un po’ di cose che non ci sogneremmo mai di criticare

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Mettereste in dubbio la pizza e la birra? Riuscite a immaginare una conclusione più somma di un fine settimana, quando ormai la botola per il passaggio verso gli inferi del lunedì è già spalancata e vi aspetta famelica per l’odiata eterna replica di un copione già trito e consumato ma ineluttabile, e allora perché non giocarsi la carta che spiazza ogni destino segnato, quella di una delizia con salsiccia e cime di rapa in aggiunta a pomodoro e mozzarella, accompagnata da un paio di pinte di chiara doppio malto appena spillate?

Critichereste mai Ok Computer dei Radiohead? Ne parlavo qualche giorno fa in un post proprio dedicato a quello che è uno dei massimi della produzione musicale di tutti i tempi. Cosa si potrebbe dire di male? Non vi piacciono i Radiohead. Ci sta. Ma se mi dite che non trovate nulla di interessante in un disco così non ci credo. Forse il fatto che si tratta di un album talmente ingombrante che se l’avessi pubblicato io mi sarei ritirato il giorno successivo, tanto è perfetto e difficile da seguire con altri dischi. Tanto è vero che gli stessi Radiohead, da allora, si sono ribaltati come un calzino.

E Scarlett Johansson? Avete da dire anche su di lei? Chi è che dice che è di una bellezza banale? Sì, posso concedervi che magari può sembrare a tratti grossolana, anzi, negli standard di serie americani. Non so, io ai tempi impazzivo per Ines Sastre e sono davvero molto attirato dall’originale fascino di Charlotte Gainsbourg. Ma Scarlett, davvero, non c’è proprio nulla che non vada in lei. Né come donna, né come attrice. Oggettivamente incommensurabile.

E poi New York. Il primo che gli sento dire bella ma non ci vivrei gli tiro uno scappellotto. Ragazzi, ho detto New York. Una città inattaccabile, non nel senso terroristico of course. Se non vi piace l’America perché siete ancora fermi all’imperialismo e a Yankee Go Home vi sbagliate di grosso, è molto più europea di tante altre metropoli da questa parte dell’Atlantico. Se mi dite che ci sono gli americani, la CIA e Bush e sono tutti cicciobomba e quelli che fanno la break dance con le casse monumentali vi consiglio di farci un salto e non solo a Manhattan.

Poi ci sono mamma e papà. Certo, esistono i casi limite dei genitori che interrompono la vita ai figli in mille modi, ma se ti va di culo un padre e una madre hanno solo da insegnarti. Voglio dire, posso trovare difetti anche a occhi chiusi nei miei genitori, ma chi mi dice che in realtà non sia una visione distorta causata dai problemi miei nei loro confronti? Una mamma e un papà funzionanti, anche nella versione diciamo entry level, quando sono a regime puoi fare affidamento su di loro, anche a costo di sopportarli a malincuore quando poi sono vecchi e si ammalano.

Nessuno si sognerebbe mai nemmeno di criticare il progresso. Quelli della decrescita felice ve li lascio ai vostri circoli di esagitati pentastellari fruttariani animalisti. Io e milioni di altre persone ci teniamo la modernità, l’inquinamento, l’industria alimentare, gli attacchi di panico, il polpettone, il capitalismo e le reclame di cibo per gatti anche se c’è gente che muore di fame. Se c’è qualcuno ricco restano comunque più possibilità di far qualcosa per il resto del mondo.

Il Giudizio Universale, proprio lui, quelle spennellate nella Cappella Sistina che mettono a dura prova anche i più laici e secolarizzati, che pensano a uno come Michelangelo e poi a una come Paola Taverna e si chiedono che cosa è diventato il genere umano da allora. Un ex collega, forse ve l’ho già raccontato da qualche parte, uscendo da una visita guidata a quel capolavoro mi disse che non gli era piaciuto, troppo pacchiano e sfarzoso. Ecco, sarebbe bello raggiungere un livello di welfare tale per cui quelli che non studiano li tieni legati sui banchi di scuola finché non imparano, anche a costo di lasciarli inchiodati a marcire lì fino a cent’anni. Quanti ceffoni che si meritano. No ma dico: vogliamo parlare del Giudizio Universale?

Poi la Sardegna. Avete qualcosa da ridire in proposito? Costa troppo il traghetto? Ci si ammala nelle zone che ospitavano poligoni di tiro? La gente muore di fame? Siamo d’accordo, ma provate a immaginarla in mano a francesi o a svizzeri o ai tedeschi, poi ne riparliamo. Posso al massimo riformulare il postulato in modo lievemente differente: si tratta di una cosa che in potenza non ci sogneremmo mai di criticare.

Ora tocca a voi. Costruiamo insieme un’arca di Noè piena di giudizi impossibili da confutare. Da dove volete continuare?

è il genere umano, di per sé, a essere sopravvalutato

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Non è una giostra di quelle del Luna Park, con il gestore che incita i ragazzini a infilare il gettone nella macchinetta a forma di lampada di Aladino o del Re Leone per avere diritto al giro successivo. Oddio, in comune con quel tipo di attrazione c’è il fattore itinerante. I baracconi girano di città in città, le automobili come quella da cui proviene tutto questo frastuono incarnano per loro natura il concetto del movimento. Ironia della sorte, il proprietario del veicolo fermo sta seduto dietro al volante con la stessa espressione che avevano i figli degli autoscontri e dei calcinculo che trascorrevano qualche settimana nelle scuole delle città in cui stanziavano temporaneamente. Ogni anno, e ogni volta erano bambini diversi, le maestre li piazzavano nel banco a fianco dei più asini della classe, quelli vicino ai quali non voleva stare nessuno, e trascorrevano lì il loro tempo proprio con quella stessa faccia, come se per imparare qualcosa bastasse respirare le particelle di sapere emesse da cartine geografiche appese, lavagne e gessetti consunti, becher e calchi in gesso di organi vitali e costosa cancelleria profumata lasciata intonsa negli astucci a più scomparti dei primi della classe.

Sicuramente è una magra consolazione, ma l’uomo che ha attirato la mia attenzione su una berlina aziendale scura e tirata a lucido probabilmente ha avuto una scolarizzazione più accurata ma ora non sa che farsene. La variante dell’uomo di affari, una specie di spin off genetico che si sta sviluppando grazie ai prodigi della tecnologia, è quella del commerciale dotato di telefono che si collega in modo miracoloso con l’impianto hi-fi dell’automobile, che è una figata perché puoi chiamare e ricevere telefonate senza nemmeno usare l’auricolare, che già ci fa sembrare abbastanza sciocchi con tutto il nostro parlare da soli a un interlocutore invisibile al prossimo. Li avrete visti pure voi, anzi sentiti. Perché spesso il volume delle conversazioni è sparato a mille con tutti i bassi che sono stati pensati per valorizzare gli armonici gravi dei conduttori degli zoo di centocinque e altre varie subumanità della radio commerciale. E spesso capita che comunque, per sostenere un confronto particolarmente complesso, sia meglio accostare per via di quella cosa che fare più attività simultaneamente è una condizione entropica al quale un maschio di razza caucasica forte di studi tecnico-ingegneristici prestati al settore vendite è tutt’altro che uso.

Il risultato dell’auto ferma con il proprietario che si dilunga a parlare e ascoltare con un sistema creato per le conference call itineranti è così un effetto proprio da attrazione ludica, con l’aggravante che la voce non amplificata si percepisce a malapena, di contro quella diffusa nell’abitacolo diventa di dominio pubblico. Tanto che se ne colgono i particolari, anzi, potrei riportarla qui per filo e per segno se non di trattasse di un cazziatone di dimensioni cosmiche, un possibile preludio a un licenziamento o almeno l’inizio di una profonda crepa professionale.

Non posso non condividere la straordinarietà del momento con le persone che, come me, sono ferme al semaforo e in attesa del verde sono state involontarie testimoni dell’ennesimo dramma professionale inasprito dalla tecnologia, che impietosa espande acriticamente ogni emozione, quelle belle e quelle brutte che invece dovrebbero essere messe a tacere, nascoste dalla vergogna. Prima ci guardiamo come se condividessimo la pena altrui, poi li osservo meglio e ritraggo tutta la mia empatia. Uno sfoggia abiti volutamente finto-trascurati, come se puntasse tutta la sua capacità di rassicurare il prossimo sul celebre logo con le sembianze di coccodrillo del borsello che indossa a tracolla. Troppo poco, penso tra me, per trasmettere opulenza al prossimo. L’impressione dell’insieme arriva già profondamente compromessa all’accessorio e a nulla serve l’ostentazione di una marca che comunemente si associa all’agiatezza economica. Dall’altra parte vedo una splendida ragazza, di quelle così belle che tengono gli occhi bassi per non pesare emotivamente su tutto il mondo che le osserva in parte con l’invidia e in parte con la brama di possesso. Infine quello che sembra più colpito dal fatto che qualcuno debba per forza sostare in un parcheggio per taxi con le quattro frecce a far conoscere i cazzi propri a tutto volume con quel sistema bluetooth. Ha una specie di smanicato a trapunta sopra un completo blu primaverile e, appena viene il verde, si lancia per attraversare la strada sputando a terra.

sei degli anni sessanta se ti lamenti che alle elementari sprecavi il tempo a imparare Bella Ciao

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Sei nato negli anni sessanta se ti lamenti che alle elementari sprecavi il tempo a imparare Bella Ciao e ad ascoltare racconti e agiografie sui partigiani anziché imparare l’informatica o a stare al mondo. Premesso che ho molti amici nati negli anni sessanta, se non altro perché si tratta di una generazione a cui appartengo anche io, non è la prima volta che sento persone lamentarsi su questa lunghezza d’onda come se nel 73 ci fossero già stati i personal computer o se far fronte alle complessità degli anni di piombo fosse di analogo impegno di far fronte agli anni di grillo. Roba che fa rabbrividire anche i più moderati come il sottoscritto.

Ma la sostanza non cambia. C’è chi vorrebbe aver avuto una migliore preparazione sulle lingue straniere, inglese in primis, roba che le maestre di un tempo non si filavano nemmeno di striscio, già era un successo quando non parlavano in dialetto. C’è chi anche avrebbe voluto meno Sumeri e più Educazione Civica, qualche ora in meno di storia antica e un po’ di spiegazioni in più su come ci si comporta con la cosa pubblica, come funziona una democrazia rappresentativa, perché è importante partecipare alla vita politica, un bagaglio nozionistico utile anche a casa per rieducare genitori e nonni che ai tempi del maestro unico erano dei bei zucconi ma mai come adesso. Comunque non siamo in pochi noi che portiamo vivido il ricordo dei canti della Resistenza forse – e giustamente, lasciatemelo dire – più presenti nell’orario dell’insegnamento della religione stessa.

Non so, ma per me è stata una bellissima esperienza che a quarant’anni di distanza rimpiango più di altre. Così, quando sento lamentarsi qualcuno, come mi è successo qualche giorno fa, proprio dell’eccessiva attenzione che ai tempi si dava alla nostra storia recente rimango basito da cotanta trivialità. Che è chiaro che sotto sotto poi sono gli stessi che se gli chiedi spiegazioni attaccano con la solfa del sessantotto, dell’egemonia culturale della sinistra, delle maestre comuniste nella sperimentazione didattica, dei libri di storia e che due coglioni. Primo: se a destra non avete studiato per diventare insegnanti sono fatti vostri. Secondo: cosa avrebbe dovuto fare, la scuola italiana? Insegnare anche i canti fascisti da intonare a testa all’ingiù a Piazzale Loreto? Ma fatemi il piacere.

C’era un altro tizio, infine, un collega di tanti anni or sono che aveva addirittura avuto un rigurgito da troppa ingerenza come accade a quelli che studiano troppo dalle suore. Avete presente, vero? Era uno che era stato talmente indottrinato sui partigiani che alla fine aveva sbroccato, ai tempi non votava nemmeno e chissà, oggi anche lui è un fan dell’antipolitica. So che per voi che siete cresciuti quando Berlusconi era già uno statista è difficile da immaginare, ma quando gli anni della guerra ancora si percepivano sulla pelle della gente era tutto diverso. Non so dire se meglio o peggio, o meglio, so che è meglio ma è meglio che non lo dica.

1994-2014 almeno dieci cose che son successe ma potremmo andare avanti all’infinito

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La notizia della ristampa di “Hai paura del buio” degli Afterhours con tutto quel parterre di ospiti, che tra parentesi “Rapace” cantata da Sangiorgi me la immaginavo proprio così com’è considerando che sembra un pezzo tagliato su misura per i suoi vibrati melodici e popolari, mi ha mandato nel panico perché operazioni di questo genere siamo abituati a vederle fare in occasione del ventennale di qualcosa. Anniversari a cifre tonde, insomma. Mi sono davvero preoccupato perché non mi sembrava così tanto, come invece per l’analoga iniziativa dei 99posse che hanno rifatto “Curre curre quagliò” nuovo di pacca. Ma il primo disco di Zulu e compagni è del 93, mentre quello di Manuel Agnelli e soci è del 97 e quando me ne sono sincerato ho tirato un sospiro di sollievo. Perché questo dannato ventennio che si consuma tra qualche settimana, che è il ventennio della rise and fall of Silvio Berlusconi e the Renzi from Mars è facile metterlo tutto insieme, analizzarlo in modo compatto proprio come fosse un tutt’uno, un’epoca a sé stante che finisce con le slide in PowerPoint del neo-premier a quasi due decenni giusti giusti da quelle elezioni che hanno cambiato – in peggio – il corso del nostro Paese.

Quindi lasciando da parte il doppio CD della band milanese presentato e strombazzato a destra e a manca in questi giorni, e il fatto che abbia conquistato la ribalta quello che si dice una minestra riscaldata la dice lunga sullo stato della musica in Italia, se non li avete vissuti come è accaduto a me perché magari eravate troppo piccoli o già troppo adulti per accorgervene, in questi due decenni a cavallo del nuovo secolo è davvero successo di tutto. Io ho smesso di suonare e mi sono costruito una professionalità a cui mai avrei pensato di giungere, tanto per iniziare. E per continuare il punto di vista personale, sono partito spiantato sentimentalmente fino a farmi una famiglia con persone davvero in gamba. Mi sbellicavo dalle risate sulle vignette di Vauro e leggevo Il Manifesto tutti i santi giorni, mentre oggi non capisco più né l’uno né l’altro. C’è stato Friends che sembrava una nuova età dell’oro per i giovani e la loro scalata all’indipendenza e invece ha portato un po’ sfiga, almeno qui dove le camerette a scrocco da mamma e papà vanno ancora alla grande. C’è stato un apice, quello della politica italiana con Prodi e l’Ulivo e un vero e proprio tracollo con i nazisti del grillinois e i loro capelli naif.

Ma lasciatemi azzardare una riflessione. C’è stato anche il punto di non ritorno della musica di tutti i tempi che ha un nome che è OK Computer, e un analogo fenomeno sull’Internet che è legato a doppio filo proprio con l’album dei record compositivi dei Radiohead. Ricordate la storia, vero? Un utente ha avuto l’intuito di mettere insieme alcune delle decine di migliaia di cover soliste o in gruppo di Paranoid Android, ma a tempo e sulla traccia originale. Il risultato, che è un video che trasuda devozione e amore per il quintetto di Thom Yorke, è stato così tanto commovente che i Radiohead stessi l’hanno condiviso in home page sul loro sito. Si tratta di una vicenda che è successa qualche anno fa ma che mi è tornata in mente in questi giorni di baci rubati al viral marketing. Emozionare con l’Internet si può, ma è importante toccare i tasti giusti.

il danno peggiore che ha causato la tv agli italiani

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Al quarto o quinto tentativo mi rendo conto che i minuti che si dedicano a trovare un punto utile sulla superficie del nastro adesivo da usare come appiglio per srotolarne la porzione necessaria è proprio tempo buttato via. Ma questo è l’inesorabile contrappasso destinato a chi mette via il rotolo stesso senza aver ripiegato con cura un paio di centimetri di nastro su se stesso per facilitarne l’uso alla volta successiva, per poi dimenticarsi pure di riporlo nel posto giusto. Così ogni prossima volta sarà sempre come questa volta: al bisogno di avere a disposizione velocemente un pezzo di scotch intanto non lo si troverà nel posto in cui dovrebbe stare, a ciò seguiranno reiterati tentativi di trovare invano l’inizio del nastro. Senza contare che la vista con l’età peggiora e nemmeno la luce del sole ci è più di aiuto, così ci si fida a tentoni dei polpastrelli improvvisando una sorta di lettura braille dello scotch al fine di percepire una malformazione o asperità sintomo di taglio, che è poi dove si andrà a esercitare con le unghie il tentativo successivo. La linguetta colorata che la fabbrica mette per infondere ottimismo sull’ergonomia del prodotto si perde al primo uso, e mentre rifletto su questa verità mi accorgo che c’è qualcuno che mi osserva mentre compio quell’operazione paradossale. Un po’ per la tenacia con cui non mi dò per vinto, un po’ per il fatto che mi trovo in un luogo ad alta densità di passaggio come Piazza della Scala e sono dietro a una telecamera in compagnia di un collega operatore. Stiamo facendo un’intervista per una specie di servizio tra il giornalismo e il marketing – ora non vi sto a spiegare per filo e per segno – a un manager pubblico e il pezzo di scotch che cercavo faticosamente di guadagnare mi serviva proprio per fissare a lato della telecamera un foglio con un promemoria di tutti i punti che l’intervistato dovrà toccare. Ma quella del nastro adesivo, in questo genere di attività che comprende riprese video in spazi pubblici, non è certo la maggiore difficoltà. Ben più difficile è riuscire a portare a termine il proprio lavoro senza qualcuno che passi davanti alle telecamere, si volti verso l’obiettivo e si senta autorizzato a tentare la strada del successo arrogandosi il ruolo di protagonista. Anni di deficienti che registrano le loro versioni di “Italiaunooooo” o di subnormali del calibro di Paolini o del suo stagista (quel rubicondo demente con i capelli rossi che potete vedere nei pressi dei palazzi del potere romani ogni sera in tutti i tiggì) hanno diffuso la percezione che chi usa la telecamera non sta lavorando e quindi in sua presenza ci si può comportare come cazzo ci pare. Perché nel caso di interviste come la mia, con interlocutori poco avvezzi a parlare in video, il problema è che per un cretino che passa dietro e fa un verso credendosi divertente poi ci tocca rifare tutto da capo, e magari quella che il cretino ha mandato in fumo era la volta buona, così l’interlocutore poco avvezzo perde ancora di più quel po’ di sicurezza che con i miei modi garbati ero riuscito a infondergli, con il rischio che dovendo ripetere da capo non riesca più a dire quel che deve dire senza balbettare, senza guardare in camera, senza fare versi con il naso eccetera eccetera, moltiplicando i tempi di lavorazione. Ora questi megalomani delle telecamere mi chiedo perché non facciano lo stesso interrompendo un carpentiere che sta trapanando l’asfalto con un martello pneumatico, o un lottatore di sumo mentre disputa una finale di campionato, o un pilota di un aereo di linea in quota sopra l’oceano pacifico. La possibilità di apparire da qualche parte, che sia un talk show in prima serata o un pubbliredazionale da una manciata di clic su youtube come il mio è una tentazione troppo forte. Comunque poi tutto questo andirivieni di gente inopportuna alla fine mi innervosisce, il rotolo di scotch di dimostra più coriaceo e così il foglio con il promemoria è meglio che lo tenga in mano.

un paese di santi, poeti, navigatori e allenatori delle squadre in cui militano i nostri figli

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Una interessante dinamica sociale tra persone di estrazione diversa che si trovano per puro caso nello stesso gruppo a condividere un’esperienza comune è quella dei genitori dei giocatori di una squadra sportiva giovanile e dilettante. Si tratta di un insieme particolare perché è privo di quella austerità che di norma contraddistingue altri gruppi più istituzionali come i genitori di una classe scolastica che si riuniscono fin troppo poco con l’obiettivo di dare addosso a insegnanti, alla mancanza di progettualità dell’interclasse, all’assenza di una preside dedicata, al comune che non accende in tempo il riscaldamento o lascia andare l’edificio a pezzi ma tanto ora c’è Renzi che mette tutto a posto.

Intanto per le partite – di qualsiasi sport si tratti – c’è una cadenza maggiore, spesso settimanale. Ci si incontra nei giorni di festa e quindi in abiti e comportamenti meno formali – a parte quelli che vogliono sempre darsi un tono con la camicia per non trasmettere l’impressione che la propria figlia abbia un papà di quelli che mettono la tuta macchiata alla domenica, e potete indovinare di chi sto parlando ehm – e malgrado l’eterogeneità della composizione si consuma e si celebra un rito in cui, almeno in teoria, il conflitto di interesse tra tifare una squadra o solo l’atleta/giocatore di pertinenza viene messo da parte. Se tra i banchi di scuola vige – giustamente, lasciatemelo dire – l’egoismo più sfrenato perché è in gioco il futuro dei nostri figli, sui campi di calcio, basket o volley a meno che non siate di quelli che ritengono lo sport un investimento sul futuro professionale del vostro ragazzo ci è consentito di stare più rilassati.

Siamo tutti lì per divertirci, l’importante è partecipare. Certo virgola certo. Andate a raccontarlo a qualcun altro. O, per usare un francesismo, col cazzo.

Voi non avete idea delle trame, della dietrologia e di ciò che di noi dagli spalti mettiamo in campo a fianco dei nostri piccoli campioni. Prendete me, che da bambino ho militato in una squadra di basket giocando solo una manciata di secondi nel terzo tempo di quattro, e solo quando il margine lo permetteva. Il successo sportivo di mia figlia sarebbe una bella rivalsa, però capite bene che il sonno della ragione che intende la prole solo come porzione complementare della propria realizzazione mancata genera mostri.

Il trucco è quindi lasciare a casa l’orgoglio dell’agonismo e la sua proiezione per portare invece con sé alle partite un pizzico di autocontrollo che sta bene su tutto. Nessuno di quelli che vedete sul campo sarà mai un azzurro di qualcosa, potete starne certi. Ma è altresì fondamentale non dare retta al prossimo nel corso dei tempi regolamentari, perché soventemente nella mamma o nel papà con cui vi troverete a dividere la panchina improvvisata con un materassino da ginnastica, si nascondono spessi i semi della zizzania o gli impulsi secessionisti da sottogruppo nascosti sotto le concilianti sembianze del dialogo sul più e sul meno. Teorie cospiratrici per indurvi a schierarvi con loro tra i tutti contro il gruppo dei più bravi, o tra i tutti contro il gruppo dei cocchi dell’allenatore e il tutto in un arbitrario organigramma stilato a seconda di patologie comportamentali, attitudine al complottismo, vittimismo estremo della stessa matrice di quello grazie al quale, in altre epoche storiche, ci hanno pure giustificato dei genocidi. Il mo consiglio è di darvi un tono, concedere poca confidenza, basare il vostro punto di vista solo e unicamente sul livello di coinvolgimento e il conseguente entusiasmo di chi pratica quello sport, per di più pagato da voi. Il resto lasciatelo a chi sembra non avere proprio un cazzo a cui pensare.

un post nella nicchia, sono il primo a dirlo

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Secondo me se vi annoiate è perché insistete col circondarvi di cose che alla lunga annoiano. Leggere certa roba rompe i maroni, alla lunga, ed è per questo che non vi vedo più leggere nei tempi morti. Stesso discorso per i giochini sugli smartcosi, quando scema la meraviglia per l’animazione e la semplicità dei primi livelli spegnete il dispositivo e tornate a girarvi i pollici. Vogliamo parlare dei programmi televisivi? Magari non vi sembra che il tale format vi abbia rotto, ma anche se continuate a seguirlo ogni volta che vi trovate ad accendere la vostra tv lo fate sempre con un pizzico in più di rassegnazione. La stessa apertura con cui accogliete continue novità discografiche – sempre degli stessi artisti o di loro epigoni – è una prova di ciò. Vi riempite le mini sd del telefono di musica tutta uguale per poi ascoltare sempre quei due o tre pezzi archetipo di tutto il resto per poi mettere via le cuffie, perché la piattezza degli stimoli esterni genera omologazione nel comprendere anche il proprio stato d’animo. Che in parole povere significa che non ve ne rendete conto, ma ve lo posso dire io: state sbagliando approccio.

Si tratta di tutte cose quindi la cui reiterazione sapete già che vi viene alla nausea ed è per questo che poi non fate più quella cosa lì ma aspettate che esca qualcosa di nuovo. Non vorrei spaventarvi ma si tratta di una strategia alle vostre spalle per farvi spendere di più. Sapete vero quella leggenda per cui ciascuno di noi ha una madre o una zia che usa la stessa lavastoviglie Siemens dal 1970 e rotti e non l’ha mai cambiata. Secondo voi la Siemens ci ha guadagnato o ci ha perso, come tutte le industrie del tempo, a produrre cose indistruttibili? Non so, ma ancora oggi io di fronte al brand Siemens (non gasatevi, social media manager Siemens per questo post, Siemens è solo un esempio come un altro di tecnologia di altri tempi) ho una reazione di stima ben diversa rispetto ad altri marchi di cose che mi sono durate una manciata di settimane prima di rompersi.

Con i prodotti per la mente funziona allo stesso modo, e lo so che mettere il becco nelle abitudini più o meno culturali altrui è ancora meno tollerato rispetto alle ingerenze sulle preferenze sessuali o politiche o religiose. Io però, che non ricordo di essermi mai annoiato in vita mia, ed è più facile che sia successo in compagnia di qualcuno che da solo (questa frase l’avrò scritta credo un milione di volte) io che non ricordo si essermi mai annoiato in vita mia (un milione e uno) vorrei sfidarvi a provare un po’ a sperimentare cose diverse. Provate ad allontanarvi da quello che c’è in vetrina, dalle strade maestre degli spazi pubblicitari a pagamento, dai banchi delle novità, dalle fascette esageratamente compiacenti, dalle agende degli eventi di settore che fanno più clamore perché con maggiori investimenti, per non parlare degli ambiti a me più noti dei vari circuiti dei network radiofonici e televisivi commerciali. E non dovete farlo per essere alternativi a tutti costi, né vi posso assicurare trattarsi di un comportamento faticoso, cioè secondo me siete capaci di ben altre imprese.

Perché sembra che dell’Internet sia stato assimilato tutto – condivisioni di minchiate, aforismi, porno, letteratura complottista eccetera – tranne che la possibilità di trovare cose. Cose un po’ diverse ma altrettanto nobili. Si fa presto a dire che tizio se scrivesse come caio che sforna un best seller all’anno sarebbe altrettanto famoso, o che la band tal dei tali avrebbe più fan dei vincitori di Sanremo se facessero canzoni ugualmente belle. No, non è così e lo sapete anche voi. Nicchia o non nicchia, è solo una questione di curiosità. Dovreste provare a curiosare in giro e provare cose nuove, e la scusa che non avete tempo non regge. La curiosità è il più efficace deterrente alla noia. Chiedetelo ai bambini.

chi ha la meglio nei battibecchi

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Come cambiano i tempi. Il primato dell’antipatia una volta spettava agli stronzi della sinistra intellettuale abbiente, quelli che adottavano argomenti di discussione talmente eruditi che la massa esasperata dai continui capovolgimenti sentimentali di Beautiful lasciava senza risposta a prescindere, tanto che poi quella classe e quella generazione ne è uscita sbruciacchiata a furia di corto circuiti fino a estinguersi diluita nell’aristocrazia un po’ cafona e ormai priva di occasioni di riscossa – quella dei film da oscar di Sorrentino, per capire – fino a esserne un tutt’uno. Colpa dell’impoverimento sociale e culturale e, soprattutto, dell’aumento medio della presunzione partecipativa delle gente, sublimata nell’illusione della democrazia diretta diffusa grazie a quella parvenza di potere che ci dà il tenere costosi strumenti in mano connessi alla rete ubiqua. Quel fenotipo oggi è irriconoscibile, impossibile da distinguersi al di là dei cachemire e delle barche a vela.

Di questi tempi invece il primato dell’antipatia spetterebbe alla boria ignorante dei parlamentari dei cinque stelle, persone come me e voi alle quali dietrologia e complottismo hanno dato alla testa e, a suon di lavaggi di capo da chi di capelli trattati male dimostra di intendersene, abbiamo mandato a Roma con l’idea che la gente comune non solo è in grado di cambiare le cose, ma può arrogarsi il diritto di soverchiare con la propria (in)coscienza civica un sistema politico che, pur con i suoi limiti, tutto sommato è democratico e che quindi dovremmo tenercelo stretto. Cambiare sì, ma non dando colpi a cazzo, questo più o meno è il senso.

Se vi capita di seguire i dibattiti e le varie fiducie alla camera come al senato – nelle settimane scorse c’è ne è stata una profusione – difficilmente riuscirete a sopprimere quel senso di frustazione impotente di fronte a questi sfrontati paladini del miliardario genovese e del suo facoltoso ideologo osservando le loro pacchiane prossemiche imparate in tutta fretta per la diretta televisiva e per chi si vuole giocare la carta del dare spettacolo di sé, riflettendo su tutte le iniziative studiate a tavolino per provocare gli avversari, le cariche istituzionali e chi, come il sottoscritto, considera ancora la politica una cosa seria.

Poi però ci è stata data la possibilità di constatare che l’antipatia dei parlamentari a cinque stelle, un’attitudine che ha la medesima matrice di quegli individui che interpongono alle cose che non conoscono uno scudo di supponenza – che se sfruttassero tutta questa energia per studiare saremmo più felici tutti, ma probabilmente otterrebbero molte meno preferenze – questo livello di antipatia non può competere per nulla con l’ultimo baluardo che ci resta, quel tipo di razionale animosità che respinge al mittente ogni sopruso verbale nel corso di quegli eterni procedimenti di dibattito, quell’indisponenza di tutto rispetto seduta su uno dei più altri scranni a tutela delle norme e dell’educazione civica che si chiama Laura Boldrini. Grazie, onorevole Boldrini. Che la sua fermezza ci sia di esempio.

storia d’amore con dedica

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Era il metodo migliore per cacciarsi nei guai, questo lo sapeva bene e ho letto la sua consapevolezza tendente a rassegnazione nella sua espressione, mentre la aspettava all’angolo con la ventiquattrore in una mano e il libro che le aveva acquistato come presentino nell’altra. Prima di incartare quel volume di Baricco, che io non accetterei in dono manco morto ma non ho amici che mi regalano libri, anzi, non ho amici tout court perché poi scrivo cose come che io un libro di Baricco non lo accetterei in dono manco morto e, siccome Baricco piace a tutti, i tutti si offendono e mi levano l’amicizia nel modo più semplice, nella vita c’è un pulsante apposito come su Facebook. Dicevo che prima di incartare con le sue mani quel volume di Baricco le aveva pure scritto una dedica nella seconda di copertina, nemmeno piuttosto esplicita semmai virante alla tenerezza.

Ma se uno che conosci da poco ti scrive una dedica su un libro di Baricco sotto sotto qualcosa c’è. Insomma, da adulti a certe smancerie nessuno abbocca più e forse si farebbe prima a fare una richiesta come quando sei dal panettiere e chiedi questo e quello e il conto. Così vai da una persona e le chiedi una corsa semplice andata e ritorno o addirittura di sola andata, o un abbonamento integrato a qualche mese di viaggi di piacere, oppure tutta una vita di routine con posto riservato dalla stessa partenza allo stesso arrivo, scioperi permettendo. Avete colto la metafora, vero?

Metafora più che azzeccata, perché i due si erano conosciuti così, occupando gli stessi posti ogni giorno sul treno da Varese a Milano quasi come in quel film con Meryl Streep e Robert De Niro. State calmi. Non ho detto che si erano innamorati, almeno questo lei non me lo ha raccontato. Flirtavano, per quanto fosse possibile. Lui aveva già una famiglia numerosa all’attivo: una bambina alle elementari a cui si erano aggiunte due gemelle di quelle che non ti aspetti. Vuoi fare il bis ma poi il bis ti prende in parola e te ne escono davvero due, e da uno a tre c’è una bella differenza in termini di impegno.

Lei invece conduceva con fatica una di quelle relazioni che non sai come ci finisci dentro, con un elettricista peraltro di qualche anno più giovane. Lei tutto sommato molto attraente a differenza di lui che invece boh. Tra l’altro un figlio unico con una scarsa visione progettuale per il futuro prossimo, soprattutto insieme a qualcun altro che non fosse se stesso o, al massimo, i suoi genitori. Uno che si professava di destra e ascoltava De André. Per questo lei teneva sempre una porta accostata sperando che qualcuno si infilasse dentro, e non è un doppio senso ma mi riferivo alla sua vita, un estraneo che perdendo la testa le scrollasse di dosso la responsabilità di aver interrotto un rapporto che si perpetrava come un’espressione matematica infinita. Prima le moltiplicazioni e le divisioni e le parentesi tonde e poi le quadre e le graffe, solo che il risultato non arrivava mai. Senza contare il rischio di sbagliare un calcolo in corso di svolgimento.

Anche lui, il potenziale amante, era belloccio, vestito da avvocato e con un portamento alla Alessandro Gasmann, avete presente. Non sapeva come ci si fosse buttato in mezzo a quel gioco delle parti, insomma tra il lavoro e la casa c’era il rischio che, da un diversivo alimentato a compiacimento dell’ego – a chi non piace piacere a qualcuno -quella si trasformasse in una storia parallela tutta da gestire e con le conseguenze che ti tirano scemo. Quando ci si vede. Dove ci si vede. Che scusa utilizzare. Come distruggere le prove. Valutare il rischio di ritorsioni. Attivare un nuovo contratto telefonico dedicato. Valutare il rischio di delatori. Valutare il rischio di rovinarsi con le proprie mani. Valutare il rischio di finire in disgrazia. Cose così insomma. Da un libro di Baricco con tanto di dedica vorrei-ma-non-posso a trovarsi in un residence per divorziati il passo è breve.

Lei però aveva intravisto una via di fuga per di più con un professionista di una certa eleganza, così lontano dall’operatore dell’Enel con cui condivideva il letto a due piazze. Tutta soddisfatta della lettura e dei contenuti tra le righe che avrebbe trovato nel libro di Baricco, così attinenti a quella storia d’amore clandestina non ancora consumata, un giorno aveva abilmente guidato una conversazione durante un viaggio verso Milano – la mattina si è tutti un po’ più ambiziosi – su una gita al mare che avrebbero potuto fare accompagnandosi a quei pochi altri compagni di pendolarismo. Era primavera inoltrata, la fuga verso la costa è uno degli argomenti più battuti tra chi è costretto alla pianura quotidiana delle periferie dal clima continentale, ed entrambi avrebbero potuto godersi un po’ di compagnia reciproca con l’alibi ufficiale della gita di gruppo.

Poi non so come sia andata a finire, se il piano sia stato messo in pratica e il programma abbia funzionato. Se c’è addirittura stata una defezione di massa in fase organizzativa: probabilmente, a furia di viaggiare con loro, gli altri devono avere pur percepito quello che si stava sviluppando tra i due, defilandosi così con l’obiettivo di lasciarli soli ma non per loro volontà.

Mi sono immaginato però i loro corpi in costume da bagno anche se non fa così caldo, a vedersi così inusualmente senza vestiti per la prima volta su un pezzo di spiaggia deserta in un giorno lavorativo, dopo aver utilizzato una feria. Una brezza leggera quanto il senso di colpa per la perplessità dei rispettivi partner, stupiti più che preoccupati per una cosa così puerile come una gita con persone che si conoscono appena. Me li sono immaginati magari poi presi dalla reciproca attrazione a combinare qualcosa in quello scenario così fuori stagione, un po’ come loro due. Ma sono tutte congetture, le mie.

So però come è finita. Dopo un paio di settimane dall’omaggio letterario con dedica, lei si è scoperta incinta del suo compagno. Ma aveva già ammesso alla sua collega e migliore amica che comunque un po’ quel tipo alla Alessandro Gasmann la ispirava, a forza di trascorrere le pause pranzo insieme la cosa sembrava prendere forma, e che aveva paura di complicare le vite di tutti, che già la sua, di vita, si era manifestata più volte in forma catastrofica. È facile immaginare quali sarebbero state le conseguenze per il finto Alessandro Gasmann, per la sua famiglia numerosa, e per l’operaio dell’Enel, che lei non riusciva a ricordarsi perché fosse comunque ancora nei suoi progetti ma che ora c’era pure la prova che stava crescendo da qualche parte nella sua pancia.

E aspettare un bambino era in fondo quello che ci voleva, anzi posso affermare con certezza che ha cercato fortemente un epilogo così privo di contraddittorio per avere una cosa più grande che scegliesse per lei. Il motivo forse più ineluttabile che le consentisse di liberarsi dalla responsabilità di fare una scelta, qualunque essa fosse stata. Non posso farci niente, mi sembra di sentirle dire al telefono, aspetto un bambino, non è colpa mia.

Non conosco invece che ne è stato del libro di Baricco con la dedica. Lei voleva regalarmelo perché non avrebbe potuto certo tenerselo in casa, con il rischio di destare sospetti nel futuro padre di suo figlio. Mi sono sentito in dovere di rifiutare. Baricco proprio no, davvero, non ce la farei.

prove pratiche di distacco, fase uno eseguita con successo

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Se non fosse un atteggiamento totalmente fuori luogo avrei aspettato una manciata di secondi e poi le avrei seguite, ma a favore dell’età adulta gioca la forza di volontà e l’abilità nello sfoggiare le convenzioni che sono universalmente condivise tra le persone più o meno normali. Quindi non si fa. Non sta bene  e non ci avrei fatto per niente una bella figura. Così ho cercato di darmi un contegno e ho aspettato a casa, con un libro in mano abbastanza coinvolgente, che mia figlia rientrasse. Già. Il primo marzo sarà ricordato per una serie di avvenimenti che vanno dall’ok all’invasione russa in Ucraina alla prima volta un cui mia figlia è uscita da sola. Da sola nel senso senza papà e mamma ma con un’amichetta. Ieri mattina è passata a prenderla la sua compagna di classe che vive a un isolato qui, che ha dieci anni come lei, e insieme sono andate in biblioteca e dopo a comprare il pane. So per certo che entrambe hanno atteso questo battesimo dell’indipendenza con un entusiasmo e un’eccitazione così anomala per un adulto che, davvero, già solo l’attesa e i preparativi per il primo passo verso l’emancipazione (stiamo calmi, però, eh) mi hanno rimesso in pace con il mondo. Che tutto sommato da qualche parte ci dev’essere una meraviglia nelle piccole cose che le fanno sembrare grandi, ma è una specie di bonus che poi si esaurisce come l’elasticità del corpo, l’energia per la quale i ragazzini non stanno mai fermi e quella memoria che ti fa rimanere tutto solidamente appiccicato da lì a tutta la vita dopo. Così sono uscite. E non è stata certo la forte pioggia che c’era qui a dissuaderle dall’obiettivo. Le abbiamo riempito la coscienza di suggerimenti, che chissà se ci ascoltavano o se erano già sulla via della loro avventura con lo zainetto impermeabile sulle spalle, l’ombrello e gli stivali di gomma. E lo so, siete tutti lì con la mano alzata pronti a commentare che voi a sei anni giocavate in strada, a otto facevate la spesa per i nonni, a dieci ve la cavavate da soli in piscina, e che vi devo dire. Io la penso tale e quale a voi, ma poi mi guardo intorno e boh. C’è da stare sereni? Tanto che davvero, sono stato lì lì per gettarmi al loro inseguimento, di nascosto. Ma poi così chi vive più. Ed è in quell’istante che mi sono anche chiesto quando si è manifestata la prima volta nell’evoluzione del genere umano in cui per dei genitori è stato chiaro che i loro figli non sarebbero stati a loro volta dei genitori, ma che sarebbero sempre stati dei figli. Si è inceppato un meccanismo di trasmissione di consegne o sono solo io che mi preoccupo troppo? Comunque, per farla breve, se la sono sbrigata in fretta, le ragazze. Il maltempo non le ha spinte a godersi appieno quella prima libertà. Hanno restituito i libri in biblioteca, ne hanno scelti un paio di nuovi, poi qualche francesina dal panettiere, che se non lo compriamo al sabato il pane fresco finisce che non lo mangiamo mai, e poi a casa. Tre quarti d’ora in tutto ma un’esperienza di tutto rispetto, da raccontare lunedì in classe, da mettere un paio di asterischi sul calendario alla data del primo marzo.