, dalla cui memoria infinita si irradia random ogni cosa possa essere categorizzata con rock. Quindi tutto tranne musica classica e Gigi D’alessio. Si passa con assoluta nonchalance dagli Scorpions ai Pitura Freska, dai Massive Attack ai Motorhead, da Simon&Garfunkel ai Negramaro. In realtà è difficile capire, se si viaggia ai 120 all’ora e si è possessori di un impianto low fi come il mio, il pezzo trasmesso almeno fino al primo ritornello. A volte non prima dell’ultima nota, se si tratta di una trasmissione condotta da qualcuno e questo qualcuno ha il buon cuore di ricordare il titolo del brano. Credo sia in realtà un problema generale di equalizzazione delle trasmissioni, perché mi capita solo con Virgin Radio. Risulta tutto uguale, tutto piatto, chitarroni distorti e charleston aperti con voci perfettamente amalgamate con il rumore del motore. Un indistinto grgsxtrstrgxgxgsrtsrtzzzgrstrztrtstzrgggsrsrstz. Quindi se non afferro la musica, o se non riesco a orientarmi nel ritmo e a non trovare nemmeno l’uno di un banale bum-cha-bumbum-cha, sono in grado di riconoscere l’emittente senza nemmeno leggere il display. Ogni canzone poi sfuma sul jingle. Ma c’è bisogno di metterlo in onda dopo ogni fucking pezzo trasmesso? Una canzone, un jingle. Una canzone, un jingle. Per non parlare degli effetti sotto la voce del diggei di turno, roba tipo ovazioni e applausi da concerto live dei Guns. Voglio dire: come se non ci fosse già abbastanza rumore, nelle automobili medie. Come se non trasmetteste musica che fa già abbastanza casino.

Radio Maria. So di non essere il primo a sollevare il problema. L’unica emittente che si sente ovunque: tra i tornanti delle Alpi, nei sentieri impervi e sterrati che portano alle spiagge più nascoste della costa sarda, sotto i numerosi tunnel della riviera ligure. L’unico segnale umano che si coglie alla radio quando si pensa di essere il più lontano possibile dalla presenza dell’uomo è solo uno. Radio Maria. Non mi è difficile dare una spiegazione. La sua onnipresenza ha in sé un valore prettamente simbolico: l’eucologia ti raggiunge ovunque, in modulazione di frequenza. Ma non riesco a cogliere il valore della preghiera alla radio, e, a dir la verità, mi inquieta non poco. Comunque, i dati Audiradio parlano di 1.644.000 ascoltatori giornalieri (nel 2009).

Radio Padania Libera. Ieri pensavo che se Bersani sostiene di non credere che il 30% degli elettori italiani che nell’Italia settentrionale vota Lega Nord non sia razzista, potrebbe essere un’idea dedicare un po’ di energie a elevare il livello qualitativo della musica trasmessa sull’emittente del senatur. Farceli amici in casa loro. Potrei propormi per un programma di proposte indie-rock, roba alternativa, e vedere come reagiscono i giovani militanti ai National. Il cui nome forse non è dei più appropriati. Si tratta di un mercato da non sottovalutare.

Lifegate. Se non fosse che si prendono così sul serio, non sarebbe male.

La musica. In un campione statistico di 4 ore di ascolto e zapping in FM, credo di essermi fermato ad ascoltare non più di una dozzina di brani. Molti super classici, qualche pezzo di Sanremo, qualcosa che mi ha incuriosito. Per il resto, spazzatura. Tantissimi anni ’80, ovviamente il peggio del periodo. Qualche sorprendente eccezione, come The magnificent seven dei Clash. Ho preso nota però di alcuni pezzi che becco sempre, tutte le volte che accendo la radio. Ve lo giuro. Qualche esempio? The captain of her heart, I’ve been thinking about you, Could you be loved, My sharona, C’è un diavolo in me, e uno dei numerosi pezzi che non riesco a dinstinguere, tanto sono simili tra loro, di Biagio Antonacci.

Gli speaker. Ieri capito casualmente su una intervista a Giusy Ferreri, non ricordo l’emittente. Alla fine capisco che il conduttore del programma è Federico l’olandese volante. Anche la radio, come la tv, si rinnova spesso, penso. Poi, alla quarta voce uguale alle altre che tra battute, volgarità, scherzi telefonici (ancora?!? siamo ancora agli scherzi telefonici come format di intrattenimento?!?) e luoghi comuni, torno su Federico l’olandese volante e rimpiango pure Awanagana e Robertino di Radio Monte Carlo. Tiè.

La riflessione finisce quando, più o meno all’altezza di Alessandria, rientro nel raggio di diffusione di Radio Popolare. Che avrà i suoi limiti (a volte faccio un gioco. Faccio finta di essere un elettore di centrodestra, o un indeciso, o uno che non si interessa di politica, e mi sintonizzo su Radio Popolare, dicendo – fa parte del gioco – “Proviamo ad avvicinarmi un po’ alle idee e alla cultura di sinistra”. Quasi sempre perdo.), ma almeno fa radio con cura. Réclame.

direzione didattica

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Un pour parler sulla scuola, ispirato principalmente da 2 spunti. L’aver rintracciato con piacere su Facebook la figlia della mia maestra, una delle figure di riferimento più importanti della mia vita (e qui ahimé non possono mettere alcun link di approfondimento), e il post di Leonardo Tondelli presente qui, che ha come argomento Internet, cyborg e lavagne interattive. In più, una spruzzata di un articolo di Giuseppe Graneri su l’Espresso online, che ho già ripreso in un post precedente.

Noi, in classe, – sto parlando delle elementari – avevamo due cervelloni. Uno si chiamava Enciclopedia, che rispetto a Internet aveva il limite di diventare obsoleto rapidamente, anche se prima della scienza dell’informazione tutto era più lento. Ci si metteva più tempo a cercare le informazioni, a trovarle e a interpretarle per arrivare a identificare la vera risposta che si cercava. Si sapeva, o perlomeno si supponeva di sapere chi aveva scritto quella risposta: voglio dire, l’autorevolezza di una redazione preposta alla stesura di un’enciclopedia era fuori discussione. Questo non significa che l’intelligenza collettiva cui fa riferimento Leonardo sia meno autorevole. Diciamo che è meno controllabile, che se anche l’intelligenza collettiva di Internet è in grado di smentire se stessa, lo può fare smentendo la smentita all’infinito. La fonte Treccani, voglio dire, aveva in sé la purezza di essere una fonte vergine da commenti. Dice Graneri: “stiamo vivendo una transizione importante: non ci interessa più “possedere” un’informazione, ma piuttosto ci interessa sapere dove cercarla quando ci serve“. Internet è uno strumento che ci consente di accelerare questo processo di ricerca, e ha sostituito l’andare in biblioteca, sfruttarne il reference, definire il percorso per organizzare le informazioni. Ora basta una domanda, addirittura non esiste più nemmeno il linguaggio macchina per interloquire con il cervello artificiale. Non so quantificare la percentuale di intelligenza che Google sottrae all’essere umano, sostituendosi in questa fase, che nella scuola che ho frequentato io era comunque costitutiva dell’apprendimento e della valutazione cui eravamo sottoposti.

Il secondo cervellone che avevamo a disposizione era la maestra stessa. A volte sapeva rispondere subito alle nostre domande. A volte ci guidava nella risposta. Altre, in quanto essere umano, pur di intelligenza e cultura superiore, ci rispondeva il giorno successivo, dopo essersi documentata. Un processo più lento, certo, ma pensate a quanta umanità c’era in tutto questo. L’umanità di saper filtrare le informazioni e restituirle nel modo più adatto a bambini di meno di 10 anni. Di saperle raccontare. Perché la risposta al nozionismo è una funzione facilmente evasa da Google. Quanto è alto il Monte Bianco? Qual è la capitale dell’Islanda? La maestra, almeno la mia, era un mix tra una super-mamma e Google. Dove Google è lo strumento, l’Enciclopedia, e la super-mamma è quella che trova la sintesi più adatta a te. Scremare le risposte, ripulire la verità dalla pubblicità, smascherare il ranking a pagamento dall’algoritmo genuino che riporta l’informazione più utile. Oltre a dare i cioccolatini come premio per aver risolto il problema difficile.

Ora le complessità sono decuplicate. La scuola di 40 anni fa renderebbe inutile un qualsiasi quantum leap (nel senso del telefilm), il maestro unico di allora non sopravviverebbe alla babele psicopedagogica del presente. Quindi che questo post sia solo un piccolo romantico omaggio al mio motore di ricerca intelligente di allora, il cui nome è Iside (non sarebbe male però come nome di un motore di ricerca, vero? Chissà se è già occupato il dominio www.iside.it).

p.s. che differenza c’è tra una lavagna multimediale e un pc collegato ad uno schermo grande o a un proiettore?

diritto di Facebook

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Leggo su l’Espresso un intervento superlativo di Giulio Graneri, il punto della situazione su una serie di aspetti volti a far comprendere meglio “quando stiamo andando”. Il tema è ottimamente riassunto nel titolo dell’articolo, “Dopo l’iPad, l’umanità 2.0”. Un tema complesso, in cui si intersecano diversi aspetti quali l’annosa questione del digital divide, la democratizzazione dei mezzi di comunicazione, il fenomeno dell’informazione partecipata sul web, il marketing che viene dal basso, dematerializzazione e industria culturale nell’era dell’e-conomia, chi può e chi non può permettersi tutto ciò eccetera eccetera. Una perfetta sintesi di tomi, anzi, giga di documentazione e materiale e opinioni e punti di vista e contributi. Così, a proposito di democratizzazione, mi permetto un paio di commenti (sempre nell’ambito del mio spazio pour parler).

Se non vendiamo più il supporto (la carta o il disco) il prodotto culturale diventa più complicato da vendere. E comincia ad essere difficile garantire una retribuzione per il giornalista o per l’autore, per l’editore o per il discografico.

Giusto. Ma aggiungerei: il prodotto culturale diventa più complicato da vendere con gli stessi margini. Giornalisti, autori, editori, discografici e (aggiungo io) musicisti si sono resi conto, a loro spese, che introiti e stili di vita di un tempo non sono più gli stessi. D’altronde sono in buona compagnia. Altri settori, tutti, direi, per motivi diversi, a malapena consentono il sostentamento, aziende e fabbriche chiudono, tecnologie obsolete escono di produzione eccetera eccetera. La sfida è proprio quella di saper cambiare. Gli sforzi quindi non devono essere sprecati nella guerra a file sharing, copyright e diritti e via dicendo, che in uno scenario digitale e digitalizzato mettono a nudo l’incompetenza dei propugnatori. Occorre pensare a nuovi modi di fare e vendere cultura. Il problema è il supporto? La cultura può puntare sul live, sul rapporto diretto tra autore e pubblico. Reading, incontri, concerti, djset, nuove modalità di performance, attività non solo specifiche ma anche collaterali in cui sopravviveranno solo i meno rigidi o i più flessibili, i meno duri e puri. L’editoria poi dovrebbe riuscire a catalizzare tutte queste esperienze dirette con il pubblico sul web, facendo pagare contenuti extra, come in parte già avviene, consapevole che se una parola o una nota viene trasformata in bit sarà comunque duplicata e condivisa. Ma non si deve cercare al di là del monitor il profitto. Certo, si deve lavorare di più guadagnando magari la metà di prima. Ma questo è un problema comune a tutto l’attuale sistema economico.

Oggi ciascuno di noi costruisce, assembla la propria informazione attraverso il filtro degli altri, guardando il mondo attraverso gli occhi delle persone di cui si fida. È sempre più con questa logica che decidiamo cosa comprare, cosa leggere, dove andare in vacanza. Non è nulla di nuovo, lo abbiamo sempre fatto anche prima del digitale, usando i nostri amici e i nostri colleghi. Ma la scala con cui il digitale abilita questo processo è talmente importante che ridisegna buona parte della nostra vita.

Ed ecco il ruolo di player come Google e Facebook nel mercato globale. Sta già succedendo, ovvio. E mentre, almeno in teoria, dell’imparzialità verso il mercato di un sistema pubblico che eroga servizi dovremmo fidarci, come dobbiamo comportarci con le suddette corporation e il rapporto con i loro stakeholder? Se esistono discipline come SEO e SEM, ci sarà un perché.

Così come considereremo sempre più normale delegare alla tecnologia parte delle attività del nostro cervello, come la memoria. Anche qui, stiamo vivendo una transizione importante: non ci interessa più “possedere” un’informazione, ma piuttosto ci interessa “sapere dove cercarla” quando ci serve. Questo passaggio dal possesso all’accesso è dirompente e sostanziale.

Giustissimo. E se si va verso l’integrazione di tutti i dispositivi in uno, oltre a chiudersi (finalmente?) l’era dell’accumulo fisico e del consumo compulsivo in ambito culturale  si avrà un consumo tecnologico diverso. Se però tutto sarà in rete, si consolida l’era dello storage e del cloud. Ma attenzione: i data center v anno a corrente, occorre focalizzarsi quindi su una gestione intelligente dell’energia e sulla continuià dei loro servizi.

I nostri dati personali, la nostra posta elettronica, la nostra agenda, il valore che creiamo in Rete, i nostri e-book: tutto è sempre disponibile per noi, perché risiede nella nuvola del cloud computing. Ma non lo possediamo. Ci affidiamo e ci fidiamo di Facebook, di Google, di Amazon, di queste grandi corporation che hanno la forza per standardizzare i servizi di base del digitale, così come i governi ci garantiscono i servizi base del mondo fisico. La salute, l’elettricità, la viabilità, da un lato. La continuità della posta elettronica, della piattaforma su cui lavoriamo, dall’altro. Solo che queste sono, appunto, corporation: aziende private che gestiscono ambiti delicatissimi della nostra società contemporanea. È uno stato di fatto imposto dalle cose in modo molto rapido, una situazione cui ancora non abbiamo preso le misure.

La Pubblica Amministrazione non riuscirà mai, appunto, a fare le veci di una corporation, ma dovrà acquistarne i prodotti. Quale sarà quindi il prezzo da pagare, per i cittadini-utenti, di servizi che ci sono indispensabili (sono davvero indispensabili?), che consideriamo dovuti ma che non lo sono? Qual è il profitto di Google nel mettermi a disposizione gratuitamente tera di storage per conservare informazioni sulla mia vita e su quella dei miei amici? Lo farà sempre? Se Facebook fallisce, che ne sarà di anni della mia vita social-e? Il ruolo di questi player – e parlo di Google che mi fa trovare le informazioni e che mi mette a disposizione una versione senza licenza di Office online, Facebook che mi tiene in contatto senza spendere un centesimo di telefono, Worpdress che memorizza e mi consente di pubblicare tutte le cose che scrivo – diventa sempre più critico e imprevedibile. Perché un prodotto può essere superato con un analogo migliore. Un sistema diffuso capillarmente e radicato nel comportamento singolo e sociale no. Windows può essere soppiantato da Ubuntu. Ma Google o Facebook, così diffusi da costituire la memoria e lo spazio virtuale ormai per antonomasia, difficilmente cederanno il posto, o ci saranno analoghi servizi progettati dal Pubblico per essere pubblici che li soppianteranno.