vi cedo il posto

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Permettetemi l’ultima parola, sono già tante le volte in cui l’ho detto ma ora non ce la faccio davvero proprio più. Non è possibile fare lavori come il mio per più di quindici o vent’anni, a quasi cinquanta sono stufo di spremermi in guizzi creativi, strutture narrative, editing sfrenato, titoli e slogan pubblicitari. Ci mancava pure lo storytelling. Vi prego, portatemi un giovane brillante che voglia prendere il mio posto, non prima di avermi dato l’opportunità di ricoprire le mansioni di un neo pensionato in qualche lavoro più tranquillo, dietro le quinte, senza aspettative, senza corse, senza scadenze, senza brief, senza consecutio temporum. Io ve la lascio volentieri questa scrivania, questi clienti che vogliono sempre cose nuove, questi spazi di visibilità in video, articoli, banner, post, social media, pubbliredazionali, infografiche, tag, headline, commenti e moderazioni. Io lo so che di questi tempi è già tanto averlo, un lavoro, e che ci sono centinaia di migliaia di ragazzi che fanno lavori per i quali sono fin troppo qualificati e altre centinaia di migliaia che il lavoro nemmeno ce l’hanno. Ma troviamo un sistema per salvaguardare queste due o tre generazioni sfiancate dal terziario estremo, dalla schiavitù della comunicazione, dalla dittatura del marketing, dalla digitalizzazione selvaggia. La chiave della ripresa economica è tutta lì. Il segreto risiede nel liberare tutte quelle persone che come me lascerebbero volentieri lo spazio che occupano immeritatamente, lungo un sistema viziato da dinamiche che non esistono più, la carriera che c’era un tempo per cui entravi fattorino e andavi in pensione dirigente. Oggi inizi come copywriter e finisci come copywriter con esperienza. Se finisci. Lanciamo quindi tutti insieme una campagna per scambiarci il lavoro in questo gioco che si occupa la casella successiva almeno per l’impegno intellettuale per non far più lavorare i neuroni quando sono tutti protesi su ben altre preoccupazioni. Genitori anziani, figli adolescenti, acciacchi della mezza età. Per me è finito il tempo di compiacersi con le frasi ad effetto e i testi ammiccanti. Aderite numerosi a questa iniziativa, se volete trovo io qualche frase ad effetto che è il mio mestiere. Poi però basta eh, venite a darmi il cambio e mettetemi a far attraversare la strada ai bambini davanti alle scuole.

l’arte della fuga per tracciare un percorso verso il boh

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Nella lista degli sport praticati dai nuovi compagni di classe di mia figlia, che ora è in prima media, risaltano ben tre casi di ragazzini che hanno dichiarato di dedicarsi al Parkour, che, come recita Wikipedia, consiste “nell’eseguire un percorso, superando qualsiasi genere di ostacolo vi sia presente con la maggior efficienza di movimento possibile, adattando il proprio corpo all’ambiente circostante”. Dopo i ritmi con la bocca e le spruzzate di vernici spray su mezzi pubblici, ecco che l’espressività urbana finalmente si libera dei suoi legami esclusivi con l’arte visiva e prosegue il connubio con il ritmo della città già iniziato con l’hip hop e tutto ciò che ne deriva, attraverso queste nuove arti performative che abbattono i vincoli imposti da ogni limite architettonico. Il Parkour che, sempre secondo Wikipedia, “arriva in Italia attorno al 2005, sviluppandosi molto grazie al web”, come a dire che grazie all’apporto che Internet è in grado di dare ai moti più rivoluzionari della creatività non ci facciamo mancare proprio nulla, simula la reazione degli esseri umani in contesto metropolitano in uno stato di fuga da un pericolo. L’abilità è sfruttare corpo e intelligenza per trovare il modo di spostarsi da un punto A a un punto B nel modo più semplice, veloce ed efficace. Non a caso coloro che praticano questa disciplina si chiamano tracciatori e tracciatrici perché indicano una modalità, avviano un percorso, segnano un solco da reinterpretare. Pensate a quante cose è in grado di insegnarci la strada. Avevo letto, per esempio, che i movimenti che caratterizzano il codice di comunicazione corporea di molti cantanti rap deriva dalla tecnica autodidatta del basket che gli afroamericani imparavano sui campetti improvvisati negli anfratti dell’urbanizzazione statunitense. Ed ecco oggi che il perdere tempo outdoor è stato messo a frutto in una sorta di passaparola globale da giovani in fuga dalle loro tradizionali attività – la scuola, lo sport, l’impegno sociale – in una convincente metafora del loro futuro prossimo. Non importa da che cosa si scappa, l’importante è farlo con arte e poi, soprattutto, twittarlo finché è ancora caldo.

cosa ce ne faremo un giorno, con tutte queste nanotecnologie, noi occidentali di mani così grandi

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Cosa ce ne faremo un giorno, con tutte queste nanotecnologie, noi occidentali di mani così grandi? Queste dita grosse e legnose, questi polsi saldi e forti con cui abbiamo soggiogato la natura, divelto querce, abbattuto carnivori predatori, deviato fiumi e conquistato i cieli e persino lo spazio, prima o poi saranno la causa della nostra estinzione. Non abbiamo nessuna speranza di sopravvivere al futuro che è fatto di movimenti che prevedono spostamenti al millimetro, pressioni al micron, dimensionamenti al pixel. Ieri ho assistito alla posa di una pellicola protettiva sul touchscreen del nuovo smartcoso di mia figlia a opera di un vero e proprio artigiano cinese in una specie di cattedrale delle cover – che se non sbaglio si chiama addirittura così – in via Paolo Sarpi, che per i non milanesi è chinatown. Uno spettacolo miracoloso che, per tre euro pellicola compresa, consiglio a tutti. Altro che kolossal e maxischermi con digital surrond. Il vero prodigio si manifesta nel piccolo, una versione hi-tech della botte con il vino migliore. Ero in coda per pagare quando ho notato questa specie di prestidigitatore del sol levante che solo con le sue dita, una spatolina di plastica e dei pezzi di nastro adesivo che strappava di volta in volta a seconda della necessità, ha rimosso grani di pulviscolo uno ad uno, sfiatato bolle d’aria del diametro di un capillare e messo al sicuro dai graffi per sempre la superficie di un iPhone 6 maxi a una coppia di ragazzi con una precisione senza eguali. Italiano lui, americana lei, anch’essi entusiasti di gratificare il mago delle pellicole protettive a un prezzo più che congruo, peraltro seguito dalla consegna di regolare scontrino fiscale. Mi sono immediatamente proposto per fargli fare il bis, non ne avevo bisogno ma ne valeva troppo la pena. Mi sono immaginato così questa nuova specie umana che non ha bisogno di tenere in mano manici di vanga o di piccone, falci e martelli perché in grado di spaccare nuclei a mani nude, separare protoni da elettroni, costruire molecole aggregando atomi come pezzi di lego. Probabilmente la chiave per superare il problema della sovrappopolazione non è tanto controllare le nascite ma occupare tutti un po’ meno spazio con il nostro fisico, cosa che qui in occidente non abbiamo ancora imparato perché se vedete i ragazzi delle nuove generazioni sono tutti grandi e grossi e prima o poi su questa parte del pianeta avremo delle difficoltà di stoccaggio delle nostre vite. Invece di là no, sono miliardi e anche quando vengono qui nei loro quartieri non diresti mai della granularità della loro presenza. Qualche indizio però, a ben vedere, lo si può evincere dalla quantità di roba che si trova nei negozi di via Paolo Sarpi. Traboccano di vestiti, bigiotteria, giocattoli, cover per smartphone. Centinaia e migliaia di capi stipati nei negozi e viene spontaneo chiedersi se riusciranno a venderla tutta, quella roba, poi di questi tempi in cui i consumi calano un po’ ovunque. A meno che al sistema di commercio orientale non interessi solo produrre ed esportare perché la loro crescita economica conta solo sul fabbricare tutti quei pezzi e trasportarli in tutti i negozi che hanno aperto all’estero, estero rispetto a loro. Ma se è così, e chissà se lo è perché davvero non mi spiego pareti traboccanti di cover per ogni modello di smartphone esistente sulla terra e tanti di quegli orecchini che non basterebbero tutti i lobi di un’intera nazione come la nostra, se a loro interessa solo fabbricare ed esportare e se poi l’esercente anche se non vende amen, a me che non capisco davvero un cazzo di economia, in questa piramide economica c’è qualcosa che non mi quadra.

ce l’hai

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Una delle prime cose che ho fatto dopo che è mancato mio papà è stata quella di acquistare uno smartcoso Android di buona qualità e dismettere un catorcio con la tastierina qwerty a prova di dita dal diametro di stecchini con un’esperienza d’uso devastante soprattutto per navigare in rete. Ogni tanto si sente qualcuno che, per tirarsi un po’ su, va a far shopping. Per me è stato proprio così, solo che la necessità di comprare qualcosa di appagante è stata così spontanea che ho collegato i due avvenimenti molto tempo dopo. Così sono giunto a una specie di ingenua conclusione che probabilmente il capitalismo ha avuto tanto seguito perché nulla ci dà così tanta soddisfazione come il possesso materiale del nuovo. Il verbo avere è uno dei fini a cui tendiamo maggiormente e non è un giudizio morale. Voglio dire, tutta la storia degli ottanta euro puntava proprio sul farci propendere ad essere un po’ più spendaccioni, c’è gente che ha preso il quarantun per cento facendo leva sui nostri orientamenti e sul marketing. Si può comprare per stretta necessità, ci si può contornare di beni superflui, ma la cosa nuova di pacca è di per sé irresistibile nel momento in cui, nella privacy delle nostre stanze, la attiviamo, la indossiamo, la disponiamo, la montiamo o la smontiamo per la prima volta. Ma se tutto questo è innato in noi quanto è vero, probabilmente è altresì plausibile che, all’opposto, la condivisione non fa proprio per la nostra natura. Che ne dite di questa notizia bomba? Lasciate perdere i vostri cari, i vostri figli, i vostri amici e l’altruismo in genere. Pensate piuttosto allo sforzo culturale che ci è stato imposto come miglioria delle coscienze che abbiamo in comodato d’uso per spartire un nostro bene, c’è tutto un compromesso universale che ci fa progredire e sopravvivere a noi stessi proprio grazie a questa capacità di mettere a disposizione di altri le nostre cose. Quegli uomini in miniatura dei nostri bambini, per esempio, mica si fanno tanti problemi a soprassedere sulle spartizioni o, all’opposto, a dilapidare inconsciamente patrimoni ludici di proprietà proprio perché privi dei freni inibitori che regolamentano la convivenza civile e l’attribuzione del giusto valore alle cose. Comunque a comprare per sentirsi bene uno ci prende gusto proprio per l’efficacia terapeutica, tendere alla realizzazione del sé trasformando carta moneta o denaro virtuale in oggetti è una sorta di reazione chimica che ha del miracoloso. Carte di credito che fumano da quanto sono state strisciate nei POS. Armadi e ripostigli che traboccano di packaging appena disfatto ché è sempre meglio conservare la scatola, qualunque cosa essa contenesse, almeno per un po’. Ci ferma solo questa maledetta flessione economica, oppure al contrario è proprio questo senso che non ci sarà un domani di risparmi a indurci al consumo. La prova tangibile dell’opulenza, o del semplice benessere da classe medio-bassa, la tara che ci portiamo appresso dalle caverne o per lo meno dall’invenzione del denaro: il rigore, quello che va tanto di moda nella mitteleuropa, è solo una distorsione della realtà.

qual è il tuo colore preferito?

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Gente che ha dato vita al suo primo blog sotto forma di diario dei ricordi in quinta elementare ne conosciamo tutti, almeno noi nati prima del 1995 e della rivoluzione che, con una miscela tra i Social network e il nutrirsi di schifezze agli apericena, ci sta conducendo all’estinzione nel giro di un paio di generazioni. Sono uno di quelli, inutile che vi precipitate a guglare gli indizi che vi sto per fornire per capire in anticipo di chi sto parlando. Esistono infatti le cottarelle a dieci anni, non ditelo a me che ho una figlia proprio in quella fase della vita, senza contare che – e scusate il luogo comunissimo – i dieci anni di oggi corrispondono almeno ai tredici nostri.

Avevo chiesto di fotografare Raffaella a un suo compagno di classe perché certo non potevo farlo io, ma doveva farlo con la mia compattina, e così mi serviva un posto per occultare la foto. Avevo quindi preso un quaderno a righe in cui avevo messo a punto un ingegnoso nascondiglio tra le pagine, da lì mi era venuta l’idea della scrittura biografica ma volevo comunque insistere con la formula del testo alternato alle immagini, ero una personalità originale destinata al successo già allora. Poi però c’è stato il colpo di fulmine della testimonial del Baby Shampoo Johnson sul giornalino, credo un Topolino, che dopo un ritaglio da manuale – l’equivalente dello scontorno che oggi si fa con la bacchetta magica di Photoshop – avevo appiccicato sull’interno della copertina dedicandole la posizione d’onore. In pratica la testimonial del Baby Shampoo Johnson era subentrata a Raffaella, anche perché poi nel frattempo avevo subito alcune intimidazioni a mollare il colpo prima che qualcuno il colpo lo mollasse a me ma in faccia.

Comunque la testimonial del Baby Shampoo Johnson, che quindi risulta essere la seconda storia che ho avuto in ordine cronologico, era biondissima e aveva gli occhi azzurri e mi ricordava mia cugina Anna Grazia, anche lei bionda con gli occhi azzurri che quando si vestiva di azzurro tutti si proiettavano in una specie di mondo magico delle fiabe che nemmeno Flora, Fauna e Serena e la loro battaglia a colpi di bacchetta. Sarà per questo imprinting sentimentale che poi l’azzurro me lo sono portato dietro tutta la vita, compresa Azzurrina che era una bellezza al terzo anno di lettere con gli occhioni celesti su una pelle così bianca che si contavano le vene anche’esse azzurre fino alla combinazione paradossale per cui un mio conoscente che abita qui di fronte ha chiamato la sua quarta figlia proprio Azzurra. Che tripudio di toni patriottici. Dev’essere per questo che il mio colore preferito è il BLU NOTTE.

manifesta superiorità

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Eravamo entrambi comparse di contorno, in un gruppetto in cui c’erano due eletti che per la loro superiorità estetica oggettiva erano destinati all’accoppiamento reciproco e che suscitavano varie dinamiche tra il gruppo, a partire dalle maldicenze per finire alla funzione di coro greco. Quel cicaleccio che potrebbe essere sostituito da rabarbaro o da altre parole onomatopeiche usate nel cinema e nel teatro per creare l’effetto di brusio, brusio anche nel senso di personalità in subbuglio per quel fine che è già stato scritto. Succede proprio così e non dite che non vi è mai capitato. I due eletti destinati all’accoppiamento reciproco impongono l’agenda del gruppo, consapevoli che tutto a loro è dovuto e il contorno si mobilita per il loro compiacimento a dispetto del resto, persone invece irrilevanti come quelle sterili foglie di lattuga da supermercato con cui i bar del centro indeboliscono il valore calorico dei piatti risolvendo così il senso di colpa dei clienti per le pietanze poco salutari che acquistano a caro prezzo e che a furia di nutrirti così in ufficio è un attimo a diventare obeso. Fino a quando i due eletti destinati all’accoppiamento si accoppiano. O magari lo si viene a sapere perché i due decidono di rendere pubblica l’ufficializzazione di una cosa che tutti supponevano o che era in auge già da tempo ma nessuno voleva ammettere per non sancire la crisi, il crollo e poi la fine di quel gruppo a contorno dei due eletti, che comunque di riffa o di raffa era purtuttavia un gruppo nel senso di una compagnia il che è meglio che star soli soprattutto se ci sono due teste di serie che orientano scelte, guidano opinioni, decretano tendenze e lasciano che le cose li seguano come una scia, tutti a ridosso degli eletti che alla fine si accoppiano reciprocamente e poi cominciano a frequentarsi da soli con l’obiettivo di fondare un’altra comunità di appoggio, non basata certo più sulla loro tensione erotica ma sulle certezze che hanno le coppie compiute, fatte e finite. Cene, aperitivi, merende, cinema e qualche festa. Gli ex supporter invece no, si disgregano ognuno per la sua via costellata di mediocrità, qualcuno emula la coppia alfa accoppiandosi e ammazzando il tempo a parlare del loro archetipo sentimentale. Ed è andata proprio così, nel senso che eravamo entrambi comparse di contorno e i due eletti destinati all’accoppiamento reciproco un po’ ci piacevano reciprocamente. A me lei e a te lui. E poi quando lui e lei si sono accoppiati e hanno mostrato a tutti che era vero, ci siamo rimasti così così, potevamo imitarli ma non volevamo essere secondi a nessuno.

le dimensioni che contano

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Non c’è fretta alcuna, ma prima o poi dovreste riflettere sul fatto se ci piacciono così tanto le cose in miniatura perché subentra quel fattore ancestrale per cui ci adoperiamo a moltiplicarci e fare bambini, quindi è una sorta di inclinazione naturale che ci porta a bearci nella rappresentazione in scala della realtà. O, viceversa, per soddisfare l’istinto di completezza che ci conferisce il tenere in mano o il conservare in ambienti appositi simulacri di esseri viventi e non, ricerchiamo nella genitorialità proprio il piacere di avere noi stessi ma tascabili, mini-persone da coltivare e crescere secondo la nostra visione di completezza. Nell’uno o nell’altro caso, la frequenza con cui nelle nostre vite ci siamo imbattuti in modellini di navi, soldatini, sorprese di ovetti Kinder, casette delle bambole, piste per auto da corsa e trenini elettrici, bambolotti, droni, Smart, gatti, cani e visite a Italia in miniatura e iniziative analoghe, è la più evidente testimonianza che da qualche parte là dentro, in quella misteriosa materia grigia dove risiedono tutte le cose più inspiegabili della nostra natura, c’è un qualcosa di vitale che favorisce in noi l’attrazione verso ciò su cui per dimensioni possiamo esercitare un controllo, tenere in mano, costringere alla nostra volontà. E più si tratta di un qualcosa di interattivo, semovente, dotato di volontà anche recalcitrante basta che si possa immobilizzare con la forza, tenere in gabbia o guidare anche con controlli automatici meglio è. Se ci pensate bene, ci siamo inventati persino tutta una teoria secondo cui anche noi siamo la creazione di un’entità desiderosa di avere a disposizione una versione ridotta del suo regno, non si sa bene con quale finalità. Questo in un quadro in cui si è sempre una sorta di Big Jim o di Barbie di qualcosa di superiore ma probabilmente dalle stesse proporzioni. E, da questo punto di vista, chi si è inventato l’iper-realtà e la sua rappresentazione per immagini, ecco lì siamo andati davvero contro natura. Spalanchiamo gli occhi di fronte a ciò di familiarmente grosso – doppi sensi a parte – e ci chiediamo dentro di noi come dovrebbe essere la vita quotidiana con tutta quella sostanza da portarsi appresso.

fino agli annunci economici

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E pensate che ci sono ancora quelli con la visione romantica di certi lavori che entri in ufficio e, come prima cosa che fai seduto alla tua scrivania nella tua stanza in cui stai da solo – no open space, no loculi impersonali, no postazioni con virtual desktop in cui ti siedi ogni giorno dove vuoi, no colleghi che sbraitano con i fornitori al telefono o precari analfabeti che gli metteresti un bel saldatore in mano – dicevo come prima cosa spieghi (nel senso di aprire completamente, distendere qualcosa che era ripiegato) il quotidiano sulla scrivania che qualcuno sotto di te nell’organigramma ti ha preparato fresco di stampa e il tuo compito è proprio quello. Leggere il quotidiano da cima a fondo. Attenzione, perché è importante che mi seguiate nel ragionamento. Mica mi sto riferendo a quelle mansioni di raccogliere la rassegna stampa e cioè di scartabellare distrattamente tra decine e decine di riviste finché qualcosa di famigliare non ti salta agli occhi. No. Intendo proprio un mestiere per il quale è fondamentale essere aggiornati e informati su quello che succede nel mondo, e se sei pagato per quello è fondamentale leggere le notizie ogni santo giorno. Oggi si tratta di una consegna resa ancora più anacronistica dalla rete, perché siamo già al passo con quello che accade intorno ancor prima di varcare la soglia del nostro posto di lavoro, con le news che ci arrivano in tempo reale grazie alle app del nostro sito di informazione preferito. Ciò non toglie che scorrere editoriali, fondi e approfondimenti così, alla faccia di quello che potrebbero scriverci sotto i commentatori del web, avere l’opinione di professionisti che sanno scrivere senza doversi subire la gente comune che pensa di dover dire sempre e comunque la propria, non sarebbe niente male. Comunque quella di leggere il quotidiano come prima cosa è una pratica che l’ho vista dal vivo fare solo una volta. L’amministratore delegato di un’azienda del settore delle telecomunicazioni altoatesina, alle 8.30 del mattino, ha trascorso in questo modo una buona mezz’ora in attesa che lo riprendessi in un’intervista. Aveva la copia del giorno di una delle principali testate nazionali e ne ha letta con attenzione una buona parte prima che cominciassimo, sorseggiando una tazza di tè, con il pc spento e il telefono appena percepibile. Farei così anch’io. Leggere i miei giornalisti preferiti come fase propiziatoria per il mio lavoro, un’ora dell’orario di ufficio dedicata all’attualità, senza i barbarismi dell’Internet. Già, roba che nemmeno in un episodio di Mad Men.

lo scoto da pagare

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La carta geografica del Regno Unito si vedeva quasi ogni sera alle spalle del presentatore del tiggì negli anni dell’Ira, e io che ero bambino e molto piccolo ero convinto che non si trattasse della mappa di un paese sovrano ma che fosse la silhouette di un cane. Probabilmente in età prescolare non si capisce nemmeno che cosa sia un telegiornale, o perché una tv portatile in bianco e nero debba rimanere accesa mentre una famiglia consuma l’ultimo pasto della giornata. Di certo perché un tg nazionale dovesse a ogni edizione parlare di un cane e mostrarne un’immagine così poco dettagliata in posizione seduta, come in attesa di un comando del padrone o della cena, con la coda che si propaga sin oltre il Mare d’Irlanda, rimaneva ancora più un mistero, quasi più indecifrabile della fototessera di Mario Tuti, delle riprese ravvicinate dei terroristi e dei delinquenti comuni alla mercé delle interviste a caldo dai giornalisti.

Poi è successo che a un bel momento un po’ di gente, un bel po’ di gente, ha insistito affinché si decidesse che quel cane perdesse la testa, anzi, che qualcuno a quel cane la testa gliela tagliasse. Non stiamo a tirare in ballo la testa e le membra della celebre favoletta di Menenio Agrippa perché quell’apologia non c’entra se non nel significato che l’unione fa la forza, è l’Union Jack di forza ne ha davvero tanta.

Così ho provato a immaginare quel cane che tanto mi incuriosiva da bambino decapitato e proprio non ce lo vedevo. Sebbene il cervello inglese, inteso come centro direzionale, probabilmente risiede da qualche altra parte, a me l’autedeterminazione e le secessioni proprio non piacciono. Non sono un tradizionalista, anzi. Ed è pur vero che in certi casi, anche nella vita, una separazione dia nuova linfa ai soggetti che ne sono gli artefici. Ma insomma, ci sono così tante complessità al mondo che il legame con il territorio e tutte quelle cose lì che da noi le fa la lega a me fanno compassione, per non dire che mi fanno ridere.

Crescendo ho iniziato inoltre ad associare quel cane che si vede nella silhouette della cartina del Regno Unito con il Border Collie, che è il mio modello di cane preferito e che, guarda il caso, viene proprio da lì. Il Border Collie, lo saprete meglio di me che in casa ho due gatti, è un cane da pastore, di quelli che hanno l’istinto innato di radunare, mettere insieme, non lasciar allontanare gli individui dal gruppo. Insomma, avete capito che quella del cane, oltre ad essere una visione romantica delle cose, è una sorta di cerchio che si chiude.

Per fortuna, almeno così penso io, per fortuna i no hanno vinto, la Scozia rimarrà insieme al resto del Regno Unito e il cane non perderà la testa perché la testa da sola, separata dal resto, se mi avete seguito nel ragionamento, un po’ di impressione la fa.

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lo dice la rete

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Il meteoterrorismo (da non confondersi con il meteorismo) è quel fenomeno per cui operatori del turismo e associazioni di categoria si lagnano perché la gente si informa sul tempo che farà, manco a dirlo ma solo per quel che concerne vacanze e weekend. Uno dei tanti valori aggiunti della facilità con cui certi dati possono essere reperiti con semplicità dagli utenti mentre dall’altra parte è la rete stessa – ma come altri canali di informazione – che non perde occasione per farsi sentire al suo pubblico. Nel senso che non conta se una notizia è fondata, provata o riguarda un’opinione. L’importante è spararla grossa e attirare clic, pubblicità, lettori e ascoltatori. Un gioco vecchio come l’uomo prestato alla vendita, o no?

Ma sono anche i consumatori ad approfittare della visibilità del web per imbrattare pagine .php dei loro punti vista che ci mancherebbe, il nostro ingegno crea e ricava spazi fisici o virtuali e poi li riempie di sé. Il dilemma è se crederci, alle cose che la gente scrive in rete. La saggezza popolare, quella dei modi di dire, oggi ha il suo equivalente nei tweet e i pareri che una volta uno raccoglieva al bar oggi si rintracciano con Google. Pensate alla portata e al valore economico dei Trip Advisor e delle omologhe piattaforme di opinion leading a stellette che fanno la fortuna e la sfortuna di esercenti e imprenditori. Siamo liberi di ritenerle affidabili o no. Se tutti vanno verso una direzione ci sarà un motivo, fare di testa propria molto spesso si rivela fruttuoso, altre volte mica tanto. Vedi centinaia di automobili intruppate in un unico casello, pensi che idiozia e ti dirigi verso un altro libero. Può capitare che nessuno sappia che si possa usare la carta di credito senza commissione e quindi tutti hanno scelto quello cash, può capitare invece che siano tutti rotti e quello con la fila sia l’unico funzionante. Difficile da prevedersi.

Tutto questo pippotto è perché mia moglie ed io ci siamo lasciati prendere da un’offerta in un megastore di elettrodomestici: acquistando due prodotti, quello meno caro lo paghi la metà. A complicare le cose c’era il fatto che l’offerta scadeva di lì a due ore, quindi c’era poco tempo per prendere una decisione. Da qualche giorno avevamo iniziato a valutare la rottamazione della lavatrice ma era più urgente un frigo no-frost. La storia dei due piccioni con una fava. Va da sé che ci siamo invaghiti di una LG tutta cromata, come la motocicletta poteva essere tua dicendo di sì. Il confronto con le altre, leggendo le caratteristiche e a detta dell’inserviente, era più che vantaggioso. E poi a metà prezzo. Insomma, per farla breve abbiamo ceduto a frigo nuovo e lavatrice LG a metà prezzo.

Il giorno dopo l’acquisto mia moglie mi chiama disperata per numerose recensioni lette in rete riguardanti proprio quel modello di lavatrici LG con l’innovativo sistema di motore senza cinghia. Strappano gli abiti, a volte il bucato puzza più di prima del lavaggio, assistenza pessima. Ora mia moglie ed io siamo nel panico: la lavatrice LG tutta cromata ce la devono ancora consegnare e noi vorremmo già cambiarla. A volte è meglio rimanere nel dubbio, non conoscere la vera verità. Ma si può vivere così?