se vi riconoscete qui avete vinto, non so ancora cosa

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Come quelli che ti dicono che darebbero indietro o baratterebbero le qualità che nessuno nota a meno che non sei uno dei due genitori, in cambio di un profilo meno deforme, un po’ di addominali più visibili o una presenza meno goffa. Io mi toglierei due punti dalla media sulla pagella per avere una ragazza, questo l’ho sentito dire io con le mie orecchie. Le doti impalpabili, quelle che ti circondano di stima ma poi non ti scopa nessuno, sono le più bistrattate, c’è chi pensa addirittura che siano un’invenzione per sedare le sommosse delle persone poco popolari, un premio di consolazione, insomma.

E c’è chi porta all’estremo le conseguenze, come Davide che si finge folle e sostiene che ogni cosa che scrive e che appiccica da qualche parte con gli sticker gli sembra una parte di sé che non ricresce, così qualcuno che ha imparato psicologia su Yahoo Answers o al corrispettivo freudiano della scuola radio Elettra gli ha consigliato di frequentare persone che fanno lavori esclusivamente manuali. Se lasci un dito in una fresa te ne accorgi, altro che street art. Fino al punto che si è appassionato a questo genere di storie e ha deciso di lavorare a un documentario su quei tizi grandi e grossi che si occupano di sicurezza alle fermate della metro, con stemmi sulle casacche che sembrano inventati. Ce ne sono di tutte le provenienze ed è proprio questo che gli ha dato lo spunto. Persone che mentre badano alla sua incolumità chiacchierano tra di loro ciascuno con il proprio italiano mediato dalla lingua d’origine. Ora vuole seguirli con la camera hd lungo una loro missione, sono quasi sempre in coppia e sembrano non abbassare mai la guardia.

Ora che si è rasserenato e che sembra una persona adulta, almeno sulla carta di identità, lo incontri seduto sotto ai portici di un quartiere popolare a sud di Milano, dove c’è uno che ripara le bici e un centro estetico che ha dell’incredibile perché è gestito da una coppia marito e moglie e il fratello di lui, tutti ampiamente sovrappeso per non dire obesi. Ora non è che se fai quel mestiere lì devi essere un fotomodello o avere un fisico da attore, ma se ti attesti su proporzioni fisiche che tradiscono un tuo rapporto malato con il cibo e tutto il disordine esistenziale che ne consegue magari non invogli i clienti potenziali a mettersi nelle tue mani.

Comunque stanno tutti fuori a fumare sigarette la mattina, tanto nessuno in quel posto di poveracci si può permettere un trattamento di bellezza in un giorno di fine luglio. Davide è con loro e seduto sul suo scooter spento dà un’occhiata rapida a “Leggo – The social press” che un titolo più sfortunato per quella cartaccia gratis che distribuiscono i sudamericani non potevano inventarselo. Anche io ho appena visto uno che lo consultava con attenzione, con una faccia di quelle che non potrebbero mai tradirti o fregarti e poi quando lo fanno e li incontri a cose fatte c’è l’imbarazzo di entrambi. Tu perché gli hai dato fiducia, loro perché sono persone disoneste ma che poi alla fine si tirano fuori alla grande da ogni situazione tesa.

la sintesi è che italo va a trecento all’ora ma noi no

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I più sensibili accusano conati che li piegano in due se parli di deiezioni e non solo all’ora di pranzo, come biasimarli. A me ha svegliato la puzza di quella cosa lì che non nomino, perché la mia mente che lavora sodo anche quando dormo ha avvertito un odore che la norma o l’abitudine, se preferite, non vuole all’interno della gamma prevista dal contesto.

Avete capito, no? Quando vi cimentate a trova l’intruso nei giochi enigmistici c’è quel particolare che la vostra acutezza coglie e vi accende l’intelletto, come il celebre riflesso di Profondo Rosso con la faccia della madre che non c’entra nel quadro. Io dormivo ma ho sentito il tanfo e qualcosa mi ha detto che nella carrozza Smart di Italo da Roma a Milano quel tipo di odore, pur familiare ma non per questo amichevole, non doveva stare lì. Ho notato, appena aperti gli occhi, quattro inequivocabili strascichi organici, diciamo così, con tanto di tracce di collegamento tra l’uno e l’altro proprio lì accanto a me. L’istinto è stato quello di disintegrare con lo sguardo la coppia che occupava i sedili dietro al mio, proprietari di un cane di grossa taglia, ricevendo di rimando un cenno esplicativo, come a dire che la composizione di quelli scarichi accidentali sul corridoio tra le due file di posti non poteva essere ricondotta all’espulsione della parte terminale di un intestino crasso canino.

È così comparso sulla scena del delitto un uomo che ha trascinato oltre le porte a chiusura automatica che dividono le carrozze un altro residuo, quello di una conversazione in un dialetto campano strettissimo – quelli riconducibili a fatica alla nazionalità italiana – e che munito di scottex e salviette profumate tentava di salvare una situazione imbarazzante. L’anziana signora in viaggio con lui non era riuscita a raggiungere in tempo utile la toilette e, insomma, avete capito che cosa è successo proprio a fianco del sedile su cui stavo sonnecchiando.

Ora, non mi soffermo sullo scempio che la natura fa del nostro corpo con l’età, tema su cui sto preparando un vero e proprio compendio sulla base delle mie esperienze personali più recenti. E sono certo che una persona non smarrisca la sua dignità allo stesso modo in cui viene meno il controllo sui suoi organi che la mettono in contatto con l’esterno, anche se son cose che succedono. Una perdita, diciamo così, non va certo a inficiare una vita trascorsa a sgobbare, tirare su figli, creare futuro per altri, assicurare il sostentamento e la sopravvivenza per un nucleo famigliare.

Ho solo sovrapposto questo impasse con la storia della zia Maria, che, molti anni prima, aveva pregato il capotreno di ritardare di qualche minuto la partenza a Roma Termini perché lei, diretta verso sud, voleva abbracciare almeno per qualche secondo suo figlio che era diretto a nord ma il treno che faceva scalo lì a metà percorso non si era ancora visto. E i due annunci si erano quasi accavallati, quello che avvisava di affrettarsi per la partenza dell’uno e quello che si scusava per l’arrivo in ritardo dell’altro. Zia Maria era angosciata perché, da quando suo figlio navigava lungo gli oceani, si sentivano solo per telefono, e della notizia che lui aveva fatto scalo Napoli e sarebbe ripartito la sera da Livorno – porto da raggiungere tramite ferrovia – aveva visto il bicchiere mezzo pieno. Stava rientrando in Sicilia e i due convogli sarebbero transitati contemporaneamente a distanza di poche banchine. Il capotreno aveva così accontentato l’anziana zia e nessuno dei viaggiatori si era lamentato, anzi, se ci fosse stato uno di quelli che traggono storie commoventi dal quotidiano per rivenderli ai programmi da prima serata tv ne avrebbe preso spunto gratuitamente e la scena sarebbe stata rifatta fintamente vera con comparse di dubbia capacità prese dalla strada in un programma alla Maria de Filippi.

Se non fosse che questa storia, che è una bella storia, ha però alcuni elementi che la rendono irripetibile. Oggi i passeggeri esasperati dalla qualità dei servizi di cui usufruiscono, trasporto pubblico compreso, unita alla presunzione di rivalsa acquisita grazie all’illusione della democrazia diretta e della psicosi dei complotti, non avrebbero mai accettato uno strappo alla regola così eclatante. La gente in Italia anela alla perfezione tedesca, o meglio, esige puntualità teutonica anche se è la prima a restituire pressapochismo mediterraneo malcelato da eccellenza eno-gastronomica, superiorità pseudo-creativa e altri primati farlocchi, che vediamo solo noi.

Ma la povertà due punto zero di questi tempi muove tutti in un’unica direzione. Tutti verso nord a trovare lavoro, tutti verso sud a tornare ogni tanto a casa. Altre cose sono cambiate, per esempio non ci sono solo più le FFSS, ve le ricordate, no? Oggi c’è anche Italotreno, è tutto più vario ma è anche tutto più complesso.

Così quando l’uomo, forse figlio o nipote di questa signora Maria, quella che non ha saputo trattenere la dissenteria, e non dimentichiamo che tutti noi nati prima che cambiassero le abitudini sui nomi di santi e appartenenti alla sacra famiglia abbiamo avuto almeno una zia o una madre che si chiama Maria – ha fatto del suo meglio per migliorare l’esperienza di viaggio mia e degli altri pagata a caro prezzo, ho pensato a questa nuova società, quella dei cani di grossa taglia che viaggiano in classe Smart su Italotreno e che annusano con sdegno le deiezioni di una zia o mamma Maria qualsiasi che non ha parole per giustificare quello che è successo e che osserva il proprio viso in cima a un corpo che non riesce a controllare più riflesso nel finestrino dopo che un figlio o un nipote che a stento parla l’italiano l’ha ripulita e cambiata nei bagni di Italotreno.

Una società che ha costruito una modernità che è bellissima solo fino a quando c’è qualcosa che la modernità stessa ha portato all’estremo, come l’età, e che comunque non funziona più e fino a quando qualcuno non cercherà un modo per evitare situazioni come queste, anche l’alta velocità di un competitor delle FFSS – e sai quanti ce ne vorrebbero in Italia – verrà percepita come una conquista superflua.

una vita da gruppo spalla

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Avevo dedotto che avevano suonato prima dei Negrita perché i due fratelli giravano per il centro storico con una maglietta evocativa del gruppo ed era strano, perché ampiamente eretico rispetto ai canoni dell’abbigliamento hip hop che entrambi seguivano piuttosto fedelmente. Ma il dogma poteva essere parzialmente messo in discussione in un caso come quello, in cui lo sfoggio delle vestigia riconducibili a un evento ad ampia visibilità avrebbe riservato anche a loro qualche stralcio di fama di risulta. Li ho sentiti commentare il concerto della serata precedente che probabilmente era stata un’esperienza di quelle da annoverare nel curriculum da allegare al cd demo. I due fratelli, che condividevano il ruolo di front man e cantanti in quel complesso tutto sommato di buona qualità e dal sound innovativo, stavano ripercorrendo i momenti più significativi con alcune ragazze che avevano trovato un canale per compiacerli, quello dell’alimentazione del loro ego, la chiave giusta per anelare a qualcosa di più. Il più giovane dei due non ne aveva certo bisogno, stava già con una che sembrava una modella. L’altro, quello più grande, che andava un po’ a rimorchio, in una di quelle dinamiche anomale che si sviluppano quando un fratello maggiore si accorge che il più piccolo se la cava meglio e cerca di recuperare, parlava prodigo di particolari sulle modalità in cui l’essere risultati simpatici ai Negrita avrebbe potuto essere l’inizio di una fruttuosa collaborazione. L’illusione che hanno tutti i gruppi emergenti quando annusano quel poco di popolarità che spetta alle rockstar alternative di casa nostra, che già le conoscono in quattro gatti. A me per esempio Pau, il cantante, è simpatico ma solo perché ho letto che ha dato un paio di ceffoni a quella sagoma di Andrea Scanzi, per dire. I Negrita probabilmente non hanno mai avuto il successo meritato. Il gruppo dei fratelli nemmeno, dopo un po’ si sono sciolti come tutti, la maglietta dei Negrita era sparita dal loro abbigliamento già qualche giorno dopo, per un gruppo di hip hop mostrarsi condiscendenti con dei rockettari allora, come adesso, è considerato disdicevole.

sempre al computer

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Il trucco, lo sapete, è quello di non farsi beccare con troppa frequenza con le mani nel sacco perché figli e compagne di vita non ammettono i comportamenti reiterati viranti al maniacale che è un po’ lo specifico maschile, da sempre e a ogni latitudine. Non so, immagino mogli svizzere nelle epoche precedenti alla rivoluzione industriale che riprendono i mariti rei di passare tutto il tempo libero a intagliare il legno, o bambini giapponesi che piangono con le loro madri il proprio papà sempre assente perché preso dall’arte dell’origami nel suo tempo libero.

Ed ecco l’elemento chiave che ci frega, quel tempo che noi consideriamo libero di essere riempito esclusivamente da attività che la nostra forma mentis impone come soggette a un metodo. Un fenomeno compulsivo che ci incastra in una sorta di monogamia all’estremo con un unico interesse. Vi vedo con le vostre navi di legno, pensierosi al cospetto di puzzle da milioni di tessere, nei vostri garage con la maschera da saldatori, seduti in riva a pozze d’acqua artificiali con la canna in mano, quella da pesca, in attesa che qualcuno o qualcosa abbocchi. Peccato che tutti questi catalizzatori di solitudini siano stati pian piano soppiantati da passatempi in cui la poesia, se proprio la vogliamo dire tutta, è piuttosto carente.

Papà è sempre al computer è quanto di peggio un uomo possa sentirsi dire soprattutto se colto in fallo proprio nel corso di un tentativo di moralizzazione genitoriale verso il proprio figlio. C’è poco da fare la ramanzina contro la svogliatezza di un pargolo o per costringerlo a spegnere la tv se poi noi, dal nostro pulpito fallace, diamo il cattivo esempio con le nostre attività virtuali. Fotografia digitale, musica digitale, narrativa digitale. Che non ci sarebbe poi nulla di male, credo, se avessimo un po’ più di senso della misura.

L’evoluzione dell’uomo, nel senso di genere maschile, prevede l’aver sempre qualcosa in mano di connesso alla rete e la conseguente immersione in quel brodo primordiale in grado di fornirci un’esperienza totalizzatrice mai vista nella nostra specie. Perché c’è tutto, ogni senso è appagato, persino l’olfatto con quell’odore della plastica hi tech appena spacchettata dal cartone di Amazon. Siamo pronti a sacrificare salute e felicità per proiettarci nel buco luminoso da svariati pollici che teniamo sempre acceso, in stand by o protetto da custodie di fabbricazione cinese, laptop o tablet o smartphone sempre nel quadro visivo per riuscire a dare un’occhiata quando non ci vede nessuno o fottendocene bellamente, a costo di fare la figura di quelli che della tecnologia oramai sono dipendenti.

Così questa schiavitù a banda larga metterà la parola fine alla nostra attendibilità di educatori, e non ci sorprenderemo più di essere rappresentati nei disegni dei nostri figli un po’ separati dal nucleo famigliare, con lo sguardo rivolto altrove, molto più piccoli rispetto al resto dell’ambiente abitativo, tutti presi dalla nostra passione per Internet mentre il resto dei nostri cari, colorati e almeno sulla carta lieti animali domestici compresi, si tiene per mano.

il delirio al Maracanà

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Vi ricordate delle notti magiche di Gianna Nannini e Bennato? E del ballo del waka waka che ha impazzato nei villaggi turistici di ogni dove giusto quattro anni fa? Addirittura nel lontano 82 spopolò una versione di Da da da dei Trio cantata non ricordo da chi come una cantilena con i nomi dei giocatori della nazionale italiana, fresca vincitrice di quell’edizione, quella di Pertini. Imbroccare un pezzo legato ai mondiali di calcio è una bella fortuna, perché annesse al calcio e alla coppa del mondo ci sono un sacco di emozioni collaterali che milioni di tifose e tifosi sono pronti a vivere.

Comporre la colonna sonora di un evento epocale potete immaginare cosa comporta. Ragazze con la faccia pitturata che la ballano seminude sugli spalti inquadrate in mondovisione, tifosi esagitati nei punti di raccolta dell’entertainment di massa che la cantano sotto al maxi-schermo nei momenti più forti, bambini che ne fanno le parodie con questo o quel gioco di parole. Ma imbroccare un pezzo legato ai mondiali di calcio nell’anno in cui la squadra del tuo paese lo vince è una specie di jackpot con il quale sei a posto tutta la vita. Pensate la fortuna di sostituire il poooo po po po po poooooo poooooo nell’immaginario del popolo del calcio italiano, per esempio, indovinare un motivetto da coro ultras con i campioni che lo cantano a squarciagola negli spogliatoi vittoriosi con lo champagne e le belle fighe che fanno da contorno ai nostri calciatori miliardari.

E per una sorta di transfert sociale tutti noi, grazie al nuovo inno degli azzurri mondiali, possiamo ridurre i gradi di separazione dai balotelli del momento, dalle loro starlette, dalle loro creste colorate, dalle loro scritte con cui si impiastrano i tricipiti. Se poi ci aggiungete la location del mondiale che è il Brasile, siamo all’apoteosi della festa collettiva. L’inno della coppa del mondo della nazionale italiana vincitrice di un campionato nella patria del calcio, il Maracanà. Come dite? Ci hanno già pensato?

Proprio così. E pensate che disdetta, che già sei costretto a farti chiamare Emis Killa, che già ti tocca esprimerti con un genere che non è il tuo, che non arriva dal posto dove sei nato tu perché nel posto dove sei nato tu ci sono Gigi D’Alessio e Dolcenera, mica cazzi, e così hai dovuto imparare a scimmiottare l’ennesimo feeling altrui con tutti quei gesti che nemmeno un vigile urbano nell’ora di punta. Così ti giochi l’asso che è un pezzo un po’ rap e un po’ brasileiro dedicato proprio al Maracanà e che parla di favelas e di fortuna, di deprivati che poi fanno i miliardi e si mettono con le belle fighe della tv, in cui c’è pure un riff corale che può anche sostituire il poooo po po po po poooooo poooooo nell’immaginario del popolo del calcio italiano e sei pronto a scommettere sugli azzurri che scenderanno in campo con quel gigante nero con la cresta colorata davanti, e tutte le retrovie tatuate che nemmeno i maori come dei guerrieri a mettere a ferro e fuoco la vecchia Europa, l’esuberante Sudamerica, la promettente Africa, la scommessa Asia e la non pervenuta Oceania.

E tu, Emis Killa, sarai ricordato come il cantore di una stagione da sogno, i corpi sudati nelle notti afose riuniti ovunque che si uniscono al delirio del Maracanà mentre risuona il fischio finale e i guerrieri si lanciano verso il loro tour trionfale con lo scettro più ambito nella storia dell’umanità. Ma. C’è un ma.

Succede infatti che i balotelli e i buffon non sono poi così forti e bravi come sono stati decantati dalla copiosa letteratura a riguardo e la prima squadra outsider ti fa uscire meritatamente al primo turno. Il sogno svanisce, il giocattolo si rompe, il campionato del mondo che l’Italia intera è quattro anni che aspetta si esaurisce in tre incontri meno che mediocri. Tutti a casa. Peccato, Emis Killa. Il delirio al Maracanà non ci sarà, né questa sera né mai. I guerrieri e il loro centravanti hanno tradito i loro supporter, l’emozione che doveva essere lunga un mese finisce brutalmente come un coito interrotto qualunque e il contrasto tra la tragedia e il rap samba e i gesti del feeling della vittoria di massa si stemperano nel dissapore del ritorno alla vita di tutti i giorni della gente che voleva cantarlo, il Maracanà.

Una vita fatta di lavori noiosi se non disoccupazione, treni in ritardo, politici e magna magna, complotti Bilderberg e modelli di smartphone in offerta ma senza quella soddisfazione di essere stati protagonisti di un successo comune, l’Italia al suo quinto titolo mondiale. E una canzone come quella del delirio al Maracanà suona oltremodo beffarda, l’esatto contrario per l’obiettivo con cui era stata pensata. Peccato, Emis Killa, potevi entrare nella storia insieme ai balotelli ma ti è andata così così. A proposito, ma voi lo sapete chi è Emis Killa?

un risultato delle scienze evolutive

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Scrivere un post sulla gente è pericoloso per una serie di motivi. La gente è quella che conosci, quella che ti legge, quella con cui lavori, un insieme enorme che comprende persino i tuoi parenti stessi. Le persone che sono in contatto con te sui social network, i vicini di casa, i genitori dei compagni di classe di tua figlia e quelli della squadra di volley. Il tuo avvocato, il tuo commercialista, il tuo medico, il tuo rivenditore di vinile usato di fiducia, il tuo veterinario, la portinaia del palazzo in cui c’è il tuo ufficio, la mamma del bambino con evidenti problemi di chissà che cosa che vedi spingere il passeggino con il figlio tutto raggomitolato su se stesso ogni mattina dopo che ha lasciato il fratellino sano alla scuola materna. Persone famose e mendicanti. Insomma, scrivere un post sulla gente è pericoloso perché uno deve mettere in conto che non esiste nulla di più pervasivo della gente.

Uno di voi dovrebbe quindi prendersi la briga – io no perché non ho abbastanza tempo, ho questo blog da mandare avanti – di fare una sorta di classificazione scientifica degli organismi viventi ma limitata alla gente e all’identificazione dei fenotipi ad essa riconducibili secondo due criteri: i lineamenti, cioè a chi ciascuno di noi è riferibile, e per l’attitudine nell’accezione di comportamento, cioè il modo di porsi anche senza far nulla. Tu vedi uno e capisci che cosa vuole, che cosa pensa, spesso che cosa vota. E se nel primo caso ognuno di noi ha una propria library di modelli, per esempio oggi ho incrociato ben due attribuibili al fenotipo Giustino Durano che è uno dei miei preferiti, nel secondo ci si può allargare un po’ di più con qualche sana generalizzazione.

Prendete i ragazzi maschi giovani di oggi e osservate quanto spazio lasciano all’aggressività nella postura, nella mimica, nel taglio di capelli e nell’abbigliamento. Prendete le donne che riescono a fare anche sei telefonate in meno di un’ora, lo so che si nascondono anche tra di voi, ecco loro probabilmente a differenza mia hanno una vita sociale ma mi piace pensare che ci sono persone che hanno talmente cose da dire che riescono a intrattenere così tanti interlocutori uno dopo l’altro per così tanto tempo. Ci sono i cingalesi con lo zainetto in spalla della campagna elettorale europea di Iva Zanicchi, credo l’ultima, e avete poco da ridere perché ne ho visti tre insieme, giovanissimi, e non ho potuto non pensare a questi nuovi modi di sbarcare il lunario tramite il clientelismo all’ultimo stadio, ovvero ingrandire la claque a una soubrette anziana prestata alla politica in cambio di gadget da quattro soldi.

Ognuno di questi, come ha fatto Linneo, potrebbe essere categorizzato secondo una ben precisa tassonomia, dal dominio al regno all’ordine fino alla classe e alla famiglia fino alla specie o, per essere più precisi, fino alla sottospecie che poi è quella per cui questo moderno genere umano sarà ricordato, facendo dimenticare tutti gli attributi più elevati.

discorso sul metodo

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Ho lasciato giusto il latte nel bollitore senza accendere il fuoco sotto per controllare se la batteria del portatile era sufficientemente carica per un po’ di autonomia quando ho pensato che la vita moderna è costellata di azioni lasciate a metà – la colazione abbandonata sui fornelli – e dall’ossessione dei dispositivi portatili funzionanti, il portatile infatti era ko. D’altronde è una questione di metodo, è quello che oggi insegnano nelle scuole elementari e medie per far acquisire ai ragazzi la consapevolezza dell’ordine in cui svolgere i lavori da un inizio a una fine, perché sembra una sciocchezza ma la distrazione sembra essere uno dei mali del secolo e sono certo che un giorno ci estingueremo proprio per non aver portato a termine correttamente una consegna di quelle vitali e il nostro beneamato genere umano sparirà dalla faccia della terra. Come se gli uomini delle caverne si coricassero senza prima accendere il fuoco per tenere lontane le tigri con i denti a sciabola, per dire.

Le maestre cercano di far dividere agli alunni un problema da svolgere in una serie di passaggi per ridurne la complessità. L’esempio più sfruttato è quello della ricetta per il compimento della quale occorre completare fasi relative. Ci sono tutti gli ingredienti? E gli strumenti utili? E poi punto primo: prendi x grammi di farina, punto secondo metti l’uovo e il burro e così via, fino allo spegnimento del forno dopo il tempo necessario alla cottura. Oggi c’è una fase aggiuntiva che è quella della foto con lo smartcoso alla pietanza tutta imbellettata nel piatto, ma se non c’è sufficiente carica della batteria siamo daccapo. I dispositivi furbi e intelligenti non hanno pensato a tutta l’energia di cui hanno bisogno per eseguire le funzionalità con cui oramai ci hanno viziato. Non solo non ci sembra più anomalo tenere acceso un qualsiasi display alla luce del sole, ma portarci in tasca buona parte della conoscenza di miliardi di persone (anche di epoche diverse) ci ha reso dipendenti in termini mai raggiunti dalla nostra evoluzione.

Ma sul più bello c’è sempre qualcosa che si spegne perché la batteria è esaurita e non sempre è possibile trovare un rimedio. Gli spazi pubblici e privati sono pieni di persone che si guardano intorno alla ricerca di una presa di corrente, negli angoli in basso dei muri, nei pressi delle macchinette del caffè, vicino a un banale interruttore. Fioriscono le aree municipali dedicate alla ricarica, anche qui a Milano sono state allestite oasi di connettività alla rete elettrica in cui ti puoi sedere e allacciarti alla corrente, le riconosci perché sono quasi sempre occupate da persone senza dimora che si sono inventate servizi innovativi come il microonde da outdoor. Tu vai lì e con un euro ti fai riscaldare il tuo pranzo al sacco, una cosa utile anche se sei in pausa pranzo e vuoi mangiare un boccone all’aperto.

E anche lì la sequenza delle azioni da compiere è fondamentale: selezioni la funzione del forno a seconda dell’alimento, imposti tempo e temperatura se il modello è un po’ datato, aspetti quanto devi e il gioco è fatto. Se nel frattempo ti allontani perché ci sono altri task che richiedono un tuo intervento – una chiamata o qualunque cosa lasciata a metà come il latte sul fornello – sei finito. Addio qualità organolettiche. Tutto si trasforma in un pezzo solido dalle caratteristiche indistinguibili. Il mio consiglio è quindi  di mettere in carica tutto alla sera prima di coricarsi e di non soffermarvi a mettere per iscritto riflessioni di questo tipo mentre state preparando la colazione. Anche se ci vuole poco per entrambe le attività, è sempre meglio fare una cosa per volta. Ci vediamo dopo, ora vado a pulire il latte nel fuoco.

fermati finché sei in tempo

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Quando qualche giorno fa si è diffusa la notizia della morte di Giorgio Faletti ho pensato che potesse essere un’idea ganza quella di scrivere un epitaffio su Facebook accompagnato da una foto recente di Peter Gabriel, sapete che c’era una forte somiglianza tra i due e che ciò era oggetto di scherno reiterato sul web. Ovviamente non l’ho fatto, perché esercitare la propria volontà su un’azione poco edificante o su qualunque stronzata a uno venga in mente e filtrarla con il senno dell’autocritica genera una soddisfazione e alimenta l’ego molto di più di una manciata di minuti di quella fama sul web che il battutismo compulsivo e l’ironia di twitter con cui i quotidiani stanno rapidamente smantellando la propria credibilità, dopo secoli di autorevolezza conquistata per merito dei grandi nomi della carta stampata, stanno assicurando a cani e porci, complice il pessimo gusto imperante. Scriveva giustamente qualcuno del rapporto perverso che sussiste tra i social media e i quotidiani on line. Son tutti lì a screditare il popolo del web e poi non c’è una notizia che non sia accompagnata dalle scuse su Twitter, il coming out si Twitter, i migliori fotomontaggi su Twitter, le parodie su Twitter con tanto delle varie sore cesire di contorno che stanno prepotentemente scalando le priorità delle fonti di informazioni e ora stanno persino superando in gradimento le gallery con gli animali che si addormentano o gli autogol più improbabili della serie C giapponese. Il mio impegno, e siete miei testimoni, è di non alimentare questo mercato trash ma di limitare la tracimazione contenutistica di cui l’Internet prima o poi sarà vittima a questo spazio, dove chi mi ama mi segue e tutti gli altri fanno clic e sparisco dalla loro visuale.

ma poi si è mai capito come viene un rapace?

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Se escludo il piccione che si era appollaiato sui fornelli, il passerotto cucciolo o pulcino o come diamine si chiamano i piccoli volatili che ho trovato morto in decomposizione in un anfratto della casa in cui vivevo – piani molto alti ma tutt’altro che nobili – e il merlo appena nato che era caduto sul mio balcone per la gioia dei miei due gatti che hanno giocato con lui agonizzante per un intero pomeriggio prima che intervenissimo con un salvataggio di facciata, giusto per illudere mia figlia che nonostante le ali masticate dai felini c’era ancora qualche speranza che la mamma lo venisse a prendere nel giardino condominiale, i rapporti con la specie animale che in quanto a ribrezzo nella mia classifica è terza solo dopo insetti con corazza e rettili, volendo, potrebbero essere molto più costruttivi, qui in periferia di Milano.

L’avreste mai detto? Nonostante il verde coatto che piantumiamo tra un condominio classe A e una villetta a schiera solo come espiazione di una colpa da poco come condannare il  nostro pianeta a una fine prematura a causa della nostra indole altamente inquinante, se riuscite ad astrarvi superando i rumori costanti di tangenziali, antifurti, frese, betoniere, ambulanze e quei robi che schiacciano l’asfalto appena posato che non mi ricordo come si chiamano, quelli degli incubi che tu scappi ma non ti muovi di un millimetro e quello ti fa fare la fine dei personaggi Looney Tunes, ecco se spazzate via tutto questo e prestate attenzione sentirete un concerto di versi pennuti che nemmeno quelli che stanno fermi nella macchia a fare bird watching.

Ora se pensate che io sia in grado di attribuire ogni verso alla specie che lo ha emesso vi sbagliate di grosso e soprattutto mi avete sopravvalutato. Ma ce ne sono alcuni che mi piacciono particolarmente perché sono incredibilmente ritmici, suddivisi in parti simmetriche con ritmo così preciso che si potrebbero mettere a click. Da bambino trovavo tutte le assonanze con le parole e me le ricordo ancora adesso. C’è il verso di un uccello che sembra dire Ma-gya-ror-szaaaag Ma-gya-ror-szaaaag che dev’essere una sorta di tortora con una sua variante dal classico andamento in cui, come dice mia cognata, si distingue perfettamente il mio nome Ro-beeeeee-rto Ro-beeeeee-rto Ro-beeeeee-rto.

Poi si sentono gli ennemila ciiiiirp cioooorp che potrebbero essere di chiunque, l’inconfondibile stock stock stock del picchio che mai avrei pensato di sentire qui, a due passi dalle case popolari di Quarto Oggiaro e di tutto ciò che questo implica. Ci sono infine i guastafeste, quelle cornacchie e le gazze che con la loro mole spazzano via tutto il vociare degli altri volatili di periferia e che sono gli unici a cui i miei due gatti domestici si astengono dalla consuetudine di emettere quel verso che sembra un abbaio cai cai cai cai ripetuto in cui spesso si scorge l’istinto predatore dei felini domestici ma che poi, appena si vede qualcosa di grosso, scappano con la coda tra le gambe. Facile fare i gradassi con i doppi vetri alle finestre, eh?

Ecco, gazze e cornacchie che magari sono di due famiglie diverse ma che accomuno perché da queste parti ce ne sono davvero un botto, sono gli uccelli più comuni che, oltre a sentirne il funesto graaa graaa graaa li vedi fare il bello e il cattivo tempo sui tetti, in mezzo alla strada, in volo. Per un immigrato come me, che arrivo da un posto dove invece spadroneggiano i gabbiani anche in un modo ache non sfigurerebbe in una sceneggiatura di Hitchcock, questi uccelli neri sono una novità. Ma la loro bruttezza, non da meno di quella dei gabbiani che se pensate a cosa mangiano e a come si comportano li troverete tutto fuorché romantici, è davvero rara e lo stridore oltremodo inquietante.

D’inverno c’era comunque l’usanza di lasciare le briciole sul balcone nei periodi più freddi, in cambio di qualche ricordino organico, uno scambio impari che mi ricorda l’enorme voliera di mio nonno che teneva in cucina e a cui ogni tanto spalancava le porte per lasciare cardellini e canarini con l’illusione della libertà. Ero molto piccolo e non so dirvi come poi ritornassero tutti dentro. Ma forse le mie perplessità nei confronti degli animali d’aria risalgono proprio a qualcosa successo lì.

generi sui generis

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Quella volta in cui ci siamo spinti fino a un posto in periferia che però per noi era il margine della città ma dall’altro senso, e solo perché servivano una cosa che chiamavano birra verde che non ricordo nemmeno che cosa fosse, probabilmente una birra corretta con qualche colorante artificiale ed è meglio non pensarci, ecco è stato allora che qualcuno mi ha fatto notare lì di fronte il grande ospedale dei bambini dove c’era già tuo padre che faceva il primario di radiologia. E di certo non sapevo che poi un giorno mi sarei trovato con lui a spruzzare l’anticrittogamico, o verderame come mi piace chiamarlo in onore di una canzone in cui si celebra quello come il colore dei capelli di uno dalle lacrime facili, sui radi filari di una casa con vista mozzafiato sul più celebre dei borghi marinari di levante. Che poi poteva essere un rischio farlo fare a me, che in quanto a goffaggine in ambito bucolico/agreste non mi batte nessuno soprattutto se costretto a lavorare nei pressi di una montagna di compost e di tutta la puzza che esce inutilmente dal recipiente e tutti gli insetti che attira. Ma ce l’eravamo cavata alla grande, e avevamo ripetuto il successo quando, parcheggiando troppo a ridosso di un marciapiede tagliente, era scoppiata la gomma davanti, e mentre tua moglie – mia suocera temporanea – e tua figlia – mia fidanzata temporanea – si erano date da fare per cercare rinforzi più tradizionalmente identificabili come appartenenti al genere maschio aggiusta-tutto, con un cric e due chiavi avevamo smontato la ruota e messo su quella di scorta, tra l’altro mentre faceva buio, i negozi stavano per chiudere, c’erano ancora tante cose da fare e non era detto che in quel vicolo il carro attrezzi sarebbe riuscito a intervenire. E ho trovato ingiusto che, in quel gineceo che era casa tua, ti avessero segregato in un bagno per soli uomini, e il solo uomo eri tu, dove probabilmente ti erano permesse cose da maschio anziano come fare la doccia appena sveglio alle quattro del mattino, lasciare le salviette arrotolate, non preoccuparti dei peli della barba sul ripiano umidiccio del porta-spazzolino. Anche io da poco ho perso il mio papà, poi oggi ho scoperto che anche tu te ne sei andato lo scorso settembre, tu che sei stato un capofamiglia anche se come tutti gli uomini non ti era riconosciuta nessuna autorità. Avevi alcune cose in comune con mio padre, a partire dall’orto e l’amore per la riflessione che coltivare un orto consente. Il rifugiarsi in solitario con quel compromesso di natura controllata, a due passi dalla via di casa dove l’unica complessità risiede nello scegliere gli orari di rientro per evitare la coda. Questa coincidenza di eventi per nulla spontanea, ci sono una decina di mesi tra un lutto e un altro, è puramente una forzatura narrativa, visto che non ci siamo mai più sentiti ma così magari qualcuno che ci conosce entrambi le fa leggere queste due righe e le porta i miei saluti di cordoglio.