allo scoglio

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Non c’è una frase come “Ora, a freddo, posso anche dirtelo. Sai perché non mi è piaciuto?” asserita in tono perentorio che riesca a interrompermi dalla lettura, anche se la storia è intrigante a livelli che non potete nemmeno immaginare. E non è solo la sicurezza ostentata da chi l’ha pronunciata, una ragazza molto bella e in tiro che ha aspettato a intervenire nella discussione con i suoi compagni di viaggio sul treno solo una volta premuto invio di qualcosa sul suo smartphone. È anche la curiosità circa il tema sul quale la ragazza vuole esprimersi in modo così autorevole. Sarà che siamo nel pieno dei dibattiti post elettorali, quali scenari si aprono a Bruxelles con la vittoria del PD. Oppure c’è Cannes o il Papa in Terra Santa, al limite. Così distolgo l’attenzione dal mio libro per conoscere il parere di questa opinion leader anche se non so su cosa, e come me i suoi due interlocutori si zittiscono immediatamente dal loro dialogo così sommesso che, fino a quel punto, non avevo per nulla notato. “Sai perché non mi è piaciuto?”, dice. “Non mi è piaciuto perché c’erano il tonno e i gamberetti”. Che doccia fredda. Tutta questa determinatezza per parlare di cibo, e così l’idillio platonico e intellettuale tra me e lei si interrompe brutalmente come se qualcuno avesse tolto la corrente a un elettrodomestico. Ne segue l’argomentazione, perché se un ristorante ti presenta il pesce sul tavolo poi non può cadere in errori di accostamento come quelli. Uno dei suoi interlocutori osserva però che i gamberi erano vivi, al che non so davvero cosa pensare, se sia meglio cioè che si tratti di un’iperbole o se ha davvero provato l’esperienza di crostacei che muovono zampe e chele nel piatto, avvinghiati in un intreccio di spaghetti. L’altro, che si muove come se fosse in intimità con la ragazza, sdrammatizza con una boutade, sostenendo che non le è piaciuto perché c’era il pomodoro, ma la ragazza è ormai su un altro piano della conversazione che prevede aneddoti di cucina ittica accaduti nel corso di una vacanza in Kenya. Io non so nemmeno se ci sia il mare, in Kenya, ma forse sì, e se davvero si mangino i migliori piatti di pesce del mondo. Un viaggio in Africa come qualsiasi gita fuori porta in Liguria ad ammazzarsi di fritto misto fatto con totani surgelati. Non so se sia peggio la globalizzazione turistica o il fatto che la gente si sfondi di programmi tv di cucina e che il cibo sia uno degli argomenti di discussione più diffusi. Non a caso il racconto vira su un parallelo piuttosto improbabile con il piatto di pasta oggetto della conversazione. Qualcuno poi alla fine rivela il perché non le è piaciuto. Non le è piaciuto perché non ha potuto fare la scarpetta. Capite il dramma?

dipende dal segnale che si vuole dare

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A me, lo sapete, la cosa che più mi amareggia di questo nostro tempo è il virus della semplificazione che ormai si è dilagato in lungo e in largo per la nostra civiltà, mietendo vittime che non l’avresti mai detto. A partire dai bullet di powerpoint che spalmano uno strato di conoscenza volatile come fissativo scaduto che, pur utilizzato per trattenere al meglio concetti ed elementi, conferisce al contrario solo l’illusorietà del sapere come quando a scuola, mentre leggevamo la prima e unica volta la lezione, ci sembrava già di saperla e poi di fronte al prof, al momento della ripetizione, ci facevamo la figura da idioti. Tanto è vero che gli approfondimenti vi scivolano sopra in modalità opposta, come allontanati da un fattore repellente. Per continuare con gli assistenti vocali che ti consentono di impartire l’ordine di attivare una chiamata per il tuo beneamato/a usando persino il nomignolo intimo da post-coito a cui hai associato il numero alla memoria del dispositivo e quando ti succede e sei da solo sull’auto aziendale, quell’evocazione decontestualizzata ha lo stesso effetto di visualizzare il tuo profilo Linkedin la domenica mattina. È come se avessimo sprecato l’evoluzione di un secolo nella parcellizzazione della ricerca, un modello buono per ogni settore in cui è stata esercitata, per poi ridurre tutto a un sistema elementare, nel senso di primitivo, in cui attraverso schemi applicati presi dall’informatica tendiamo ad aleatori bignami discliplinari nell’intento di assimilare solo la sintesi ricavata da un unico processo valido per tutto. Dall’informazione alla medicina omeopatica, il paradosso della conoscenza non mediata grazie a interi sistemi enciclopedici del calibro del blog di beppe grillo o di yahoo answers coincide proprio nel momento di maggior successo dell’idea di superamento della democrazia rappresentativa, quasi se l’umanità avesse ravvisato nell’Internet della gente e nella parvenza di potere che solletica le pance più represse il punto di non ritorno, il momento storico perfetto per tirare i remi in barca e affidarsi a una dimensione iperuranica parallela come supporto dell’esistenza. Il che non sarebbe un problema se la casualità di ricerca di risposte, in un sistema come la rete, consentisse l’equivoco di considerare autorevole il parere del proprio vicino di casa piastrellista evasore totale e dai discutibili gusti in fatto di abbigliamento e di scelte educative per i figli, al quale nella realtà quotidiana uno non chiederebbe nemmeno un bicchiere di latte in un momento di urgenza culinaria. Probabilmente una manciata di decenni di annichilimento da passatempi compulsivo-passivi hanno ridotto drasticamente la nostra voglia di risolvere i problemi – non necessariamente quelli insormontabili – e abbiamo confuso il miglioramento della qualità della vita con la liquidazione totale del nostro pensiero critico e della volontà stessa di applicarlo per intendere e capire, ancora prima di superare l’ostacolo.

rho non ha nessuna colpa

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Giovanni era il mio preferito perché conduceva la sua vita da villeggiante senza il bisogno di legare con i suoi coetanei autoctoni. Trascorreva il mese di luglio a casa della nonna, un appartamento all’ultimo piano di un edificio signorile dalla eccessiva impostazione architettonica eclettica, costruito cioè in quel periodo in cui non sembrava strano mettere fianco a fianco un palazzo orientaleggiante a un villino di impronta tardo-gotica. La nonna di Giovanni occupava l’attico, quello con le torrette dedicate alla zona notte, una residenza di elevato prestigio che la diceva lunga sulla classe sociale della famiglia di origine. Il padre era un ingegnere milanese benestante ma non ricco sfondato, altrimenti non avrebbe certo mandato il figlio al mare in quel posto lì. Giovanni era alto e ben piazzato ma con una faccia da babbionello, forse perché aveva la media del nove al ginnasio e a sedici anni si stava per diplomare in pianoforte. Non trovavo corretti i concentramenti di bravura, per di più uniti alla bellezza e al carisma. Giovanni per fortuna aveva qualche carenza almeno in questo senso, per il resto era informato, intelligente, molto serio ma piacevole da frequentare. Soprattutto se ne stava in disparte e non sembrava dispiacersene. Condividevamo una parte del tragitto per rientrare a casa dopo un’intera giornata di mare, sua nonna tornava prima per allestire la cena, e mentre chiacchieravamo lo vedevo sereno, senza quella fregola di piacere alle ragazze che avevamo un po’ tutti, poche parolacce, il tutto potenziato da un tipo di sicurezza di sé che non conoscevo e mi suonava molto affascinante. Ma la cosa che mi incuriosiva più di Giovanni era il fatto di vivere a Rho. Non avevo mai sentito nominare Rho, né pensavo che potesse esistere un posto con un nome in italiano contenente l’uso dell’acca così particolare. Avevo cercato sull’enciclopedia e sull’atlante e avevo letto del tessuto economico di Rho, delle raffinerie e delle industrie, dei cotonifici e del polo chimico. Mi chiedevo come potesse essere la vita di un ragazzo come Giovanni che passa le giornate dopo la scuola a studiare latino, greco e pianoforte senza interruzione, solo che fuori ci sono ciminiere che eruttano fumo e lingue di fuoco che illuminano un’atmosfera malsana densa di caligine e vapori di fabbriche. Ora Rho è a una manciata di chilometri dal posto in cui vivo e in questi giorni in cui si parla di distese di cantieri improduttivi, autostrade a quindici corsie che nemmeno a Los Angeles, matrioske di imprese subappaltatrici che ci faranno mancare non solo l’impegno con il mondo intero per Expo2015 ma anche un’identità geografica di riferimento perché dell’Italia, a quel punto, non rimarranno che i pentastellari a blaterare di scie chimiche sulle macerie, proprio in questi giorni pensavo a che ne sarà stato poi di Giovanni, se ora è ingegnere pure lui o è diventato un bravo musicista.

la voce che ti dice che non è roba tua ha sempre ragione

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Siamo talmente abituati all’usa e getta che non ci preoccupiamo più di raccogliere le cose che troviamo abbandonate o perse da altri ed è sconvolgente se consideriamo quanto ci dicono che dovremmo esser poveri e il livello di zozzerie che si vedono in giro, zozzerie – in questo caso – da un punto di vista ecologico. Certe cose nemmeno le notiamo più, come le monete da uno due o cinque centesimi, se ci fate caso se ne vedono un sacco in giro ma che figura, però, a chinarsi e tirarle su in pubblico. Ieri invece uscito dall’ufficio ho visto una bella penna Stabilo giacere sul marciapiede nei pressi di una scuola media ed è lì che ho pensato quale debba essere il comportamento più corretto. Quanti di voi tornerebbero sui propri passi alla ricerca di una penna smarrita? Io, per dire, lascio sempre il mio tratto pen blu in giro, sulle scrivanie degli altri, una volta l’ho lasciato pure in bagno, ma quando e se me ne accorgo mica mi metto a cercarlo. Chissà dov’è, mi metto così a scrivere con una biro qualsiasi fino a quando è lui che trova me. Miracoli del terziario avanzato.

A maggior ragione uno studente delle medie che si rende conto della perdita e fa la strada a ritroso sino all’ingresso della scuola, una scena degna del finale di un film di quelli un po’ di nicchia che piacciono a noi blogger di nicchia, è difficilmente plausibile. Restano in lizza due opzioni: la si lascia lì perché non se ne ha bisogno, la si raccoglie ché non si sa mai. E l’appropriarsene in fondo è una reazione che fa tornare un po’ piccini, quando sei nel limbo del capire e del non capire e con la smania del capitalismo pre-scolare tutto quello che vedi e che ti attira l’attenzione diventa tuo. Quante discussioni con mia figlia, da una parte noi adulti con tutte le convenzioni imposte dalla convivenza sociale che quindi una cosa così non si fa. Dalla’altra l’ingenua attitudine al possesso che eserciti perché non hai ancora il filtro dell’auto-controllo.

Ricordo tanto tempo fa al mare, ero davvero piccolo, mi ero impadronito di una nave di plastica molto bella, colorata e super-accessoriata che avevo trovato in prossimità delle docce. Ma sapete com’è la vita negli stabilimenti balneari. Si lasciano i propri effetti personali nelle cabine, si appendono costumi e teli in comune, si lasciano occhiali e accendini sotto l’ombrellone quando ci si tuffa in acqua. Non a caso ero stato raggiunto da una mamma con un bimbo più piccolo di me in lacrime ed ero stato costretto a restituire la nave di plastica con mio sommo sbigottimento. Nessuno aveva dimenticato nulla, il bambino era scappato in bagno e al ritorno il suo gioco aveva cambiato proprietario.

Così, mentre passavo in rassegna questi strascichi di una delle prime delusioni cocenti provate, ho lasciato la Stabilo lì dov’era, consapevole che il suo valore non esercita alcun fascino sull’uomo dei nostri tempi, abituato a perdere telefoni e gadget elettronici con una frequenza preoccupante. A me non è mai successo di trovarli, sono cose che sento dire in giro, ma se mi capita so già, però, come cercherò di comportarmi.

il mentalista

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Massimo aveva preso un pacco di soldi dall’assicurazione per via dell’incidente in moto. L’aveva tirato sotto un’auto in una rotonda, quando di rotonde in Italia ce n’erano ben poche prima che poi si diffondessero proprio mentre, nel resto del mondo, iniziavano a sostituirle con gli incroci tradizionali. Massimo comunque non aveva studiato nemmeno quelli abbastanza, a scuola guida. E quando dico un pacco di soldi intendo davvero una fraccata di milioni di lire, si era spaccato di tutto, bacino compreso, e vi sfido a dire che sottoporreste volentieri voi e i vostri cari a una tragedia del genere solo per poi ricevere in cambio tutta quella fortuna. Roba che poi non è che vi cambia la vita, ma vi permette di stare qualche anno in panciolle – riabilitazione esclusa – senza muovere un dito lavorando, e non è poco a meno di vent’anni.

Comunque Massimo, che era negato per ogni forma di espressione musicale, voleva sfruttare a suo vantaggio una certa somiglianza con John Taylor per mettersi a suonare il basso nel modo più semplice possibile. Ovvero comprandosi un basso uguale a quello sfoggiato da John Taylor nei live dei Duran Duran e aspettare che mani, testa e corpo nel suo insieme – avete presente il linguaggio del corpo che è un termine che mi fa venire in mente i gorgoglii della pancia come avvisaglia della dissenteria – dicevo e aspettare quindi che mani, testa e corpo nel suo insieme imparassero la tecnica dalla sola vicinanza con lo strumento musicale.

Così aveva deciso di investire un po’ dei soldi ottenuti dall’incidente, una volta rimesso in piedi, acquistando uno Steinberger, che oltre a essere una delle novità di grido del momento – il primo basso senza corpo e senza paletta, un vero e proprio moncherino – era anche stato visto in braccio proprio al suo bassista di riferimento. Ma Massimo, consapevole del suo potere d’acquisto, aveva pensato anche a uno strumento di ripiego qualora l’esperienza con il basso si fosse rivelata deludente. Un buon sintetizzatore poteva restituire quella soddisfazione di emettere suoni e note più definite e con maggior semplicità e immediatezza rispetto a uno strumento a corde, in cui al tocco certo del dito o del plettro occorre corrispondere un bloccaggio sicuro della corda con l’altra mano sul tasto del manico consono alla nota che si vuole far emettere.

Massimo così mi aveva chiesto di accompagnarlo nella scelta della tastiera, un ruolo oltremodo frustrante per me che invece me la cavavo egregiamente come musicista (ho le prove, eh) ma non avevo la possibilità di comprare nulla. La situazione è facile da immaginare: un musicista vero e squattrinato in un reparto traboccante di ogni ben di dio in compagnia di un fanfarone ricco che può permettersi tutto.

Gli strumenti musicali si compravano in un magazzino musicale della bassa piemontese che era la mecca per chi suonava. Un negozio che aveva fatto la sua fortuna concedendo rateizzazioni pluri-annuali senza pretendere buste paga a copertura o acconti impossibili. C’era addirittura un sistema di collegamento in taxi dalla stazione per chi non possedeva la macchina pagato dal proprietario del negozio, che malgrado il suo impero lo vedevi sempre dietro alle casse o a inserire dati nel computer per stampare un prospetto della fortuna che gli avresti dovuto rilasciare tramite versamenti su bollettino postale, da lì all’eternità.

Durante il viaggio in treno avevo fatto di tutto per mettere un freno all’invidia, tuttavia mi accorgevo di preferire la richiesta di consigli sulla marca e sui modelli rispetto ad altri argomenti di conversazione molto più irritanti. Massimo, nel periodo di convalescenza, era entrato in contatto con una specie di santona che gli aveva messo in testa convinzioni strampalate sul potere della mente. Si era persuaso che il solo volere fortemente una cosa ne consentisse il raggiungimento. Pur forte del mio scetticismo, ricordo di aver trascorso tutto il tragitto sul taxi gratuito concentrandomi sull’evenienza che Massimo comprasse un synth anche a me, potevo benissimo essere io nel torto e lui aver ragione.

La pratica dell’acquisto del basso si era risolta in pochi minuti. Il commesso, ovviamente competente, era in imbarazzo per tutti mentre Massimo provava qualche mossa con lo strumento sopra lo spolverino, come se quello fosse sufficiente a valutare la qualità di un prodotto professionale. Nel reparto tastiere lo indirizzai quindi sullo strumento che avrei voluto tanto per me, provandolo addirittura in sua vece. Massimo così lasciò alla cassa un assegno a copertura di tutto e ci avviamo a casa con il taxi e il treno del ritorno. Lui con la custodia del basso a tracolla, io con il Roland Alpha Juno dal quale mi sarei però dovuto separare al termine della giornata di shopping.

La storia finisce bene, se avete voglia di sapere qual è stato l’esito. Voglio dire, un po’ di quella giustizia divina o giù di lì si è manifestata qualche mese dopo. Massimo ha deposto le sue velleità di musicista di lì a breve, consapevole degli sforzi che l’apprendimento della musica da adulti può comportare. Il basso Steinberger ha comunque deciso di conservarlo, tutto sommato aveva un suo perché poggiato sul suo supporto, in bella mostra in un angolo della sua camera e in un anfratto del suo ego. Sono entrato però in possesso del suo synth a metà prezzo, mi pare proprio che me l’avesse proposto lui, troppo complesso da programmare e da utilizzare. Un Roland Alpha Juno praticamente nuovo a un prezzo da non lasciarselo scappare. Probabilmente le teorie della santona sua amica funzionavano davvero: a desiderare intensamente una cosa la si ottiene alla fine, magari in un viaggio in taxi, o magari con un po’ di pazienza perché basta aspettare, ma a me andava bene lo stesso così.

sentirsi come beaker dei muppets

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Qualche giorno fa mi sono sentito come Beaker, e se siete un po’ avvezzi ai Muppets conoscerete il modo che ha di parlare e di relazionarsi con gli altri pupazzi. Ansia e vittimismo da incompreso stavano prendendo il sopravvento e il transfert si è avviato. Purtroppo non ho più in comune con lui la capigliatura, ma tant’è. Uno stato d’animo che comunque ho saputo valutare come un passo in avanti rispetto ad altri punti di riferimento dello stesso ambiente, e mi riferisco ai due vecchietti che in uno splendido isolamento dalla massa, al sicuro sul loro palchetto, spandono il loro sarcasmo senza confondersi con el pueblo sottostante. Atteggiamento in cui mi ritrovo sempre più spesso. La colpa è l’età che avanza, ma la colpa siete anche tutti voi, non certo voi che leggete ma voi intesi come tutti gli altri, voi che occupate il territorio limitrofo al mio fino ai confini di questo Paese, che affollate gli spazi di discussione con modalità che nemmeno i compagni di classe delle elementari di mia figlia, che costruite le vostre opinioni con aforismi inventati e impaginati a cazzo su jpeg diffuse su pagine Facebook che immeritatamente raggiungono decine di migliaia di persone, che indossate stivali bianchi su leggings neri, che tenete senza interruzione in mano quella tavoletta touch con cui vi sentite in posizione apicale rispetto a una rete che basta una galleria e siete fuori dal mondo. Quindi meglio impersonare il ruolo di chi si esprime in un idioma così, che nessuno capisce bene che cosa dice, lo si può immaginare ma, se occorre, si può far finta di nulla. Ho trovato su youtube i cinque momenti top di Beaker, potrei esserci io, tranquillamente, al suo posto.

ma che ci fai alle donne con una voce così

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Sarà colpa di un mio ex datore di lavoro che faceva lo speaker radiofonico e con il quale ci siamo lasciati in malo modo, spese legali incluse, ma a me quel timbro cavernoso che fa tanto uomo che non deve chiedere mai sia nel messaggio che nel tono sentito dal vivo mi disturba come nessun’altra cosa. Il copione è sempre lo stesso. L’impostazione vocale, o voce impostata, usata a sproposito cela spesso intenzioni provolesche, una dimestichezza commerciale latente montata su un ego spropositato e attitudine al posizionamento al centro dell’attenzione. Appena riconoscete segnali come questi potete scommettere sugli argomenti standard, che a Milano comprendono gli aperitivi e l’ultimo aneddoto su Lapo, quindi se non l’avete ancora guardato in faccia potete anche soppesarne l’età fino a quando lo individuate seguendo la sua parlata che sovrasta il resto ed eccolo lì, con i RayBan a specchio sulla camicia sbottonata e tutto torna, con le ragazze che squittiscono mentre lui racconta di sé, di clienti e fornitori, poi la filosofia e cartoni animati, persino i papi e le canonizzazioni e santità, la catena al collo. Sono quelli che alla radio è comunque meglio, se uno non vuole sentirlo spegne e basta.

i lavori socialmente inutili

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Ogni anno, in occasione della Festa del Lavoro, con le iniziali maiuscole per enfatizzarne il valore, penso che ci sono quelli che con il loro lavoro aggiustano ossa e salvano vite umane inserendo manicotti a protezione delle arterie, quelli che si prodigano affinché bambini disagiati possano usufruire di qualche forma di assistenza sociale, quelli che pilotano aeroplani che muovono centinaia di persone da una parte all’altra del mondo, quelli che decidono secondo il mandato che è stato dato loro in che modo investire il denaro pubblico, quelli che fanno comprendere a ragazzini di dieci anni le potenze e l’analisi del periodo, quelli che hanno l’autorità per dirimere cause legali, quelli che progettano impianti in grado di tappare automaticamente contenitori in plastica facendo aumentare la produttività dell’industria in cui lavorano, quelli che devono selezionare tra decine di video fatti con smartcosi i più divertenti da inserire in un filmato da proiettare in un evento aziendale, al ritmo di Happy di Pharrell Williams. Potete indovinare a quale categoria appartengo. Buon Primo Maggio, con le iniziali maiuscole per enfatizzarne il valore.

tanto è tutto scritto negli archivi di stato

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Come la maggior parte di voi, anche io questa cosa degli archivi di stato pieni di documenti sui quali è stato posto il segreto che poi vengono resi di pubblico dominio, in uno stato abitato da persone e quindi da amministratori più o meno democratici, non l’ho mai capita. Voglio dire, apparati deviati e servizi segreti con la collusione della mafia e della P2 e il supporto della Banda della Magliana e lo zampino dei neofascisti mettono a ferro e fuoco il paese e c’è qualche impiegato che mette per iscritto questa fiera delle malefatte in uno schedario che poi però non può consultare nessuno. Quindi migliaia di parlamentari, ministri, segretari di partito si sono avvicendati al governo nel corso del dopoguerra e sono stati messi al corrente di quello che è l’equivalente del terzo segreto di Fatima per le istituzioni secolarizzate e nessuno ha mai vuotato il sacco. I casi sono due. O qualcuno è stato davvero pirla da documentare con prove su prove tutta una serie di nefandezze golpiste per puro dovere burocratico, un po’ come accadeva ai tempi della Germania nazista con la meticolosa elencazione di tutti gli esseri umani deportati nei campi di sterminio ma loro erano suonati oltreché tedeschi. Oppure qualcuno è davvero pirla da credere che su quei documenti sui quali viene tolto il segreto di stato ci sia davvero scritta la verità, come se uno commette una cattiva azione poi sente la necessità di dirlo a qualcuno o di scriverlo nemmeno si trattasse un blog. Ve lo immaginate? Evado le tasse con la mia partita IVA e poi scrivo di averlo fatto in un diario dei ricordi e lo metto nel cassetto non prima di aver applicato un’etichetta “top secret” giusto per disincentivare i curiosi. Oppure ancora questo armadio degli scheletri di stato è un’invenzione della più sfrenata fantasia dietrologica del novecento che solo una sete di verità ne ha alimentato la sua diffusione nel corso degli anni affinché non subentrasse, anche in questo caso, una sorta di negazionismo di maniera. Sono fermamente convinto che questo sia l’unico ambito in cui un po’ di sano complottismo non guasti, nel senso che in un paese che ha passato quarant’anni a darsi la zappa sui piedi per peggiorare le cose ci dev’essere stata per forza una regia al fine di ottenere un risultato così efficace. A meno che, come per gli antichi romani, si è manifestato un fenomeno tipo gli acquedotti con qualche sostanza corrosa dalle tubature che ci ha fatto diventare tutti idioti. Ma magari idioti lo siamo sempre stati e davvero qualcuno si è preso la briga di tramandare alle future generazioni l’entità di una cretineria istituzionalizzata. Insomma, in ogni caso non ne usciamo mica tanto bene.

al mercatino del modernariato sociale

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Le cose del passato si pagano care e ci si pente di non averle comprate prima quando costavano il giusto, ma prima erano la normalità e uno non ci fa caso agli aspetti del quotidiano che poi finiscono per fare la storia. Pensate a quella grande chiesa che parte dalla radio Brionvega al numero uno di Dylan Dog passando per lo spremiagrumi Atlantic e Unknown Pleasures dei Joy Division. D’altronde ci vuole un bel fiuto per intercettare quello che potrà un giorno, ma chissà quando, diventare oggetto di culto e valere un bel gruzzolo. Ci pensavo oggi scartabellando proprio in uno scatolone di cartone zeppo di trentatré giri in un negozio di vinile usato. Mi sarei comprato un sacco di roba ma, diamine, che prezzi. Soprattutto di certi dischi che quando sono usciti costavano settemila lire – ve lo ricordate? – e oggi almeno nove o dieci volte tanto.

Se fossi un figo li avrei comprati allora, ma se non l’ho fatto è stato perché o non lo ritenevo fondamentale oppure non avevo soldi da parte da buttare via. Un sistema di valutazione, quello di far leva sulla nostalgia altrui, che purtroppo può essere applicato in ogni ambito merceologico. Se girate per le bancarelle dei rigattieri e i mercatini delle pulci vi accorgerete che la lampada che vi sembrava un obbrobrio pacchiano degli anni 70 con quei colori impossibili da abbinare e che i vostri genitori usano nella casa di campagna capovolta come vaso per gli attrezzi da giardino, ora che vorreste averla perché era la vostra alleata per sconfiggere la paura del buio, non ve la molla nessuno per meno di centocinquanta euro. Una volta ho scoperto che mio padre prima ha riciclato degli avanzi di piastrelle originali dei primi del novecento per potenziare la tenuta dei canali di irrigazione del suo orto, quindi sono riuscito a fermarlo in tempo prima che segasse le gambe da una credenza liberty di artigianato locale perché, dovendola spostare in un’altra stanza, non passava sotto lo stipite della porta e non voleva farsi aiutare da nessuno per inclinare il mobile sul fianco.

Potenzialmente ciascuno di noi ha dilapidato un patrimonio solo per aver ceduto alle comodità del riflusso o, peggio, a cose come il low budget dell’Ikea e i compact disc. Ho provato così a intendere in senso lato questo concetto, quello per cui una cosa del passato per la quale non abbiamo avuto l’intuizione che fosse un qualcosa di valore e non ci siamo curati che si guastasse, che andasse in malora, che dovesse essere conservata, oliata, rimessa in sesto ogni tanto, utilizzata per non lasciarla desueta, prima o poi si finisce di rimpiangerla. Ho pensato a un certo modello di democrazia, di partecipazione, di senso dello stato. Provate a immaginare quanto ci potrebbe costare, oggi, comprarci come eravamo prima in un negozio di modernariato come quelli che, nei quartieri trendy, sfoggiano in vetrina i mobili di design scandinavo degli anni sessanta.