al mercatino del modernariato sociale

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Le cose del passato si pagano care e ci si pente di non averle comprate prima quando costavano il giusto, ma prima erano la normalità e uno non ci fa caso agli aspetti del quotidiano che poi finiscono per fare la storia. Pensate a quella grande chiesa che parte dalla radio Brionvega al numero uno di Dylan Dog passando per lo spremiagrumi Atlantic e Unknown Pleasures dei Joy Division. D’altronde ci vuole un bel fiuto per intercettare quello che potrà un giorno, ma chissà quando, diventare oggetto di culto e valere un bel gruzzolo. Ci pensavo oggi scartabellando proprio in uno scatolone di cartone zeppo di trentatré giri in un negozio di vinile usato. Mi sarei comprato un sacco di roba ma, diamine, che prezzi. Soprattutto di certi dischi che quando sono usciti costavano settemila lire – ve lo ricordate? – e oggi almeno nove o dieci volte tanto.

Se fossi un figo li avrei comprati allora, ma se non l’ho fatto è stato perché o non lo ritenevo fondamentale oppure non avevo soldi da parte da buttare via. Un sistema di valutazione, quello di far leva sulla nostalgia altrui, che purtroppo può essere applicato in ogni ambito merceologico. Se girate per le bancarelle dei rigattieri e i mercatini delle pulci vi accorgerete che la lampada che vi sembrava un obbrobrio pacchiano degli anni 70 con quei colori impossibili da abbinare e che i vostri genitori usano nella casa di campagna capovolta come vaso per gli attrezzi da giardino, ora che vorreste averla perché era la vostra alleata per sconfiggere la paura del buio, non ve la molla nessuno per meno di centocinquanta euro. Una volta ho scoperto che mio padre prima ha riciclato degli avanzi di piastrelle originali dei primi del novecento per potenziare la tenuta dei canali di irrigazione del suo orto, quindi sono riuscito a fermarlo in tempo prima che segasse le gambe da una credenza liberty di artigianato locale perché, dovendola spostare in un’altra stanza, non passava sotto lo stipite della porta e non voleva farsi aiutare da nessuno per inclinare il mobile sul fianco.

Potenzialmente ciascuno di noi ha dilapidato un patrimonio solo per aver ceduto alle comodità del riflusso o, peggio, a cose come il low budget dell’Ikea e i compact disc. Ho provato così a intendere in senso lato questo concetto, quello per cui una cosa del passato per la quale non abbiamo avuto l’intuizione che fosse un qualcosa di valore e non ci siamo curati che si guastasse, che andasse in malora, che dovesse essere conservata, oliata, rimessa in sesto ogni tanto, utilizzata per non lasciarla desueta, prima o poi si finisce di rimpiangerla. Ho pensato a un certo modello di democrazia, di partecipazione, di senso dello stato. Provate a immaginare quanto ci potrebbe costare, oggi, comprarci come eravamo prima in un negozio di modernariato come quelli che, nei quartieri trendy, sfoggiano in vetrina i mobili di design scandinavo degli anni sessanta.

io tifo contro

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Comunque sappiate che io tifo contro. Se va bene, proprio me ne disinteresso, ma poi vedo quanto i Mondiali di Calcio vi prendono e allora apposta spero che l’Italia venga eliminata al primo turno. Anzi, perda in finale o umiliata con lezioni di supremazia sportiva dalle squadre tradizionalmente più invise ai nostri tifosi, la Francia in primis ma vanno bene anche Spagna, Inghilterra e Germania. Ma anche una sconfitta severa ma giusta da qualche compagine africana o asiatica nel girone eliminatorio, giusto a rimarcare il fatto che è bene lasciare il successo a chi ne ha bisogno.

Non seguo più il calcio dall’Inter di Bersellini e la nazionale dalle notti magiche inseguendo un gol. Anzi una volta ci sono pure rimasto male perché ero in Corsica in vacanza e non ricordo quale incontro ci fosse tra le due selezioni – Francia e Italia – e per quale trofeo. L’Italia perse proprio mentre seguivo involontariamente la partita in una brasserie e la mia fidanzata di allora ed io fummo dileggiati dal resto degli avventori in quanto avversari battuti, con fischi e classici canti da curva degli ultras. Mi spiace non conoscere il francese, se no avrei spiegato loro il mio disinteresse per gli sport di massa riconducibili ai numerosi status symbol che fanno del nostro paese il posto di tamarri che è, a partire dagli accoppiamenti tra giocatori e nullità televisive fino alla letteratura sportiva che supera qualunque altro tipo di informazione ed entertainment fino alla comicità dedicata ai fenomeni di costume che dilagano tra chi segue il calcio, grazie al culto di certe personalità che, in altri contesti, avrebbero necessità di assistenza o sostegno.

Se fossi stato in grado di esprimermi nella lingua di Platini avrei detto a quel nutrito ed esagitato gruppo di turisti interni (non c’entra ma vi siete mai chiesti perché la Francia è autosufficiente dal punto di vista turistico?) che, pur non avendo seguito la partita perché preso da un piatto di bouillabaisse, potevo unirmi al loro canto di vittoria tanto mi sentivo distaccato da quel campione di italianità fatto di tatuaggi, tagli di capelli discutibili e riti post-rete presi a esempio come standard di esultanza civile. E la cosa era continuata lungo la strada del ritorno dalla brasserie a casa ogni volta qualcuno notava lo stato di appartenenza della targa della mia utilitaria.

E se ogni tanto mi scappa di tentare un riavvicinamento, vengo a scoprire cose come quella che ho saputo poco fa che mi indurrà, anche quest’anno, ad esultare in caso di una nostra sconfitta. Perché comunque se cercavate un’occasione per smetterla di interessarvi al calcio e di seguire la nazionale ai mondiali, la cover di “Un amore così grande” dei Negramaro come inno degli azzurri ve la sta servendo su un piatto d’argento.

tutti i tuoi sforzi saranno ricompensati con il successo

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Sembra una di quelle frasi che si trovano nei biscotti della fortuna che ti danno al ristorante cinese, vero? Proprio così. Mia figlia ha scartato il biscotto della fortuna e poi ci ha letto questo messaggio che, guarda il caso, capita proprio a fagiolo. Mi stavo giusto augurando che in controtendenza con il destino dei suoi predecessori famigliari mia figlia possa vedersi ripagata del suo impegno che mette nelle cose, che a differenza di suo papà è unito a una discreta attitudine, negli studi come nello sport. A scuola è molto brava, almeno lo è stato fino ad ora, e la sua squadra di pallavolo è seconda in classifica e, come potete immaginare, non so come gestire emotivamente questa cosa. Io non ho mai raggiunto risultati di questo tipo per limiti naturali e per scarsa resa. Avere un ossessivo senso del dovere per portare a termine gli impegni ma senza badare alla qualità di ciò che si ottiene non serve a nulla, o meglio serve solo a far stare buona la coscienza rassicurandole che la nostra parte l’abbiamo fatta mentre chi ti sta accanto ti piglia per un maniaco compulsivo, un segnale che man mano che invecchi sarà sempre peggio. A questo si aggiunge l’approccio di stare sempre da parte per non disturbare, sapete come siamo noi timidi, il che è il migliore alibi per i più spregiudicati per farsi scegliere in caso di bisogno e dare prova al mondo di quanto sono bravi. Che poi non è detto eh, cioè magari se mi avessero chiamato a dimostrare quello di cui sono capace avrei fallito miseramente. Ma non importa davvero. Ora è il tempo di mia figlia e della sua generazione, se non fosse che anche lei ha preso un po’ di questa luce nera che è un po’ la nostra maledizione: quando c’è da elogiare qualcuno chi prende le decisioni tende a preferire quelli più estroversi. D’altronde, chi ha voglia di cercare le cose di valore in profondità? Non c’è tempo e il risultato – per loro – è lo stesso. Ecco, bimba mia. Io voglio fare qualsiasi cosa, questa volta, affinché tutti i tuoi sforzi siano ricompensati con il successo, e il successo non è certo soldi e fama, chissenefrega, ma quella sorta di applicazione di una giurisprudenza di fantasia, quella a cui ci rivolgiamo quando ci sentiamo delusi. Che tanto non esiste e, quindi, non ci costa nulla. Al massimo, un piatto d’asporto al ristorante cinese, giusto per avere un biscotto della fortuna in omaggio.

la lettura del corriere, troppo colta per uno come me

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Oggi è sabato e come ogni sabato sono in trepidante attesa della domenica perché la domenica ricevo in omaggio “La Lettura”, l’inserto culturale del Corriere, da mia suocera che è abbonata al quotidiano e che mi reputa erroneamente una persona di certo livello, sopravvalutandomi e tenendomelo da parte ogni settimana. La mia lettura de “La Lettura” infatti finisce presto, qualche minuto dopo il pranzo del dì di festa, perché raramente trovo articoli che mi interessino o che abbia voglia di leggere o che sia in grado di comprendere, e soprattutto autori degli articoli che conosco. Non vi ho mai trovato qualcosa sugli scrittori che mi piacciono, per esempio, a parte una volta una specie di intervista a Franzen, è capitato anche qualche analisi sulla modernità digitale a firma di gente mai sentita, ma per il resto nulla. Insomma, la lettura de “La Lettura” si esaurisce in uno sbrigativo passaggio in rassegna delle illustrazioni, come potrebbe fare un bimbo in età prescolare. Me ne sto con l’inserto in mano con quell’espressione di chi gli dà un’occhiata preliminare a un esame più attento successivo, come a valutare una scala delle priorità di approfondimento, ma la seconda fase non arriva mai. Deluso dall’ennesima prova della mia ignoranza con me stesso, guai a lasciarla trapelare all’esterno, ripiego il giornale e lo ripongo nel contenitore della carta, pronto a essere riciclato per il cambio della sabbia dei gatti, per un indegno passaggio da “La Lettura” a “La Lettiera”.

le dieci cose peggiori che ti possono succedere la mattina appena sveglio

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Si tratta di un tema su cui c’è tutta una letteratura perché ci tocca nel subconscio più profondo. Quel momento composto da quei pochi secondi che servono, appena aperti gli occhi, a caricare tutti i filesystem nella nostra mente e, non appena si compone la memoria come quando compaiono tutte le icone sul desktop, ci si rende conto che c’è qualcosa di strano. Ed è sempre qualcosa di poco piacevole. Ecco perché occorre fare chiarezza e procedere con una cernita delle peggio cose che ci assalgono appena restituiti alla realtà e che, in confronto, mettere giù il piede sinistro è niente.

1. Svegliarsi tardi per un appuntamento. Quando apri gli occhi, guardi la sveglia una, due, tre e quattro volte per sincerarti che no, non è un sogno. No, non è guasta. Sì, sei dichiaratamente fottuto perché non ce la farai nemmeno se esci di casa in mutande. Per prendere un volo, recarti a un colloquio, arrivare in tempo utile prima che si chiudano i cancelli di qualche posto che non ammette eccezioni o, peggio, c’è qualcuno che potrà essere fondamentale per la tua vita futura che ti aspetta. E che ora non è niente, nell’era della telefonia mobile e portatile è un attimo avvisare e farsi perdonare. Ma pensate a quando i cellulari non erano ancora stati inventati e non si poteva avvertire nessuno del ritardo. Essere buttati giù dal letto dall’incessante squillare del telefono fisso con la tachicardia per lo spavento e biascicare qualche parola di giustificazione alla persona all’altro capo della cornetta che inveisce contro di noi. Ci si pente persino di essere stati strappati al sonno e si conviene che, tutto sommato, sarebbe stato meglio non svegliarsi più.

2. Il gatto che vomita. Scusate, se siete deboli di stomaco passate direttamente al punto successivo. L’inconfondibile verso a singulto dei felini che ci comunicano di non aver apprezzato la scatoletta per la quale vi hanno scomodato alle cinque del mattino è quanto di peggio possa capitare, con la variante dell’appartamento buio e il rischio di non vedere il punto random in cui il loro istinto animale si è dovuto arrendere ai segnali dell’organismo. Segue tutta la procedura di pulizia della sostanza che è stata scaricata, i sensi travolti da olezzi terrificanti enfatizzati dalla percezione fresca che si ha al mattino, la materia poco piacevole al tatto, poi qualcosa di forte per lavare e conseguente rischio di svenimento da ammoniaca.

3. Mal di schiena. Amici maschi e non più giovani, questo è uno dei buongiorno che si vede dal mattino più ostici. Nel sonno non ci si controlla e non è raro scoprire al risveglio di aver assunto posizioni proibite per la propria spina dorsale. Il nostro corpo, che dormendo se n’è guardato bene di avvisarci del fatal error in corso d’opera, ci riporta subito alla realtà facendo svanire tutti i nostri progetti per la giornata. La gita fuori porta, la corsetta al parco, la sessione di shopping all’Ikea, la cantina da riordinare. Occorre fare reset e avviare la procedura per un piano B. Seguono tutte le mosse di emergenza per riconquistare la posizione eretta e una buona dose di medicina tradizionale.

4. È finito il latte. Non solo, è finito il latte e il resto della famiglia non ne vuole sapere di colazioni alternative come the, tisane, succhi, frullati, toast e quant’altro. Le mogli sono delle furie da questo punto di vista, la colazione è il pasto più importante e bla bla bla. Così mi tocca uscire in pigiama o quasi, ancora prima di buttarmi sotto la doccia, e vedere il mondo dall’oblò di chi non è ancora pronto per affrontare al meglio la giornata.

5. Auto in divieto di sosta. Con la variante auto in divieto di sosta perché in area mercato. Nel primo caso bisogna essere proprio sfigati che la polizia municipale stia già svolgendo il proprio ruolo nelle primissime ore dell’orario indicato, e comunque è un attimo infilarsi scarpe e giacca e mettersi nell’eterno loop dei parcheggi, questo se abitate in centri urbani e non disponete di box o posti riservati. Nel secondo caso è oltremodo sconfortante perché o le autorità hanno già fatto intervenire il carro attrezzi o vi ritrovate l’auto tra il banco del fiorista e quello del salumiere e poi vi voglio vedere a spostarla da lì con tutte le massaie eccitatissime che fanno affari.

6. Dimenticarsi il computer dell’ufficio a casa quando si è già in treno. Qui c’è ben poco da dire, a me è successo una volta ed ero così amareggiato con me stesso che mi sarei volentieri licenziato da solo. Niente, non c’è scampo. Si scende alla prima fermata, si prende il convoglio per rientrare a casa, si fa il percorso a ritroso e si ricomincia tutto da capo, come se qualcuno ci avesse offerto una seconda occasione.

6bis. Dimenticarsi di lasciare alla propria moglie o marito l’unica chiave della macchina. Questa è una sorta di variante del caso numero 6, quando uno della coppia è già diretto verso l’ufficio e si ritrova nella tasca dei pantaloni indossati la sera precedente la chiave dell’auto che serve all’altra metà della coppia per portare i bambini a scuola e poi recarsi al lavoro. Il procedimento è lo stesso di prima, le conseguenze peggiori: cazziatone delle bidelle, cazziatone a casa, cazziatone sul lavoro, cazziatone sul lavoro per il partner.

7. Figlia malaticcia e conseguente organizzazione alternativa della giornata. “Papà ho mal di pancia” sono parole che nessuno vorrebbe sentirsi dire in concomitanza con una riunione di lavoro o qualsiasi altro impegno inderogabile. Ma i figli hanno priorità uno su tutto, anche se la lucidità per affrontare imprevisti come questo è difficile da trovare dentro di sé, la mattina. Inizia lo scouting tra nonni, parenti di primo grado, parenti di secondo grado, amici del vicinato, vicini di casa, fino all’amara realtà che qualcuno – solitamente chi porta a casa lo stipendio più basso, nel mio caso io – deve soccombere.

8. Litigio con qualcuno avvenuto la sera prima. Una delle sensazioni peggiori, specie con l’aggravante dei postumi da sbronza, solitamente alla base del litigio e direttamente proporzionale alla gravità della discussione avvenuta. Il mio consiglio è di chiamare subito l’interessato/a ed evitare dell’ironia fuori luogo sui social network per tentare di sdrammatizzare con il proprio discutibile senso dell’umorismo. Ogni minuto è prezioso, in questi casi, e se non è sfruttato potrebbe contribuire a far degenerare la situazione, rovinare un’amicizia, condannarvi all’eterna condizione di single di mezza età.

9. Scadenza di qualcosa, nel senso di qualcosa che è scaduto il giorno precedente. È il primo del mese, o il primo della settimana, o è il primo giorno dopo che avresti dovuto fare una cosa inderogabile entro le 24 del giorno prima e te ne sei dimenticato, è finita una promozione, scatta una mora. Insomma non c’è più tempo e il tuo destino è segnato. Magari la cosa non è così grave come uno pensa, ciononostante è una severa quanto giusta metafora della vita. Uno si sveglia e la data è già passata irrimediabilmente. C’è da riflettere.

10. È la mattina di qualsiasi avvenimento importante e che uno preferirebbe evitare. Un esame, una prova, uno sbarco in Normandia, qualunque avvenimento storico per sé o per il mondo intero che interpone tra il risveglio e la sera un divario incolmabile avvolto nelle tenebre più profonde dell’incertezza dell’esito. L’unico suggerimento è di far concludere la giornata, indipendente da come va, con un paio di medie alla spina.

Ecco fatto. Vi lascio con l’undicesimo punto, che è il compimento di ogni decalogo che si rispetti, e che è quando ti svegli la mattina e la rete è giù per chissà quale motivo e così non puoi scrivere un post di getto che avresti dovuto invece scrivere la sera prima ma eri troppo pigro per farlo e in più, magari, te lo sei dimenticato e così ripieghi su una lista di cose come queste, che comunque vanno di brutto.

grafici mentali, persino oltre Excel

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Un po’ ossessionati dalle infografiche e, ancora prima, dai diagrammi a cui i software di calcolo e di office automation ci hanno abituato nel corso degli anni e a causa dei quali ci siamo persuasi che utilizzare rappresentazioni visive a supporto della realtà è un bene, fenomeno la cui deriva è il ricorso a Power Point a momenti anche per le dichiarazioni amorose, l’uso di rappresentazioni visive degli eventi personali attraverso la nostra immaginazione quando siamo soli soletti a tu per tu con le nostre angosce e in nostri pensieri costituisce una pratica ampiamente diffusa, ben oltre le cosiddette seghe mentali. Ed è proprio un peccato che la nostra testa non sia dotata di un’uscita hdmi per un collegamento con un monitor ad alta definizione, perché mostrare al prossimo di cosa siamo capaci di fare grazie al nostro intelletto potrebbe essere davvero la scommessa per il futuro, la prossima sfida su cui la tecnologia dovrebbe investire in termini di ricerca e sviluppo.

L’unico rischio, al limite, sarebbero le interferenze di immagini poco edificanti da condividere che potrebbe avere lo stesso effetto delle sviste come capita in quelle emittenti americane, quando mostrano immagini del web senza averle controllate prima, e tra un cane che sa giocare a baseball o un gattino che crolla dal sonno compare un membro maschile full size in tutti i sensi. Diciamo che però, una volta implementato un sistema di monitoraggio parentale tale per cui un referto positivo di un check volto a individuare un eccesso di superfici ricoperte da pixel color carnazza attiverebbe una censura per una presunta presenza di immagini pornografiche, la componente mostrabile ammessa alla visione potrebbe essere la via per l’entertainment del terzo millennio.

Ma limitandoci all’utilizzo di torte, barre o istogrammi a supporto di ciò a cui ci si sta riferendo, si tratta di un metodo ancora più facilmente praticabile per i ragionamenti tra sé e sé. Io per esempio vedo la mia esistenza come un calendario di quelli che si usano sui siti di viaggi per prenotare i voli. Ci sono i giorni in verde che ricordo come sereni, ci sono giorni rossi in corrispondenza di periodi piuttosto travagliati. Un sistema che mi consente di individuare facilmente i periodi critici, che so benissimo che ci sono stati e magari le caselline su modello “altissima stagione” ora sono finite, ma così è come se avessi un pro-memoria per un futuro in cui la memoria magari verrà a mancare.

Allo stesso modo potrò consultare i grafici di come mi sono sentito in quelle settimane rosso fuoco, gli alti e bassi come le sinusoidi tra ascisse e ordinate su un piano cartesiano, sopra e sotto lo zero. Non so, metti che un giorno occorra sottoporre una relazione a qualcuno, avere delle prove a proprio vantaggio può essere indubbiamente un punto a favore.

i centometristi d’assalto

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Ci sono quei maledetti cento metri a due corsie con un unico senso di marcia prima del semaforo. Sulla sinistra si costeggia una fila di parcheggi di fronte la casa di riposo per svoltare in direzione di Milano e anche della stazione delle Ferrovie Nord del mio paese, facile immaginare che sia la corsia a maggiore densità di transito soprattutto la mattina quando la società si appresta a dare il proprio contributo all’economia globale ma rigorosamente in auto.

Sulla destra c’è, appunto, la corsia di destra, poi un’altra fila di parcheggi davanti alla scuola materna delle suore, e se ti incanali da quella parte ovviamente non puoi più girare più a sinistra ma al semaforo devi tirare dritto anche se la tentazione di posizionarsi comunque sul quel lato è forte. La corsia, al contrario di quella a fianco, nell’ora di punta è deserta perché porta da tutt’altra parte. Uno volendo può dare lo gnorri e poi, in fondo al semaforo, gettarsi sulla sinistra gabbando quelli che a sinistra si fanno regolarmente la fila. A volte succede ma non è questo che mi urta.

Capita che mia moglie mi dia uno strappo in stazione, così percorriamo proprio quei dannati cento metri a due corsie parallele. Lei si mette sulla destra, la corsia libera, perché poi dopo il semaforo tira dritto, ha la fortuna di lavorare fuori dalla metropoli dove si dirigono tutti a produrre, anche se subisce la sfortuna dei pessimi collegamenti pubblici tra i paesi dell’hinterland e così è costretta a usare l’auto. Quindi percorriamo i cento metri sulla corsia di destra, poi al semaforo si ferma, io mi getto giù dal sedile del passeggero e compio l’ultimo breve tratto verso la stazione a piedi.

Il problema di quei maledetti cento metri quindi non è né la casa di riposo sulla sinistra, né la scuola materna delle suore sulla destra, né il traffico dell’ora di punta, almeno tutto ciò non costituisce alcun problema per me. Il problema è che le due corsie parallele non sono proprio due corsie autostradali dal punto di vista della larghezza. Ma il problema è anche che siamo in tanti a pensare che per sopravvivere nella giungla dell’occidente inesplorato come il nostro occorra dotarsi di veicoli enormi in grado di superare tutte le avversità degli ambienti selvaggi e ad alto tasso di rischio causato dall’asperità del terreno, della fauna selvaggia pronta ad assalire il genere umano per istinto di sopravvivenza e dalla flora di tipo amazzonico che soverchia con la sua irregolare prosperità gli spazi che l’uomo faticosamente si ritaglia a forza di villette a schiera e casette abusive per attrezzi per il fai-da-te.

A bordo di queste navi da combattimento, dall’alto delle loro cabine di controllo super-accessoriate, gli esploratori della suburbia padroneggiano il territorio occupando in eccesso molto di più dello spazio che è stato pensato per il loro transito dalla programmazione urbanistica. Così ogni mattina le comuni utilitarie di passaggio sulla corsia di destra sono costrette a subire la colonna di veicoli da assalto – in gergo dispregiativo noti come cassoni – che dalla corsia di sinistra traboccano oltre la linea divisoria, mentre se la gente si comprasse automobili normali, anche moderne ma di dimensioni più accettabili, la corsia di destra consentirebbe una viabilità scorrevole.

Mia moglie ed io, quando succede, li guardiamo dal basso verso l’alto come si fa quando in mare con il pedalò al largo si passa vicino ai ferri da stiro da miliardari con le veline in topless sopra che prendono il sole. Ma dentro a questi carrarmati da strada ci sono facce poco rassicuranti. Mia moglie li manda comunque affanculo, tanto i finestrini sono chiusi e poi se gli specchietti si scontrano superandoli comunque chi se ne frega, il nostro è già tenuto su con il nastro adesivo.

bella ciao, anzi addio

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Una mattina mi son svegliato ed ero single anche se non si diceva proprio così. Molto meglio il termine solo. Già ci abitavo, da solo, ed era come se lavorassi da solo perché mi chiudevo in progetti che seguivo da solo e che da solo dovevo portare a compimento. Così da quel momento ero anche solo nella vita privata e lo ero stato tante altre volte e, giuro, la cosa non mi dispiaceva affatto.

Svegliarsi il giorno dopo un addio è l’esatto opposto dello svegliarsi la mattina dopo che hai iniziato qualcosa per cui l’amore ti occupa tutti i sensi. Chi le chiama bollicine e chi se le figura come farfalle nella pancia. Il contrario di quella sensazione lì però non sono le bolle che ti esplodono dentro, che non è proprio una bella cosa, e nemmeno le farfalle che muoiono soffocate dalla mancanza di prospettive. Che come idea di quello che ti può succedere è ancora peggio. No. Il contrario – intorno ai trent’anni eh – il contrario è che chi se ne importa, guarda tutto questo mondo inesplorato davanti che inizia con la prima doccia della nuova era del sé, la prima colazione in libertà ché magari è un sabato o una domenica, facile che le rotture di storie avvengano nel weekend come strascico di una settimana di stenti professionali. Anzi aspetta che prima di fare colazione metto su un disco di quelli che lei proprio non sopportava.

Giusto no? Iniziano infatti quelle piccole rivincite che le facciamo più per noi anche se non ci vede nessuno ma lo stesso pensiamo che sia rimasto un canale aperto per cui dall’altra parte della città qualcuno si sta svegliando con i Killing Joke a manetta e si chiede chi possa ascoltare Money is not our god a quell’ora e invece siamo noi che pensiamo di fare un dispetto. Perché sono finiti i tempi per i quali l’esser sbattuto fuori da una vita altrui costituiva un presupposto per pensieri suicidi, rappresaglie tra le comuni amicizie, sperimentazioni vudù sulle foto delle vacanze, appostamenti di proto-stalking e il preludio a fasi di dismissione dell’auto-stima, quel fenomeno noto come lasciarsi andare adattato ai propri scopi in modo da far giungere in qualche modo a chi non ne vuole più sapere di noi il senso di colpa dell’abbandono imposto, attraverso qualche tramite che, incontrato per finto caso, non ha potuto non sorprendersi dalla scarsa cura che la vittima riserva a se stesso. Come a dire che nulla ha più valore senza di lei. Niente di tutto questo.

Ma allora che amore è, direte voi, se la fine di un rapporto viene interpretata come una liberazione? Davvero non so spiegarmelo, anzi, lo so ma che ci volete fare. Ci sono persone a cui capita di farsi scegliere e poi a un certo punto se ne rendono conto, così le cose iniziano ad andare male ed è meglio dire basta, o sentirselo dire se si fa finta di non capire che non va. L’ultima mattina in cui mi son svegliato ed ero single così ho pensato che quella però avrebbe dovuto essere davvero l’ultima. Basta cene a base di Abbracci, quelli con la A maiuscola del Mulino Bianco. Basta con le notti troppo calde ad addormentarsi sul balcone alla mercé dei pipistrelli. Basta approvvigionamenti poco oculati di generi costosi e inutilmente appaganti. Ma soprattutto basta mattine in cui bisogna ricominciare da capo, perché il rischio è di decidersi a non cominciare più.

l’autodidattilografo

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Che poi scommetto che nessuno di noi ha mai approcciato l’uso del personal computer, è irrilevante in quale momento storico o fase della sua evoluzione, facendosi dei problemi sul fatto di non essere un valente e preciso dattilografo. Non so so se sia tutt’ora una materia di studio in certe scuole superiori di avviamento alle professioni amministrative o di segretariato, sempre che siano professioni ancora in auge, ma ricordo benissimo ragazzi che mentre noi si collezionava voti prossimi allo zero assoluto in lingue morte e trapassate, loro si esercitavano sulle macchine da scrivere per riportare testi inventati per simulazioni pratiche sui fogli con tanto di carta carbone per le multi-copie. Che cosa tenera. Oggi se esistono ancora le ore di dattilografia ci si cimenterà sulle periferiche di input per digitalizzare numeri e parole, l’anticamera del data entry e di ore interminabili su file Excel.

Io come tutti voi sono invece un autodidatta, anzi, possiamo coniare il neologismo autodidattilografo. Non ho nessuna impostazione e ogni volta che ci rifletto – non è che mi capiti spesso, eh, ho sempre qualcosa di meglio a cui pensare, fortunatamente – ogni volta che ci rifletto mi vengono in mente quei musicisti che imparano da soli con tecniche sommarie e tutte inventate. C’è un celebre aneddoto su The Edge, per esempio, un chitarrista di tutto rispetto che si è fatto da solo a cui è stato poi impedito di andare a lezione di chitarra perché sussisteva il rischio che la tecnica tradizionale cambiasse il suo stile e, quindi, portasse alla rovina il sound degli U2. Il problema è sempre lo stesso e antico quanto la storia dell’uomo. Rientrare in binari già rodati per fare qualcosa ci impedisce di ripercorrere errori già appurati e risolti ma, allo stesso tempo, limita il progresso, la nascita di metodologie nuove. Ci sono le scuole di pensiero, come sapete.

Comunque, prima di diventare l’affermato professionista della cialtronaggine che sono, mestiere per esercitare il quale schiaccio tastini qwerty otto ore al dì, trasmettevo caratteri e simboli ai programmi utilizzati e comandi DOS con una lentezza sorprendente, considerando che ogni volta perdevo tempo a scorrere tutte le file dalla prima all’ultima per trovare i tasti meno battuti. Non solo: al massimo impiegavo uno o due dita, entrambi gli indici per lo più.

Ma nemmeno all’ingresso nel mondo del lavoro come si deve mi è stata richiesta l’abilità di digitare sulla tastiera del PC con determinati parametri di velocità e resa, ai tempi le competenze informatiche erano già inerenti la perizia in questo o quel software e oggi più che mai diamo per scontato che chiunque perda tempo in Internet dal mattino alla sera sia in grado di utilizzare le dita per scrivere nel migliore dei modi.

La mia fortuna è stata che nella precedente esperienza di programmatore dovevo scrivere sempre le stesse lettere, quelle delle istruzioni del codice, tanto che dopo un po’ sono diventato bravo a lavorare guardando solo lo schermo e ora non vi dico come sono migliorato. Sì, qualche refuso scappa sempre. Ma vedete tutte queste belle parole? Le sto scrivendo in questo modo che a pensarci bene mi spaventa, un procedimento automatico per il quale penso una frase o un termine o il suo sinonimo e lo metto nero su bianco simultaneamente e se mi accorgo di aver sbagliato qualcosa vado di tasto per cancellare. E la cosa che più incredibile è che me ne accorgo scrivendo se faccio un errore, perché è come se le dita di muovessero da sole e il riflesso che arriva dal cervello comprendesse una sorta di verifica di rimando in tempo reale se il tasto che ho premuto a conseguenza dell’ordine impartito dalla volontà di scrivere una certa parole corrisponde a quello giusto nella mappatura della tastiera che ormai ho nella memoria e che sicuramente ha preso il posto di alcuni piccoli movimenti che tanto non servono più. Come leccare il dorso di un francobollo, usare le graffette per raccogliere insieme fogli stampati, sottolineare un libro con la riga e la penna, fare quei giochini con i numeri da uno a cento per riempire un quadrato da dieci per dieci quadretti che si facevano alle superiori quando c’era qualcosa di noioso nell’aria, impostare i canali su un televisore.

Anzi riesco a usare sia la destra che la sinistra e le mie dita da pianista dal pollice sulla barra spaziatrice ai mignoli per l’enter, gli alt e i tab, consapevole che alcuni tasti sono di qua e altri sono di là, quindi mentre scrivo sento gli emisferi che lavorano come dei forsennati trasferendo ordini alle mani ed è tutto uno sferragliare di informazioni. Ma invidio tutt’ora quelli che in Parlamento usano quella specie di pianola a un’ottava o poco più per trascrivere in tempo reale tutti i dibattiti, strumento che le persone che hanno trascorsi di sintetizzatorista come il sottoscritto vorrebbero tanto provare, almeno una volta nella vita, per vedere l’effetto che fa suonare le parole altrui, che dev’essere un po’ come ballare di architettura e tutte quelle assurde comparazioni attribuite a Frank Zappa.

la compagnia dell’anello

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Il comandante in capo era uno di quegli energumeni un po’ grossolani che si vantano di non riuscire a indossare monili alle dita né tanto meno al polso o al collo, adducendo come scusa cose come i gonfiori dovuti alla circolazione o leggende metropolitane con protagonisti che erano rimasti vittime di tragedie rare quanto audaci, roba come amputazioni dovute a bracciali o catenine rimaste agganciate a sporgenze che erano state fatali. L’esempio noto a tutti, e riportato fedelmente, la madre di Profondo Rosso strozzata dalla catena al collo impigliata nell’ascensore.

La cosa comica è che lui poi aveva addirittura rischiato di morire decapitato in motorino, non aveva visto un cavo steso sotto un ponteggio vietato ai pedoni proprio perché ad altezza pericolosa, e con l’intento di mettere in mostra le sue doti di slalomista trial tra i tubi innocenti l’aveva preso in pieno all’altezza del pomo d’adamo. Teneva però l’anello della ragazza a cui era legato da anni appeso a una collana che gli batteva sul petto quando ballava e quando si tuffava dagli scogli più alti levando ampi spruzzi, soddisfatto di rientrare nei parametri di un’applicazione letterale del principio di Archimede.

I ranghi femminili del resto della truppa erano composti invece da soldati che, dell’anello, avevano fatto usi differenti. Le più opportuniste avevano venduto quelli realmente preziosi, una volta riconquistata o subita la condizione di singletudine o la versione moderna sintetizzata nella celebre espressione da socialcosi “it’s complicated”, in qualche centro compro oro di cui la periferia era disseminata. Le più scaltre avevano addirittura saltato i passaggi intermedi rivolgendosi direttamente a pusher intraprendenti, ottenendo in cambio cospicui quantitativi di droghe leggere, la maggior parte delle quali andata poi sprecata per una inadeguata conservazione fuori dalla carta stagnola di ordinanza o dalla pellicola trasparente ad alto tasso di sgamo.

C’era poi la squadra delle romantiche che invece, complice il materiale scadente di cui era composto il suggello della promessa d’amore testé andata in fumo, questa volta nel senso proprio e legale del termine, aveva votato per la soluzione finale con l’anello scagliato nella fiumara ad alto tasso di pantegane e zanzare dall’alto del ponticello del parchetto, quello che nel giro di qualche anno si sarebbe riempito di lucchetti di qualità economica, nemmeno il loro quartiere dormitorio fosse Venezia e quello sotto il Canal Grande.

Tutti i soldati semplici maschi al servizio delle adepte della compagnia dell’anello sapevano comunque che si trattava di una spesa inutile per un oggetto dal valore intrinseco ampiamente sovradimensionato, sia che si trattasse di una patacca in argento da bigiotteria, sia che la scelta cadesse obbligatoriamente su modelli in metallo per personalità particolarmente alternative che delle pietre preziose o dei materiali costosi, rientranti nell’ordinarietà dei rapporti sentimentali standard, non sapevano che farsene, e sia che la convenzione imponesse invece acquisti all’altezza della considerazione estetica in cui, la persona destinataria del dono, fosse tenuta dalla moltitudine. Malgrado ciò arrivava il momento in cui a tutti toccava di comprarlo, magari con una certa vergogna per dover mostrare a commesse navigate la propria inesperienza nell’accostamento di oggetti a persone durante la prova della scelta conto terzi. Ma solo immaginarne la conseguente ostentazione con orgoglio leniva ogni ferita da sacrificio preparatorio.

Chiudevano le fila quelli senza speranza, a cui era successo solo sporadicamente di essere in prima linea ma troppo tempo indietro, un’esperienza poco edificante di cui restava solo un marchio beffardo, la striscia bianca dove prima stava l’anello sull’anulare ancora abbronzato dall’estate precedente, per lo più persone che lo avevano sfoggiato a lungo sotto il sole e che, ora, erano sole e basta.