zuck

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La data di iscrizione riportata sul mio profilo dice 10 ott 2007, e la cosa che sorprende non è tanto che sia scritta proprio così, con l’abbreviazione del mese, ma che io, come molti di voi, sia su Facebook da 17 anni. DICIASSETTE. Una vita. Ho letto che è un social al tracollo e che tutta la baracconata di Meta messa in piedi è un buco nell’acqua ed è giusto così, in un sistema così dinamico come l’Internet. Io uso Facebook ormai esclusivamente per due motivi: gestisco alcune pagine e mi tengo aggiornato su musica, letteratura e cinema. Per me è principalmente un aggregatore di notizie che mi interessano e vedo che il mio algoritmo è ammaestrato bene a servirmi spunti in linea con in miei gusti. Post di amici e conoscenti ridotti praticamente a zero a cui unisco la rimozione immediata di tutte le proposte del sistema su pagine e gruppi da seguire. Evito i commenti degli utenti come la peste e pubblico solo dischi che mi piacciono, film che mi hanno folgorato e libri che mi hanno migliorato la vita, ma non tanto per condividere, quanto per tenere traccia. È grazie a questo approccio che ieri ho scoperto che è stato adattato un film da uno dei miei romanzi preferiti, “Cancellazione” di Percival Everett. Dopo la pessima esperienza di “Rumore Bianco” di Delillo, da cui è stato tratto un film a dir poco inguardabile, mi sono sottoposto alla visione (è disponibile su Amazon Prime) pieno di timori. Invece è fatto strabene, attori bravissimi, sceneggiatura perfetta e storia rispettata al 100%. Non so dirvi, se non avessi letto il libro di Everett, se avessi altrettanto apprezzato la sua riduzione televisiva. Anzi, ditemelo voi. Guardatelo anche se non avete letto il libro. Ma no. Prima leggete il libro, che è superlativo, e poi guardate il film, molto meglio. O leggete il libro, e basta.

chef moi

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La notizia è che una vincitrice di un noto talent per aspiranti cuochi aspiranti giudici di talent per aspiranti cuochi sostiene di non andare mai al ristorante. Avete letto bene: non le piace mangiare fuori. Non la biasimo. Da quando ho imparato a preparare quelle quattro cose ignoranti che propongo a rotazione nel menu domestico ho ridotto a zero quell’unica volta all’anno in cui si usciva a cena. Vuoi mettere pensare la ricetta, scegliere gli ingredienti e cucinare per famigliari e amici rispetto a mettere le gambe sotto il tavolo, impestarsi il loden di odore di fritto e spendere un occhio della testa in cose che poi lungo il tragitto intestinale si trasformano in quello che sappiamo?

Denis, che è il mio alunno di origine rumena nonché uno dei più simpatici della classe, chiama la cacca “la numero due”, per distinguerla dalla pipì che è “la numero uno”, e ora che siamo alle prese con l’apparato digerente finiamo sempre lì, anche perché è il cibo, primo tra tutti, a finire sempre lì. Malgrado nei testi della trap che ascoltano sia contenuto l’intero vocabolario delle parolacce italiane e non solo, i miei bambini sono timorosissimi e inutilmente pudici in eccesso quando si tratta di pronunciare qualunque sinonimo di feci, per questo attribuire a merda e piscio una perifrasi riconducibile a una gerarchia morale – l’urina è il numero uno perché è considerata meno impegnativa, si fa davanti e il canale appartiene a un rango più nobile dell’altro, probabilmente perché è anche veicolo di piacere ma anche l’altro non è poi così male, insomma esprimere una preferenza tra i due non è così scontato – mi fa sorridere. Ho detto loro mille volte che le parolacce sono volgari ma a seconda del contesto, ma non voglio mettere in dubbio i paradigmi della loro rigida educazione. Però mi hanno seguito e li ho percepiti persino in linea con me quando ho provato a convincerli della mia idea: spendere così tanto per questioni di palato non esiste. Il loro pantheon della ristorazione comprende solo McDonald’s, Burger King, Roadhouse e l’all you can eat cinogiappo sulla provinciale, quello frequentato anche dai ludopatici attirati dalla consistente concentrazione di videopoker. E quello di cui voglio convincere anche voi è che è molto meglio imparare a spignattare.

L’unico compromesso, a casa mia, è la pizza. Almeno un paio di volte al mese, in quelle giornate che si vede già alle otto del mattino che finiranno in pizza. Quelle che entri alla prima ora, accompagni le quinte a visitare la caserma dei Carabinieri, fai due ore di matematica per poi scendere nel chiasso assordante nella mensa-inferno, quindi altre due ore con i bambini con l’impallo catatonico postprandiale e, per chiudere, altre due ore di formazione digitale ai colleghi docenti online.

È andata proprio così, anche questa volta. Ho terminato la videoconferenza e ho subito lanciato l’idea sul gruppo di famiglia, ma questa volta è successa una cosa stranissima. Mia moglie mi ha chiamato per darmi il suo assenso alla pizza, con l’entusiasmo esagerato con cui siamo soliti aderire a questo fuori-programma che è incredibilmente sopra le righe malgrado si ripeta con la stessa frequenza da più di vent’anni. Ma prima di dirmi che pizza avrebbe scelto mi ha chiesto a quale pizzeria d’asporto pensavo di ordinare. Di getto, non chiedetemi il perché, mi è uscito dalla bocca il nome di una pizzeria che frequentavo con ostinata continuità una trentina di anni fa. Un posto che oltre a essere a duecento km da qui probabilmente avrà chiuso i battenti chissà da quanto. Era un locale che faceva solo pizze, non a caso si chiamava “Solo Pizza”, era meta notturna di giovinastri come me in piena fame chimica e aveva le pareti coperte dall’iconografia tipica degli esercizi che vogliono trasmettere l’appartenenza socio-culturale alla napoletanità indipendentemente da dove sono ubicati. Totò, Peppino, Maradona, Mario Merola.

Il pizzaiolo si chiamava Mimmo, e il nome lo ricordo solo grazie all’aforisma che si leggeva su una lavagnetta accanto l’imboccatura del forno a legna e che diceva così: “La pizza di Mimmo è come una bella signora: buona e da gustare a piccoli morsi”. Al telefono con mia moglie mi sono reso conto dell’equivoco e mi sono corretto immediatamente, anche se il nome della pizzeria da cui ci serviamo, pur essendo altrettanto evocativo della cultura partenopea radicata al nord, ha un’accezione che fa molto meno marketing anni novanta e rimanda invece alle qualità organolettiche della pizza, un tema molto più attuale e figlio dell’ossessione per l’italianità che va per la maggiore. Ma sono certo che il mio non sia stato affatto un lapsus. Ancora adesso sono sicuro di non aver compreso appieno il significato di quella frase e il senso della trasposizione simbolica di immagine che la rende così difficilmente interpretabile.

terzo, tipo

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Nella pagina Facebook dedicata ai selfie dei turisti americani immortalati con alcuni dei più celebri luoghi in cui sono state girate le scene più iconiche di tutti tempi del cinema sullo sfondo, postate con l’escamotage del prima e dopo (prima, la scena del film; dopo i turisti con quell’espressione inevitabilmente idiota che viene nel tentativo di mimare la scena in questione) qualche giorno fa ha fatto capolino la Devil’s Tower, quella specie di pandoro alto 1500 metri e ubicato nello stato del Wyoming divenuto celebre grazie a “Incontri ravvicinati del terzo tipo”.

Ci penso ogni volta in cui scorgo il nuovo Galeazzi di Rho, meglio noto come il “Sacro Monolite Bianco”, l’unico grattacielo al mondo che ha una base più lunga dell’altezza – in questo caso già fuori scala di per sé. Ci passo a fianco per recarmi a scuola e ci sono pure entrato per fare visita a un amico che si è appena sottoposto all’intervento all’anca. Osservandolo da sotto fa molto meno impressione, soprattutto stanziando nei parcheggi arbitrari lungo la strada, stipati di vetture malgrado la frequenza dei cartelli di divieto di sosta. Lui occupava una stanza al dodicesimo piano ed è un peccato che, tra fabbriche, raccordi autostradali e carcere di Baranzate, la vista da lassù lasci piuttosto a desiderare. Ma da qualche settimana la percezione del colosso della sanità privata non è nulla in confronto a quella del monte Alpissimo, che con i suoi 16mila metri non teme confronti. È impossibile non notarlo e il colpo d’occhio dietro allo skyline di Milano non è niente male.

Anch’io sono rimasto fortemente impressionato dalla sua comparsa improvvisa, questo è il motivo per cui non ho esitato a rispondere affermativamente alla chiamata indetta dall’associazione di settore che riunisce i copywriter d’epoca che presiedo per escogitare il nome più adatto alla nuova formazione tettonica. Resti tra noi, ma non ho ancora detto a nessuno che la proposta più suggestiva è risultata proprio la mia, peraltro votata all’unanimità, decisione per la quale non mi stancherò di ringraziare tutti i soci. Ma non è stato solo l’evidente e scontato gioco di parole che concentra la sua caratteristica principale e la sua ubicazione ad aver convinto tutti. C’è dell’altro, ma ora non me lo ricordo. Se non mi sono ancora esposto è perché avrei preferito introdurre un ulteriore fattore significante, qualcosa che richiamasse alla sorpresa con cui ce lo siamo trovati all’orizzonte la mattina in cui è comparso. Se avete in casa, come me, un animale domestico, avrete capito a cosa mi riferisco, visto che solo loro – a quanto sembra –  hanno avvertito l’orogenesi. Stamattina viaggiavo in direzione Malpensa e, a seguito di un’improvvisa schiarita che ha interrotto per qualche minuto la perturbazione che persiste ininterrottamente ormai da diverse settimane, si è propagata una luce e un conseguente riflesso dalla parete della nuova montagna da togliere il fiato.

Peccato che dalle finestre di casa mia il monte Alpissimo non si veda, ma non è questa l’unica conseguenza negativa dell’altezza a cui è situato il mio appartamento al secondo piano e della sua esposizione. Non bazzico i circoli feng shui e i taoisti più radicali – per mancanza di tempo, mica per pregiudizio – nonostante ciò mia moglie ed io ci siamo convinti che l’ultimo rimescolamento della posizione dei mobili in camera dal letto – lo ha ancora una volta pensato lei – non sia di sicuro il più riuscito. Mia moglie ama dedicarsi a questo genere di trasformazioni degli ambienti di casa, e se non ha ancora modificato la disposizione dei sanitari nel bagno è a causa del posizionamento delle tubature. In camera da letto però ci troviamo senza vie d’uscita a causa di un enorme armadio, che scherzando abbiamo ribattezzato proprio Alpissimo, oramai impossibile da muovere se non smontandolo. E, fedeli al motto della montagna e Maometto, ci siamo messi così a dormire al contrario, con i cuscini al posto dei piedi e i piedi rivolti verso la testata. Avete capito: questo nuovo orientamento sembra funzionare. Non solo ci svegliamo riposatissimi ma faccio anche sogni dai significati più sfidanti, al punto che mi metto subito al risveglio sui siti di intelligenza artificiale per trovare le immagini più adeguate a descriverli.

al completo

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Solo un veloce promemoria per quelli che su Dice sono in lista d’attesa per un biglietto per “Alcuni Aneddoti Live”. Purtroppo gli organizzatori non ne vogliono sapere e non danno nemmeno a me gli ingressi omaggio. Pensavo di poter riservare qualche posto ai lettori più affezionati, c’è gente che riceve la mia newsletter dal 2010 e non si è ancora disiscritta, se ci penso roba da matti, ma il limite dell’automatizzazione dei processi è proprio che ogni scorciatoia andrebbe a scapito della tracciabilità e della trasparenza e ricordate che io non ricavo una lira che è una in più rispetto al mio cachet. Vi prego anche di non presentarvi all’ingresso di servizio, o meglio presentatevi perché spero di potervi abbracciare a uno a uno, ma non potrò neppure lasciarvi sgattaiolare dietro le quinte. Ci sono certi omoni addetti alla sicurezza che non vanno tanto per il sottile e non vedono l’ora di farsi belli con il proprietario della struttura, che peraltro mi dicono essere uno storico elettore di estrema destra.

Farò il possibile per non arrivare sui gomiti alla serata dell’evento. Come per le precedenti edizioni, il rischio che qualcuno spoileri il programma in anticipo o sveli l’identità dei componenti della redazione mette a dura prova il mio sistema nervoso. Oggi, durante l’intervallo a scuola, origliavo persino i miei alunni intenti nella pratica del dissing, un giochino da maranza e preso dalla cultura hip hop con il quale sperimentano la tenuta nervosa delle due mie alunne che si punzecchiano sin dalla prima. Sono intervenuto giusto in tempo per evitare che si passassero reciprocamente le unghie sulla faccia ma questo non ha impedito che si prendessero a spintonate in bagno subito dopo. Purtroppo per loro le ho colte in flagrante e ho segnalato il comportamento a entrambe con una bella nota sul diario ed è un peccato che non sia ancora entrato in vigore il gravemente insufficiente, altrimenti l’avrei inaugurato con questo exploit.

Poi la cosa è finita lì ma il mio nervosismo ormai era salito alle stelle. Nell’intervallo lungo ho retto a malapena tre o quattro brani del loro repertorio trap pop e mi sono tenuto a stento dall’insultarli per i loro gusti pessimi. Una di loro, che peraltro non partecipava nemmeno al gruppo di ascolto sotto la LIM, ha biasimato la mia insofferenza rispetto ai loro ascolti ricordandomi quella frase fatta sui gusti e sul discuterne che, lasciatemi dire, lascia il tempo che trova. Ho imposto di spegnere casse e pc e siamo passati a parlare del ramadan che, a breve, le compagne egiziane osserveranno ma la mia attenzione oramai se l’erano giocata definitivamente. Ho pensato così che, in una delle sessioni parallele di “Alcuni Aneddoti Live”, magari quella dedicata alla carenza di band di ragazzini nel nostro paese, potremmo trattare anche questo tema. Sentitevi comunque liberi di suggerirmi altri spunti o condividere le vostre considerazioni qui sotto nei commenti. In ogni caso, ci si vede dal vivo prestissimo, e non vedo l’ora.

parola per parola

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Quando vado a correre la mattina presto nei campi dietro casa mia incontro abbastanza frequentemente un tizio che vive nei paraggi e che porta a spasso amorevolmente i suoi due cani. Sfoggia pantaloni mimetici e stivali di gomma verdi, un abbigliamento riconducibile alla caccia che trasmette continuità con il comportamento degli animali che lo accompagnano, non particolarmente adatti alla pratica venatoria ma lasciati comunque liberi di importunare – con cieca indulgenza da parte del loro padrone – la fauna selvatica (poco più di cornacchie, gazze e qualche pantegana in trasferta dai numerosi cantieri edili) e i podisti dilettanti. Mi sono meravigliato di pensare a lui durante la visione del film “As bestas”, andato in onda qualche sera fa su Rai boh. I lineamenti dell’uomo che incontro quando vado a correre, temprati dalle brutture dell’hinterland, dal disagio e dalle contraddizioni dei tempi che viviamo, non sorprenderebbero tra la popolazione rurale non solo della Galizia ma di qualunque regione ai margini della civiltà, ostile all’agricoltura sostenibile e desiderosa – come biasimarli – di progresso a ogni costo.

Di certo la popolazione autoctona considererebbe con sospetto il suo approccio con i suoi due cani. La gente di montagna infatti non va troppo per il sottile con gli animali, mentre nelle città l’attenzione e l’affetto di cui godono gli animali domestici ha raggiunto livelli probabilmente mai visti nella storia degli esseri umani. Qualche giorno fa ho notato quell’uomo in coda con me al discount giù all’angolo, in abbigliamento civile ma rigorosamente con i suoi due cani al seguito. Scambiava qualche considerazione con una cassiera temporaneamente intenta a riordinare uno scaffale e canara, a quanto ho capito dalla loro conversazione, tanto quanto lui. Entrambi riconoscevano con rassegnazione che i non proprietari di cani non possono capire chi i cani li ha. Come è possibile, infatti, convincere un cane a non pisciare sui muri o sui dissuasori in prossimità dei portoni dei palazzi o anche su un marciapiede? A differenza della cacca, un bisogno più facilmente intercettabile, fare pipì ha diversi significati per i cani e non si può certo scoraggiare il loro istinto di irrorare il suolo pubblico con inconfondibili segnali lasciati come monito (superfluo, direi, in un ambiente urbano) per i propri simili.

Non ne faccio una questione morale, ma ve lo immaginate un mondo dominato da bestie che comunicano con l’urina anziché a parole come facciamo noi? Nel mio piccolo, la mia gatta che ormai è decisamente vecchia non disdegna dal metterci al corrente del suo disappunto pisciando su un tappeto dell’Ikea in bagno. Mentre i social media traboccano sempre più di video di animali ripresi in strabilianti interazioni con i loro proprietari, c’è una crescente percentuale di cittadini che rimpiangono con altrettanto slancio il mondo dei loro nonni, tempi in cui nessuno avrebbe mai sottoposto un gatto a cure dentali e, abituati a vivere in strada, era comune che un animale domestico all’improvviso sparisse dalla circolazione senza fare più ritorno.

Mi sono chiesto anche che cosa pensi la mia gatta di noi che parliamo in continuazione, dialoghiamo, ci confrontiamo, raccontiamo aneddoti, ogni tanto alziamo la voce, spesso ridiamo e facciamo battute sciocche. Perché le bestie non sentono il bisogno di sviluppare una lingua come noi, chiacchierare tra simili e condividere anche con gli esseri umani le loro considerazioni, i loro bisogni e quello che pensano? E perché gli animali non cantano, non suonano, non esprimono le loro preferenze in fatto di musica? La mia gatta non desiste dal suo pisolino sul divano – posto di fronte ai diffusori dello stereo – indipendentemente dal disco che ascolto, e continua a dormire anche quando metto la musica più estrema.

Capita sempre più spesso, però, mentre ceniamo o pranziamo, che tenti di saltare sul tavolo, sicuramente attirata dall’odore del cibo più che dal momento conviviale, e che si rivolga a noi con versi ovviamente incomprensibili ma emessi nei tempi giusti, come se tenesse una conversazione. E so che, se riprendessi quello che accade e pubblicassi la story da qualche parte sui social, diventeremmo delle star del web. Più la gatta che noi, questo è sicuro.

ci siamo fatti così

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Ci sono cose che hanno del miracoloso, tra le prime che mi vengono in mente c’è questa qui che ho davanti, per la quale schiaccio dei tasti di plastica con delle lettere stampate sopra e miracolosamente la stessa lettera si manifesta su uno schermo, ma anche certe funzionalità del corpo umano, ne parlavo qualche giorno fa introducendo l’argomento che iniziamo ora in scienze. Cellule, tessuti, organi, apparati e sistemi. “Ma ci pensate?” è la domanda retorica che ho posto ai miei bambini. Loro mi hanno guardato come sempre, come quando stanno per chiedermi se possono andare a fare la pipì proprio mentre io sono al momento cruciale del mio TED sul senso della vita. “Maestro posso andare in bagno?” e io, in risposta “Ma ti perdi una parte importante di spiegazione. È urgente?”. Inutile che vi dica come va a finire, le bambine sono già alle prese con il ciclo e non sai mai perché vogliono assentarsi, e allora devi mandare anche i bambini perché non sarebbe corretto e poi, se non li mandi, comunque i genitori si infuriano.

Comunque, tornando alla domanda retorica “Ma ci pensate?”, chiaro che non ci pensano, che non si pongono il problema del miracolo dei mitocondri o del sistema nervoso o dei globuli rossi e tutto lo sbattimento che fanno, non so se avete mai visto i cartoni animati sul corpo umano che, ancora oggi, costituiscono l’approccio pedagogico alle stem più autorevole e diffuso. Si accendono le luci nelle loro teste solo quando si parla di femmine e di maschi e di quello che combinano con i loro apparati riproduttori, per il resto è un tirare ai due intervalli e all’uscita. Non c’è apotema o funzione ricorsiva o progressione armonica che mi trasmetta da parte loro, mi accontenterei anche solo di un impercettibile sollevamento delle sopracciglia, una qualsiasi espressione di “cazzo che bella storia imparare le cose che ci spieghi, maestro, dimmi di più su Kind Of Blue e il jazz modale”.

Non li biasimo. C’era anche la puntata sul ciclo della vita, e probabilmente alla cattedra devo fare lo stesso effetto che fa a me vedere Augias alla tv, i capelli e la parlata un po’ biascicata si somigliano abbastanza, d’altronde anagraficamente sono molto più vicino a lui che a loro. Che poi, alla cattedra, chi ci sta più? La mia collega prefe si siede in cerchio sul pavimento con i bambini ogni inizio settimana e li fa parlare di quello che sentono dentro, per dire. Quando assisto a questi metodi, più efficaci e coinvolgenti dei miei (praticamente tutti) mi ripeto che, quando si presenterà l’occasione ci proverò anch’io, sempre che riesca poi a rialzarmi da terra. Ho un collega che ha qualche anno più di me e che a me dà l’effetto di mio nonno ma sono di parte, sicuramente nessuno, osservandoci dall’esterno, coglie la differenza. Indossa felpe e sneakers colorate che trovo in contrasto con gli spazi vuoti dei molari che gli mancano e i capelli radi e lunghi che porta pettinati all’indietro. Ci siamo scambiati qualche impressione su un nuovo modo di insegnare la matematica ma, mentre mi parlava, non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso e, da allora, ho ripreso a indossare la camicia, perché il collo, quando inizia ad ammorbidirsi – diciamo così – è meglio occultarlo.

L’unico aspetto che mi lega alle nuove generazioni è, paradossalmente, la cosa che so fare meglio nella scuola, cioè risolvere i problemi dei computer, di quello che non funziona dentro e quello che gli sta attaccato. Saremo soppiantati insieme, quelli come me e quei ferrivecchi con cui stiamo affrontando la transizione digitale. Verremo ridotti in briciole come a Ercolano e Pompei, e gli archeologi del futuro ricaveranno i calchi con il gesso di noi nello spazio che lasceranno i nostri corpi sorpresi, con il cacciavite in mano, nell’atto di sostituire le lampade bruciate dei proiettori delle LIM.

rumore bianco

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Qualche sera fa è andata in onda, su Warner TV, la puntata pilota della madre di tutte le serie televisive che è “ER – Medici in prima linea”. Sapete tutti come funziona una puntata pilota, vero? Si cerca di concentrare in un unico prototipo tutto quello che caratterizzerà un prodotto dell’intelletto per verificare se può piacere e se quindi ha senso investire tempo e risorse per portarlo avanti. Nel numero zero di “ER”, visto a posteriori, un posteriori peraltro che accade a quasi trent’anni suonati dalla sua prima messa in onda, c’è già un accenno a tutti gli elementi che poi ricordiamo come specifici del primo vero e proprio medical drama della storia, a partire dalle personalità dei protagonisti – tracciate perfettamente, può piacere o non piacere ma si tratta di una serie che vanta una sceneggiatura da manuale – e dalle dinamiche delle relazioni e delle singole storie umane che si combinano su uno sfondo – quello di un ambiente dedicato al primo soccorso – ricco di paradossi e opposti che si dipanano tra gli estremi della dicotomia principale, la vita e la morte, per evidenziare tutte le sfumature intermedie che solo la chirurgia (l’intervento umano) può definire, e tutte le emozioni dello spettatore che ne possono derivare.

Non avete notato nulla? Ci sono cascato un’altra volta. Vi ho sottoposto una spiegazione non richiesta, peraltro probabilmente campata in aria, come se non conosceste il senso di “ER”. Come a tutti voi, anche a me quando qualcuno mi spiega una cosa che so mi viene l’orticaria, e non so mai se è colpa della mia presunzione di conoscere tutto, o della presunzione di chi mi spiega la cosa di conoscere tutto, o un mix di entrambi. In genere il mio approccio (a questa come a tutte le interazioni con il prossimo) è passivo aggressivo, quindi faccio finta di provare piacere nel ricevere l’ennesima lezione e, a quasi sessant’anni, credo di aver imparato altrettanto bene a dissimulare il disagio e il conseguente nervosismo.

Mi piacerebbe avviare un podcast in cui spiegare le cose che mi spiegano gli altri, cose di tematiche varie che vanno dal come dovrei sistemare la sedia della scrivania – quella su cui sono seduto proprio ora mentre sto scrivendo e che ha una gamba che prima o poi si stacca dalla seduta – a come si mette l’orzo in polvere prima di versare il latte, in modo che si attivi una soluzione preliminare all’intervento agitatorio e decisivo del cucchiaino. Gli spiegoni fanno il paio con l’aver fatto le cose prima degli altri, averle fatte quando non le faceva ancora nessuno, e il rilancio con una cosa più figa di quella che vi è stata appena raccontata, tutti tratti riconducibili al celholunghismo, che comunque è una variante del mansplaining. Obietterete che, se tutti smettiamo di spiegare le cose, non ci sarebbe più nessuna forma di comunicazione, a partire da questo blog. Vorrei spiegarvi che avete ragione, ma allora saremmo punto e a capo.

Mi limiterò a confrontarmi con voi allora sul fatto che trovo la trovata dell’episodio pilota in generale, cioè l’escamotage del numero zero, un approccio che sarebbe fantastico per il genere umano nel modo in auge di condurre le nostre esistenze. Voglio solo dire che la vita può essere un susseguirsi di puntate di prova di qualcosa da lasciare nel dimenticatoio se vediamo che questo qualcosa non funziona. La vita come un palinsesto di numeri zero di esperienze all’interno di un solo e lungo (speriamo anzi il più lungo possibile) e irripetibile spettacolo senza repliche. Il mio obiettivo è di migliorare il mondo smettendo di spiegare le cose al prossimo, quindi eviterò di condurvi lungo la comprensione di questa metafora.

Mi limiterò a un solo spunto, giusto per indirizzarvi a coglierne il meglio. Ho pensato che il progetto da abbandonare a cui mi dedicherò quest’anno sarà un podcast in cui registrerò queste cose che scrivo per vedere l’effetto che fanno sotto forma di voce narrante, qualcuno che le racconta, per farvi capire. Ho già registrato il numero zero, la puntata pilota, e l’ho pubblicata su Spotify, sapete – vero? – che ha una piattaforma di podcast molto semplice da usare, e se non lo sapete non vi spiegherò come funziona, ormai sono in questo mood e nulla mi farà desistere. Il titolo del podcast è “Rumore bianco” e l’ho scelto per due motivi. Intanto è riconducibile a una delle storie più avvincenti mai lette e a uno dei film più deludenti mai visti, ma anche al fatto che definisco rumore bianco – anche se poi non si tratta in sé di rumore bianco – il substrato di bordone composto dai ronzii degli elettrodomestici unito alla costante della tangenziale che scorre a un paio di km da qui moltiplicato per la moltitudine di fischi di varia intonazione che percepiscono le mie orecchie nel silenzio, quando sono in casa da solo. Si tratta di materia tangibile a tutti gli effetti perché, se chiudo gli occhi, la posso vedere e coglierne lo spessore. Rumore bianco, quindi. O forse è davvero meglio il podcast in cui spiegare le cose che mi spiegano gli altri, a partire da come ho sistemato la sedia che, resti tra noi, mica ho ancora aggiustato.

tutto pieno

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Se i primi giorni del nuovo anno accusate un po’ di disillusione rispetto alle aspettative di disruption, come dicono quelli del marketing, è solo perché fino al termine delle feste bisogna consumare per forza di cose gli avanzi dell’anno precedente, comprese le giornate stesse. Quindi, fino a lunedì, niente cambiamenti degni di nota perché si vive ancora incapsulati in questi rimasugli di 2023. Sarebbe inutile allestire un ambiente nuovo di pacca con il rischio di sporcarlo di monconi di petardi, briciole di zucchero a velo e gelatina contaminata dal paté. Se non ci credete, leggete dietro l’etichetta di questa settimana e vi toglierete ogni dubbio. Meglio così. Lunedì mattina sentiremo quel profumo di plastica nuova che ha il 2024, almeno per chi lo ha scelto di questa fragranza. Per me è importante perché mi ricorda lo stereo nuovo che aveva portato a casa mio papà quando facevo prima media. Ho ancora un po’ di quell’aria che è sprigionata dal vano delle cassette, quando lo ho aperto la prima volta. Sono stato molto lungimirante a metterne un po’ da parte, così quando ho bisogno di dare riferimenti a qualcuno su quello che mi occorre per viaggiare nel tempo mi basta fargli dare una snasata. Ho diverse boccette con essenze di questo tipo. La più preziosa è la cute di mia figlia quando è nata, ma quella è come il barolo del 64, la stappo solo per le grandi occasioni. Conosco invece persone che hanno preferito, rispetto all’anno nuovo, un usato sicuro, magari a km zero. Io non ne sono molto convinto, credo che comunque sia bene guardare oltre e puntare al futuro, ma capisco che ci siano persone che preferiscono accontentarsi come nei giochi che trasmettono alla tele, quelli presentati da Amadeus, uno che è bravo a rendere complesse dinamiche che, prive della sua narrazione, sarebbero così fragili da esaurirsi in una manciata di secondi. So solo che vi partecipano concorrenti che devono solamente tentare la sorte e subirne le conseguenze, nel bene e nel male. Ma se tutto ciò vi sembra disastroso, consolatevi col fatto che, già a pochi secondi dalla mezzanotte di capodanno, eravamo già abbondantemente più di otto miliardi di persone. Un dato incontrovertibile che ho provato sulla mia pelle nell’istante in cui, in un impeto di disarmante sprovvedutezza, l’ultimo dell’anno vecchio, ho avuto la presunzione di pensare di trascorrere la sera del 31 al cinema Anteo di Milano senza aver prenotato i posti con adeguato anticipo. Il carico di insensatezza del mio tentativo ha servito alla cassiera al botteghino di uno dei cinema più esclusivi della metropoli ai margini della quale vivo l’inaspettato assist per dare sfogo al livore di dover lavorare la sera di capodanno, aumentato in scala esponenziale dalla frustrazione di esercitare uno dei pochi mestieri umili ai margini di un settore a elevata visibilità come quello dello spettacolo (per di più nella capitale dell’entertainment nazionale), attraverso una reazione (probabilmente in lei latente da secoli, considerata la prontezza con cui la risposta è stata estratta e il carico di stizza impiegato per la deflagrazione letale) volta ad annientare il candore del mio approccio da autodidatta al sistema comunemente definito come “saper stare al mondo”. Era tutto pieno, e se abbiamo toccato quota 8 miliardi lo sarà sempre più frequentemente. In così tanti, poi, lasciatemi pensare a chissà quanta musica nuova inventeremo. Qualcuno sostiene che, a differenza delle probabilità dei pacchi di “Affari Tuoi”, le combinazioni tra le note, gli accordi e i ritmi non sono infinite, che non c’è più spazio per nulla, che l’entusiasmo per le nuove uscite discografiche non ha senso di esistere perché viviamo in un perpetuo riproporsi di sonorità evocative del momento migliore di tutti, quello in cui il tempo si è fermato, quello che ci ha reso immortali.

cosplayer

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Quando mi sento in colpa per essere diventato un ascoltatore ossessivo compulsivo di musica e uno sperperatore collezionista di dischi, penso che poteva andarmi peggio. Ci sono adulti che dipingono elfi e soldatini per i giochi di ruolo, gente che a cinquant’anni si veste da personaggi dei fumetti, o appassionati di modellismo.

lei che bacia lui

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Qualche settimana fa ho interrotto il mio sciopero dei concerti per partecipare all’esibizione live di Colapesce Dimartino all’Alcatraz di Milano. Non so se avete notato la grave crisi economica che sta attraversando il settore della musica dal vivo. Bene, avrete allora letto su tutti i giornali che la causa di tutto ciò va ricondotta alla mia astensione dalla partecipazione ai concerti che ho proclamato – manifestando un segnale forte di insofferenza – tre anni or sono.

Non mi reco ai concerti – e più accesa è la passione che provo per una band o un’artista e più efficace è la mia rimostranza – ormai dal 2018 principalmente per due motivi, anzi tre: non posso sopportare di condividere la conoscenza di un gruppo con qualcun altro e di pensare che ci sia gente che apprezza le band di nicchia che seguo. Non sopporto chi va ai concerti, mi si piazza vicino e canta le canzoni, soprattutto dimostrando di conoscere i testi meglio di me. Non sopporto chi si reca ai concerti solo per presenziare all’evento e senza conoscere a fondo la band e poi passa il tempo a chiacchierare o a fare la spola con il bar. E vi dirò che non sopporto nemmeno quelli che tengono lo smartphone in alto per scattare foto o riprendere video del concerto che poi non vedranno mai. Ecco, in realtà i motivi sono quattro e sono certo che se mi lasciate continuare ne trovo altri mille.

Comunque ho interrotto il mio sciopero dei concerti per andare a vedere Colapesce Dimartino all’Alcatraz di Milano un paio di settimane fa e l’ho fatto per due motivi: li adoro e li adora anche mia moglie. Abbiamo preso due biglietti ma poi mia moglie si è accorta che, proprio quella sera, sarebbe stata coinvolta in una trasferta per lavoro, quindi poi alla fine non ci siamo andati insieme ma ho venduto il biglietto a una coppia di amici e sono andato lo stesso da solo e vi posso confermare che era pieno di gente che amava Colapesce Dimartino come me, che tutti cantavano le canzoni e che addirittura accompagnavano certi passaggi particolari con la gestualità tipica della nostra cultura, che c’era chi chiacchierava durante i brani e faceva la spola con il bar e che quasi tutti hanno scattato foto e ripreso video con lo smartphone per tutto il concerto che poi non vedranno mai. Il concerto, comunque, è stato davvero molto bello. Loro sono bravissimi, io conoscevo tutti i pezzi e dal vivo non mi aspettavo una resa così coinvolgente.

Oltre alla faccenda dell’interruzione dello sciopero, avrete anche letto sui giornali che di Colapesce e Dimartino, oltre alla musica, mi piacciono molto proprio i testi ed è un dettaglio che ha dell’incredibile. Amo molto anche la loro sicilianità ed è un aspetto che si è consolidato quest’anno proprio durante le vacanze estive che ho trascorso in Sicilia. Il primo disco di Colapesce Dimartino (il nuovo è uscito solo a novembre) è stata la colonna sonora del viaggio e si è prestato molto perché i richiami alla Sicilia sono assai frequenti. Se lo conoscete, per esempio c’è una delle tracce più famose – si intitola “Luna araba” – e vede il featuring di Carmen Consoli. Il testo è centrato proprio sul fascino che esercita la Sicilia sui turisti, sui suoi abitanti alle prese con i turisti (che sono sempre di più) e anche sulle contraddizioni di quella meravigliosa terra. C’è poi un passaggio che trovo molto toccante. C’è un verso che dice

Dove sei rimasta ad aspettarmi tu
Sicuro c’era il mare

Non so quale immagine volessero trasmetterci i due autori ma l’idea che mi sono fatto io è che quei versi cantati con quella specifica melodia siano stati scritti pensando ai numerosissimi giovanissimi siciliani che vengono a lavorare al nord – ce ne sono svariati tra i miei colleghi a scuola – e che lasciano nella loro terra i loro affetti e devono attendere per tutto l’inverno le vacanze estive per riabbracciarli, magari proprio in un posto di mare come quello della canzone.

Questo mi fa riflettere sul legame indissolubile che abbiamo con la terra in cui siamo nati e il ritorno alla quale, se ce ne priviamo, aneliamo per tutta la vita. Anch’io, nel mio piccolo, sono emigrato anche se solo di 150 km. Potrei tornare in Liguria ogni fine settimana, se volessi e se non lo facessero simultaneamente milioni di milanesi, che poi tornano simultaneamente a casa il giorno successivo. Per anni addirittura tornavo ogni sera pur lavorando a Milano. Con una manciata di altri folli come me praticavo il pendolarismo estremo e quotidiano sparandomi Genova – Milano andata e ritorno in giornata in treno tutti i santi giorni, pur di non trasferirmi quassù e rientrare nella mia casetta di Castelletto.

Che poi in realtà io sono nato a Savona, città che da qui ci si mette qualcosa di più per raggiungerla e alla quale invece mi sento un po’ meno legato perché è piuttosto deprivata e deprimente. Nonostante il rapporto amore-odio che mi lega a lei, ne seguo comunque le vicende sui social in quei gruppi che vanno per la maggiore in cui si parla di parcheggi, merde dei cani, microcriminalità locale, dileggio del PD e foto amatoriali a scorci discutibili con suv in primo piano. È proprio da una di queste pagine che ho appreso che Savona, seguendo un trend piuttosto diffuso in Italia, ha addobbato le proprie vie in occasione del Natale con quella tecnica di creare luminarie contenenti versi tratti dai testi di brani di cittadini illustri divenuti pop star nazionali grazie alle loro canzoni. A Savona le luminarie riprendono frasi delle canzoni di Annalisa, a dimostrazione che è proprio vero che ogni città ha il Lucio Dalla che si merita.