asfalto drenante

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Poi ti immetti nella rotonda da cui si accede anche all’autostrada e sul ciglio, tra la sua auto con le quattro frecce accese e la siepe, lo vedi in piedi, rivolto verso il bosso, lo sguardo è giù, attento a non bagnarsi e sporcarsi le scarpe anche se oggettivamente si meriterebbe di peggio. Così non solo sei costretto a notarlo, ma devi anche fare una manovra per spostarti di carreggiata. Viaggiando non è raro imbattersi in adulti di sesso maschile, e nemmeno incontinenti, che hanno confuso tra loro i concetti di spazio comune e servizio pubblico (nel senso del cesso) e per i quali ogni superficie verticale è un posto valido per marcare il territorio. E nemmeno in un punto nascosto da almeno due lati. Quel che è inaccettabile è che non si riesca a controllare lo stimolo fino al più vicino bar o autogrill, oltre alla presunzione di poter prendere in mano la situazione e farne partecipi tutti liberamente come se il prossimo non aspettasse altro. In quel frangente sarebbe magico fermarsi tutti, scendere in massa dal proprio veicolo e aspettare insieme la scrollata finale, quindi l’alzata di spalle che accompagna la chiusura della zip, e salutare la posa dell’ultima goccia con uno scrosciante applauso, fischi da stadio, clacson e vuvuzela, è una bella cosa incoraggiare l’altrui momento del bisogno anche se è già stato soddisfatto.

la classe non è app

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Gli auricolari del distinto quarantenne che viaggia al mio fianco vibrano ed emettono rumori a un volume che già per l’ambiente è fastidioso, non oso immaginare per il suo apparato uditivo. Potrebbe essere un brano qualsiasi di una band industrial, ma no, è impossibile, il suo aspetto ordinario trasmetterebbe a chiunque ascolti deplorevoli (cit.). Così allungo l’occhio verso il display dello smartphone che tiene con le due mani, posizionato in orizzontale. Non si tratta di una playlist per iniziare la giornata con la giusta carica violenta e l’energia per demolire tutti gli avversari sul posto di lavoro, bensì uno di quei videogiochi ammazza-tutti, che ha lo stesso scopo della playlist da “all’arrembaggio” ma – diciamo – è un passatempo un po’ meno nobile. Lo vedo tutto concentrato a far esplodere cose e persone tramite pulsanti e ditate sul touch screen, l’audio è davvero irritante. Del mio stesso parere la signora davanti a noi, altrettanto elegante, che osserva l’eterno bambino dimenarsi e sfogare la rabbia virtuale contro nemici piccoli quanto il palmo della sua mano. Scuote la testa in un plateale giudizio tutt’altro che politically correct, come a condannare il modo inconcepibile con cui un adulto sceglie di perdere il proprio tempo, quindi torna a concentrarsi sul suo, di smartphone, e riprende a leggere i commenti al suo status di Facebook.

non piglia pesci, no

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Se avete qualche reminiscenza di latino, ricorderete che l’etimologia di negotium deriva dalla netta contrapposizione all’otium, ovvero la sua assenza. Il riposo dedicato al tempo libero e alla cura individuale rispetto all’impegno per lo stato e la cosa pubblica. Pensate un po’ che livello di civiltà, altro che. Ma, in senso lato, il riposo e l’attività sono tuttora due momenti ben distinti. Quando c’è uno non c’è l’altro, è impossibile la compresenza. O no? Un paio di agenzie fa non erano così rare le notti in ufficio per arrivare puntuali con la consegna il mattino dopo, l’otium era relegato a un paio di ore sdraiato sul divano comune, quello su cui dormivano a turno tutti quelli del team che erano sul pezzo verso la deadline a rischio. Il mio record personale? Ingresso in ufficio lunedì mattina alle 9.00, uscita il mercoledì mattina alle 6.30, quasi 48 ore filate a macinare codice senza interruzione, senza un’ora di sonno, giuro. E nemmeno nei più contorti cicli, nelle funzioni più complesse, mai, dico, mai ho avuto il minimo cedimento. Working class hero. Altri tempi, altro fisico, altra economia, altro contesto produttivo.

Ci sono stati invece casi opposti in cui l’otium ha preso prepotentemente il comando di me, la rivincita del corpo che pretende di essere lasciato in pace e lo lascia subentrare al negotium, ma senza avvertire nessuno. Che non è bello. Una volta in ufficio, questo agli albori della mia fulgida carriera professionale, sedevo su una poltrona molto comoda, troppo, e bastava scendere di poco giù che si poteva appoggiare la nuca. Ricordo perfettamente quel giorno, un panino con la cotoletta di troppo è stato fatale. E pensare che ero lì da poco, per arrotondare suonavo il liscio alla sera nelle balere e la mattina facevo la storia della multimedialità. Ma, non appena calate le palpebre e sceso nel torpore dell’incoscienza narcolettica, mi sorprese il mio capo-progetto che non si premurò di evitarmi la figuraccia di fronte a quel manipolo di ingegneri che già si facevano beffe di me per il modo bizzarro con cui nominavo le variabili. E meno male che non ho russato.

Potrebbe andare peggio? Sì, in attesa di incontrare un cliente per una presentazione. Ma sentite: più di venti minuti di attesa dell’amministratore delegato in sala riunioni, da solo. Fuori il buio del tardo pomeriggio del venerdì, cullato dal rumore delle rotelle dei trolley dei pendolari settimanali che si avviano lieti e pensosi verso casa, la vera casa. Dentro, il ronzio del riscaldamento, gli occhi annoiati dall’arredamento discutibile di contorno, e io che aspetto, aspetto, asp… zzzzzzzzzzzz. Mi sorprende un rumore di maniglia che si gira e un “buonasera!” virile, io che balzo in piedi nemmeno fosse entrato il colonnello e io fossi un soldato semplice con la coscienza sporca. Si tratta di un attimo, quando apro gli occhi e lui voltato a chiudere la porta. Questa volta l’ho scampata davvero per un pelo. Peccato però, stavo sognando, non ricordo cosa, ma era molto, molto rilassante.

un pianeta terra terra

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Sabato più pioggia uguale centro commerciale. Non fa una piega, e sono in molti a non farla. Come si usa dire, la crisi non c’è perché mangiano tutti da Spizzico. Sarà.

Il centro commerciale in questione una volta era il Gigantesco Supermercato in mezzo a una galleria di negozi, i soliti brand che resistono perché con la loro solidità economica che si chiama franchising sono gli unici a potersi permettere l’affitto dei muri. In quel Gigantesco Supermercato, nel cuore del centro commerciale, fino a qualche tempo fa era messo tutto alla rinfusa, essendo talmente grande da rendere vano un modo strutturato e intelligente per guidare il visitatore lontano dalle sue necessità segnate a matita su un post-it e vicino alle offerte di tutto quello che non avrebbe mai voluto comprare ma che poi alla fine si ritrova nel carrello. Su questo, lo sapete meglio di me, ci sono studi e strategie mica da ridere. Così si sono inventati la formula Planet, che consiste nell’aver reso il Gigantesco Supermercato un vero e proprio sistema di consumo, il pianeta acquisti su cui si atterra dopo aver sorvolato i negozi satellite intorno e i vari spazi di ristoro. Dentro, ora colpisce il perfetto ordine, l’estetica ammiccante del restyle, il corpo perfetto di una creatura feroce quanto disciplinata composta di tutti i prodotti, tutte le scatole, tutti i barattoli ognuno nel proprio spazio dedicato. Congegni vitali che rendono l’esperienza del visitatore un viaggio allucinante nell’organismo di un essere vivente spietato e pronto a digerirti per poi espellerti, scontrino alla mano.

Nella apparente calma delle funzioni involontarie, la respirazione nel reparto alimentari, il battito cardiaco al banco gastronomia con il continuo bip bip del display che aggiorna di una unità alla volta il turno di chi deve essere servito, ecco l’apparato riproduttivo che è quello che attira di più l’utenza maschile e giovane: elettronica informatica e videogiochi. Un percorso segnato in rosso tra gli scaffali conduce a un salottino, due poltrone di fronte a una playstation con tv lcd. Due ragazzini obesi, conciati alla moda e con i capelli passati alla piastra, stanno giocando a sparare e uccidere persone finte, dentro lo schermo a non so quanti pollici tanto che assassino e cadavere sono in scala di poco inferiore all’1:1. La grafica è impressionante, sembra un film. L’audio è in qualità perfetta: dialoghi, colonna sonora e i colpi di pistola risuonano tutto intorno. Dietro, la fila dei curiosi che vogliono provare.

nella stessa barca

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Per quel che mi ricordo della Liguria, diciamo che me la ricordo piuttosto bene perché sono nato e cresciuto laggiù, e soprattutto di Genova in cui ho abitato per un po’, c’è quella sensazione di equilibrio precario che non ti abbandona mai. Poi se ti abitui ad avere sempre i due piedi allo stesso livello e a comodità come la raccolta differenziata all’interno dei cortili, passare in autostrada a ridosso degli edifici costruiti in salita ti sembra l’ennesimo film in 3D al multisala. Li guardi e ti gira un po’ la testa e pensi ai capogiri di chi ci abita dentro. Ma non è solo quello. Prova a salire a monte, arrivi in cima e ti senti in una vignetta di Mordillo, c’era persino una canzone di Max Manfredi che raccontava di chi fa la pipì sulle alture e in mezzo minuto si inquina il mare. Ti cade il pallone giù e non lo trovi più. Arrivi in costa sull’appennino e ti coglie l’effetto da montagne russe. Si tratta di una città, e non è l’unica, costruita per altre epoche, quelle in cui esistevano ancora le mezze stagioni e il clima era un altro, e anche sufficientemente consolidato. Oggi passare sotto quell’enorme ziqqurat urbanistico mi dà l’impressione che crolli da un momento all’altro. E comunque non c’è più lo spazio per nulla, in Liguria, figuriamoci per le piogge copiose che oramai da dieci anni fiaccano con regolarità l’autunno rivierasco, ma ogni volta è sempre come la prima volta e che ci volete fare. Non si può ricostruire Genova, non si possono radere al suolo i quartieri appesi sulla cima. Si può cambiare la Liguria, si devono cambiare i Liguri? No, non ce n’è bisogno. Vedendo una delle strade sommerse di fango delle Cinque Terre, notando l’insegna di un albergo che sembra non esserci più, mi sono chiesto quanto costasse lì la pensione completa in alta stagione e il livello del servizio fornito.

errare umano

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E comunque quando li vedi da lontano, e sono una o due figure alte alte con una o due o tre più piccole in mezzo, e non pensi a chi sono e a come sono e a tutto quello che poi da vicino si vede, a quello che si dicono, a come prestano attenzione l’uno all’altro, se sono in linea o qualcuno in disparte, se si inseguono o se si trascinano, se si parlano con rispetto o si dicono cattiverie anche perché è il solo loro modo di volersi bene, se il padre ha lo smartphone in mano (una volta era la radiolina all’orecchio) o la madre è al telefono e i figli che reclamano l’attenzione che non avranno mai, o se invece stanno inventando una storia corale, un pezzo per uno, con un lieto fine. Ecco, se non pensi a tutto quello che poi si scopre conoscendoli, da lontano mi fanno sempre tenerezza.

chi?

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La mezza età si chiama così probabilmente perché passi metà del tempo a passare in scansione la memoria nella ricerca dell’informazione mancante da usare come complemento oggetto per terminare una frase, ricordarti il titolo del film che volevi consigliare al collega più giovane che ti guarda inarcando il sopracciglio mentre i minuti passano, mettere nella sequenza giusta le cose da fare spostandoti dal punto a al punto b senza dover coprire la distanza più di tre volte, altrimenti il tempo non è ottimizzato e tanto valeva portare a termine ogni compito separatamente, ma in quest’ultimo caso è già un pretendere troppo da quello scontro casuale di componenti cerebrali che un tempo aveva dignità di essere definito sinapsi. L’altra metà del tempo, invece, la passi a giustificarti del fatto che ti sei scordato di qualcosa.

Ma non penso sia questa la causa per la quale non mi ricordo di te. Voglio dire, ho impresso perfettamente nella memoria il mio primo giorno di scuola, so la formazione della Polonia ai mondiali del 74, il numero dei dischi che ho prestato dalla prima superiore in poi e che non mi sono mai stati restituiti, il regalo di compleanno che ho fatto alla prima ragazza di cui mi sono innamorato. Ho ben viva nella memoria la faccia del professore di italiano che mi ha interrogato alla maturità, alcune delle persone che mi hanno scarrozzato in autostop, la coppia di entreneuse che gestivano la latteria sotto casa, la danese in vacanza e il primo datore di lavoro. E soprattutto i musicisti con cui ho condiviso qualcosa. Ma tu, che mi parli da dieci minuti di quando suonavamo insieme, sai che proprio non riesco a collocarti in nessun luogo e in nessun tempo? Ho il vuoto, e un po’ mi vergogno a chiederti chi sei, come ti chiami e che nome aveva il gruppo, perché sarebbe troppo umiliante per entrambi. Dubito che tu sia un mitomane, ma davvero sento che sto per perdere l’orientamento. Metto persino in discussione la timeline della mia vita, tante fitte righe verticali con su l’indicazione crescente dell’anno, eppure non ti vedo in nessun interstizio. Per fortuna mia figlia mi trascina via con forza, non sopporta sprecare tempo con adulti estranei che non la degnano nemmeno di uno sguardo, ma si sa, non a tutti piacciono i bambini. E allora io da una parte e tu dall’altra, ci facciamo ciao con la mano e tu mi rassicuri sul fatto che mi saluterai un generico “gli altri della banda, sai ogni tanto ci vediamo a strimpellare qualcosa!”. Ah perfetto, dai salutameli tutti. Ma tutti chi?

dura lex

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Adoro questa donna. Alta tanto che la si vede anche da lontano, il suo volto che si erge di una spanna, un animale elegante che sovrasta la massa mentre si riversa nel grigio della stazione Cadorna, vomitata da un treno che porta con sé la bruma delle pianure urbanizzate della periferia nord, l’umido che si infiltra nelle giacche autunnali già superflue di impiegati, commesse, manovali, precari e studenti. Conosco poco di lei, frequentatrice quotidiana di vettori ferroviari, lettrice ma, a differenza mia, attenta e pronta nell’osservazione della realtà. È un avvocato, questo lo so, mi è capitato di ascoltare una sua conversazione al telefono. E sembra essere un professionista di quelli che vorresti avere al tuo fianco nel momento del bisogno, un errore giudiziario o un sopruso che grida vendetta.

Adoro il suo incedere con lo sguardo fiero, i passi noti su un territorio che conosce palmo a palmo, il branco intorno che si scansa per non entrare in contatto con la sua traiettoria. Porta uno zainetto per il pc sulla schiena, ed è solita agganciarsi con entrambi i pollici alle spalline. Anche oggi cammina così, come se stesse procedendo lungo un sentiero di montagna in solitudine senza le due ragazzine a pochi passi da lei che, mentre chiacchierano nel loro italiano stentato e discutibile malgrado l’età, alternano sentenze idiote a disgustosi sputi sulla banchina. Forse intendono emulare i loro eroi della domenica sportiva che, sui verdi prati fiorenti di sponsor raccolti per consentirne la trasmissione in diretta sui canali a pagamento, irrorano zolle erbose con fiotti di saliva a intermittenza. Ma qui non siamo in un campo di calcio, non vedete? Ci sono altre persone intorno allo spazio che immeritatamente occupate, decine e decine di vostri simili trascinati da analogo destino verso i tornelli di uscita a conquistare la via verso il quotidiano dovere.

Tanto che uno sputo finisce sulla scarpa di una signora che le sta superando, la cui pelle tradisce inequivocabili origini a sud del mondo. “Ehi, attente!” esclama la vittima, una reazione che non sfugge alla donna che adoro, la quale sembra già prevedere quello che succederà. “Ma sta’ zitta e tornatene in Africa”, risponde la colpevole del misfatto, secernendo una scia di ignorante arroganza. Ed ecco il Gesto, la prontezza che fa la superiorità, la prova del grado evolutivo che impedirà l’estinzione a siffatto genere umano. Con la stessa velocità con cui gli animali catturano la preda con la lingua, diretti all’insetto e rapidi e silenziosi nell’azione vincente, così la donna che adoro sembra fermare il tempo. Quindi sgancia la mano destra dalla spallina dello zaino e scioglie il proprio braccio, un arto lungo e flessuoso, in un movimento potente verso la base della nuca della ragazzina, colpendola pesantemente con il palmo della mano. Tutto questo in meno di un secondo, perché nell’istante immediatamente successivo la ragazzina sbanda in avanti perdendo il cappello e rovesciandosi sopra l’amica, entrambe vacillano ed emettono un gemito di sorpresa mista a dolore, e la donna avvocato ritira a sé il braccio, riponendo mano e pollice nello stesso punto da cui è scoccato il tiro e prosegue il suo passo con immutata eleganza.

Il tutto come se niente fosse, non so nemmeno in quanti ce ne siamo accorti. Le ragazzine maleducate si sono girate, “ehi che cazzo succede?”, la signora africana era troppo distante per essere sospettata del coppino, l’alta vendicatrice troppo regale e composta per essere colpevole di un gesto così basso. Le due tamarre si fermano incredule a raccogliere il cappello, la folla le sommerge incurante. Io ho un sussulto e corro dietro alla donna avvocato che adoro per chiederle un autografo.

l’omonima insalata

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Il Belgio è uno di quei posti che pochi associano a una vacanza, o a un paese in cui trasferirsi. O quelle nazioni che quando pensi all’estero ti vengono in mente. Non so, magari succede solo a me, ma prima di arrivare al Belgio la mia classifica di luoghi del mondo passa in elenco una sfilza di altri stati e città. Complice anche qualche episodio di cronaca che ha alimentato il generatore di luoghi comuni e relative battute sui comportamenti di chi vive lì. Però pensavo proprio questa mattina a una serie di prodotti culturali del Belgio che si posizionano molto bene nelle mie personali categorie di appartenenza, trovo giusto quindi rendere omaggio a una piccola grande civiltà.




un classico

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Da Repubblica.it:

Sfilano con l’accompagnamento live della band della scuola, scendendo dalla scalinata del Parini come professioniste, le 20 studentesse scelte all’interno del prestigioso liceo classico come modelle per la passerella della linea ‘La petite robe’ di Chiara Boni. In prima fila genitori e amici della stilista, da Daniela Santanchè a Caterina Caselli, da Salvatore Ligresti a Malika Ayane. E’ la prima volta che la moda entra in un liceo, “ma questo è il Parini” spiega orgoglioso il preside, Carlo Arrigo Pedretti, raccontando di aver accettato la proposta perché “mi interessava svecchiare l’immagine del liceo classico e del Parini e questa iniziativa è un esempio della vita che va avanti, una proposta di riflessione sulla moda e sull’estetica”

Ecco, vedete? Basta poco per creare link tra la scuola e la società, la vita di tutti i giorni, il mondo del lavoro. È giusto mettere in contatto i nostri ragazzi con le persone comuni, quelle che vivono di quello che fanno e che guadagnano, quelle che malgrado il momento economico e i sacrifici imposti dalla flessione mondiale del mercato fanno di tutto per sopravvivere dignitosamente. Un’idea efficace affinché i giovani possano acquisire tutti gli strumenti per scegliere i loro modelli e i valori più consoni a condurre un’esistenza concreta, nel segno del rispetto di se stessi, del prossimo e della cosa pubblica.