il regalo più prezioso è proprio questo

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Quelli che come me si vantano di essere in grado di considerarli giorni come tutti gli altri mentono sapendo di mentire. E così, come una pietanza particolarmente più gustosa nel normale, ci si ritrova ad osservare il piatto con qualche rimasuglio del condimento con quella nostalgia che ha eguali solo quando una canzone preferita finisce e di improvviso il finto silenzio ci impone di rintracciare le briciole di piacere acustico nelle ultime vibrazioni dei corpi attraversati dalle onde del suono. La metafora del cibo calza a pennello con le sensazioni postume, quel senso anomalo di gonfiore nelle membra e sulle dita compresse – almeno una – dalla fede nuziale, o sotto l’ombelico dove una cintura stringe un po’ di più. La metafora della canzone pure, sono feste piene di ritornelli di gioia che sono quelli che conosciamo di più e che ogni anno canticchiamo come se fosse la prima volta, cercando di non far accorgere nessuno che siamo felici, sempre che lo si possa dire. Fino a quando qualcuno molto più giovane di noi ma molto legato a noi, un figlio o un nipote a seconda di quanti anni abbiamo per esempio, fino a quando qualcuno di una generazione in meno ci pone la domanda che temiamo di più, alla quale non c’è una risposta standard. Che cosa gli possiamo dire? Tutto finisce perché tutto ha un inizio, tutto si consuma perché si esaurisce, non se ne esce e non conosciamo nessuna realtà delle cose diversa da questa.

ricorda di santificare le feste

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Ho passato l’intera vigilia a montare un armadio a tre ante Ikea. Il tempo in eccesso non è certo dovuto alla complessità del lavoro, gli omini delle istruzioni degni della linea di Cavandoli ne sanno una più del diavolo per farti arrivare sano e salvo all’ultima pagina del manuale operatore, e con il nuovo pezzo di arredo pronto all’uso. Ci ho messo tanto perché non me la cavo molto bene, ho attrezzi di qualità scadente, e preferirei fare qualunque altra cosa. Anche santificare una festa, per esempio. Comunque l’armadio a tre ante che ho montato in questa nuova vigilia di Natale si chiama Pax. Un po’ in tema, con le feste, lo è.
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ecco perché i colori è meglio sceglierli alla luce del sole

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Una relazione complicata con il disordine nasce probabilmente da un disordine interiore, e se qualcuno per fare colpo in un senso o in un altro prima o poi vi posta una foto della sua scrivania in ufficio per darvi un’idea di come è messo dentro ditegli che non vale. La prova del nove è la casa messa a soqquadro per cambiamenti inderogabili come la classica rinfrescata alle pareti, operazione che per le temporanee conseguenze che porta dovrebbe essere annoverata tra i crimini contro l’umanità.

Prova ne è che ci si ritrova a scrivere i propri pensieri a riguardo a ore poco abituali per questo genere di attività riflessive, in postazioni di risulta, con gli animali domestici che patiscono a loro modo l’esposizione di mobili ed effetti personali in aree che loro erano abituati a vedere in un certo modo e per ben altri usi. Una volta, quando giravano di più i soldi, c’era questa abitudine di tinteggiare le stanze ogni due o tre anni. C’era anche molta gente in grado di fare da sé. Io vi giuro che ci ho provato un paio di volte, e vuoi la fatica, vuoi i risultati, oggi preferisco fare qualunque cosa di altro piuttosto che mettermi con rulli e pennelli e fissativo e latte che poi non sai mai come smaltire del tutto. Subisco ancora oggi i postumi di un tinteggiatura con rimozione di carta da parati preliminare, un supplizio che non auguro nemmeno al mio peggior nemico.

Ma nei giorni degli imbianchini, o meglio decoratori di interni, è bene quindi sfollare altrove come si faceva in tempo di guerra. Ritirarsi in un rifugio in campagna ospiti di qualche famiglia borghese caritatevole per non subire i bombardamenti di stress da violazione della privacy e da subbuglio incondizionato. Vietato svegliarsi di notte e camminare al buio, poi, ché abituati dopo anni a muoversi alla cieca in ambienti familiari si rischia di mettere i piedi in un catino, di sbattere contro mobili spostati al centro delle stanze, di inciampare sul telo che impedisce al parquet da capitolato base di sporcarsi.

Subentrano sonni agitati, comunque, visioni oniriche rivelatrici di quanto a malapena si sopporta il trambusto nei propri spazi privati. La partenza in perfetto orario della nave per la Sardegna, anziché un comune incubo in cui ci sono millemila ostacoli che te la fanno perdere. O cose come una vecchia fiamma vestita in abiti anni 60 e con un’acconciatura alla Mina (o alla Nina Zilli, a seconda di quali siano i vostri riferimenti culturali) che canta in un gruppetto beat una versione in italiano di un pezzo dei Blonde Redhead invitando il pubblico ad eseguire coralmente i movimenti di un ballo di gruppo da seduti, chinando il busto verso le ginocchia. Ecco, da tutto questo traspare voglia di evasione, o forse sono solo gli effluvi della pittura alle pareti. Gli anziani sostengono infatti che sia meglio tinteggiare in estate, quando si può dormire con le finestre aperte.

la società, che spettacolo

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Nel mio piccolo, qualche contributo al situazionismo nella mia vita fin qui l’ho dato, e su questo credo di avere la coscienza a posto. Anche se in realtà il non riconoscere l’esistenza del situazionismo è stato un mero vezzo semantico dei situazionisti, quindi a qualcuno di questi so-tutto-io che vanno per il sottile potrebbe venire in mente di togliermi ogni merito. Se parliamo di creare situazioni va meglio? Allora posso dire di averci provato, anche se ho cominciato quando ormai non c’era più nessuno in grado di esercitare un giudizio in merito e  l’identificazione anche solo della componente psico-geografica risultava un processo ampiamente aleatorio.

Le tracce stesse della filosofia, tutto sommato, sono invisibili ancora ai nostri tempi. Quante volte vi è capitato di fermarvi a riflettere durante una conversazione tra nonne in stretto dialetto siciliano e chiedervi il perché, in quel borgo dell’entroterra del ragusano, l’urbanismo unitario – per fare un esempio – non abbia lasciato traccia. Domande analoghe che implicano la stessa risposta possono sorgere in noi fermi al semaforo concentrati sui denti placcati in oro della lavavetri nomade che non si è accontentata del nostro rifiuto a sottoporci a una seduta di pulizia del parabrezza, se dovessimo analizzare il luogo e il territorio attraverso le sue derive, e in quel tentativo di diminuzione di momenti nulli c’è l’imbarazzo della scelta.

Quanto c’è di Debord in una passerella pedonale che collega un Ritmo Shoes con un Leroy Merlin utilizzata solo dalle fasce più povere della società alle quali è negato il diritto di fare la spesa natalizia in automobile? Un inizio di rissa per una Punto vecchio modello che sfoggia un tagliando portatore di handicap attribuito abbastanza arbitrariamente da qualche autorità di manica larga, lasciata con finestrini, porte chiuse e marcia ingranata in seconda fila davanti all’ufficio postale a bloccare una signora in pelliccia che non smette di suonare il clacson e una famiglia in tuta da ginnastica di sottomarca che si appresta a vivere comodamente il sabato mattina di offerte da volantino, possono essere considerati momenti concreti di vita deliberatamente costruiti mediante l’organizzazione collettiva di un ambiente unitario e di un gioco di eventi?

E se tutti insieme stabilissimo che un Grancasa qualunque a fianco di un Carrefour Planet, entrambi sullo stesso lato di uno svincolo autostradale a tre corsie, possono risultare davvero l’ambiente spaziale fatto di allestimenti di interni in impiallacciato laccato, in linea con la nostra condotta morale come teatro per il corso di attività dove l’arte integrale ed una nuova architettura possano finalmente realizzarsi? La presenza di megastore risponderebbe alla necessità di inventare rappresentazioni di una nuova essenza, ampliando la parte non-mediocre della vita, diminuendone, per quanto possibile, i momenti nulli grazie anche alla presenza di Paolino, il Mago dello Spiedo, a riempire l’esperienza sotto il profilo olfattivo. Ma ridurre tutto questo a semplice espressione artistica sarebbe una semplificazione per eccesso. Guardatevi intorno, c’è poco da re-inventarsi: il potere rivoluzionario è dentro ciascuno di noi, basta non lasciarsi confondere dal suo tasso variabile.

no pentole, no party

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Ci sarebbe questa bellissima foto da fare con il pezzo finale di Corso Garibaldi – siamo a Milano, nota del blogger – con tutte le sue illuminazioni natalizie a forma di arco, a partire dal sagrato della chiesa di Santa Maria Incoronata. I caratteristici lampioni, l’ottocentesca Porta omonima e, dietro, i nuovi grattacieli di César Pelli e la guglia, uno scorcio tutto acceso all’imbrunire. Ecco che cosa mi aspetto dai Google Glass o da qualche altra diavoleria simile da indossare. Vedi una cosa che ti piace o che ti ispira, strizzi l’occhio – attenzione a non far equivocare le tue intenzioni a qualche avvenente passante – e la foto si salva in una micro-memoria flash che porti con te senza accorgertene. Non vedo perché non impiantata direttamente in un organo senza rischio di rigetto.

Vedo però qualcuno di quelli che sono con me utilizzare persino cellulari di vecchia generazione per fermare quel momento. In effetti non sono il solo a cogliere l’attimo, vista la profusione di intenzioni rivolte proprio da quella parte. Mentre sono persino sorpreso di riconoscere l’essenza familiare di un tabacco da pipa, mi chiedo con il naso all’insù chi siano i fortunati ad abitare gli appartamenti di queste zone un tempo operaie, ora tutt’altro. Che è un po’ lo stesso destino dei pescatori proprietari delle case in riva al mare di Camogli, per intenderci, la cui rivalutazione possiamo considerare un segno del cambiamento di fortuna a premio della tenacia di sopportazione del quartiere popolare nel primo caso, l’accanimento del tempo e la salsedine nel secondo. Se quelli che ci abitavano sessant’anni fa sono ancora vivi, sanno di cosa sto parlando.

Quanto a me, ho appena cambiato il canale di ricezione di uno di quegli apparecchietti che servono ai gruppi in visita turistica per seguire le spiegazioni della guida. Mi sembrava difettosa ma poi non era settata sulla frequenza giusta, comunque la spiegazione deve ancora incominciare e non mi sono perso nulla. La visita a questo suggestivo contrasto tra la vecchia e la nuova Milano, che non è ancora ultimata ma sembra che, a parte il parco che sorgerà, ci siamo quasi, non è ancora iniziata.

Fa freddo ma ci sono lo stesso ragazze in tuta da running che passano di corsa e si gettano dentro alla chiesa per un’Ave Maria ristoratrice. Il quadro è completato dai soliti venditori abusivi di tutto resi più agguerriti dall’atmosfera natalizia e dalla prossimità con la carità cristiana. Una donna del mio stesso gruppo acquista un fiore, mentre con me il ragazzo africano e i suoi libri non hanno nessuna possibilità.

La signora è la stessa che più tardi sarà l’unica a uscire con una busta di carta dal punto vendita Feltrinelli, aperto proprio nella nuovissima piazza Gae Aulenti, segno che ha interpretato perfettamente il senso dell’iniziativa. La gita, anche se gita non è perché viviamo tutti a una manciata di chilometri da qui, si deve concludere con un ricordo o più di uno. Gli altri, come me, si guardano reciprocamente a sincerarsi che il momento storico con crisi annessa e rivoluzione di contorno non ammette spese superflue, che già la visita guidata con tanto di pullman ha avuto il suo costo.

Ma non è questo il punto. Lungo la breve strada del ritorno, proprio mentre passiamo attraverso i nuovi snodi costruiti nell’area che davvero fa sembrare Milano una città europea – per qualche istante ho avuto l’impressione di trovarmi al Sony Center di Berlino – e la nostra guida preparatissima conclude il percorso con tutti i dettagli sul progetto dal punto di vista urbanistico, dal mio posto in fondo al pullman vedo le doppie file di teste canute che si sono iscritte, insieme a me, all’iniziativa. Era naturale, l’associazione che ha organizzato la proposta si rivolge a quel target di pensionati o giù di lì. Non è un problema, probabilmente la coppia di trentenni dietro di me sta pensando la stessa cosa ma, nell’insieme di capelli bianchi, ci ha messo anche i miei.

E non è nemmeno la prima volta in cui mi trovo ad abbassare l’età media di un gruppo. È la formula in sé che, riflettendoci, ha una serie di caratteristiche che, prima o poi, dovrò sempre meno considerare aliene. In quell’istante però provo il caratteristico sollievo alle membra, il contrasto tra il calduccio del riscaldamento contro l’intirizzimento e la spossatezza dopo appena tre ore di camminata, una cosa che sicuramente mi accomuna al resto delle persone che iniziano a sentire, come me, i morsi della fame. Finalmente siamo sulla via di casa.

trema destra

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Ma probabilmente gli storici scriveranno che negli anni dieci del ventunesimo secolo guerre e rivoluzioni erano così. In qualche punto della città c’era qualcuno che combatteva contro qualcun altro e la media di sirene dei mezzi soccorso che passavano al giorno nelle strade era solo un po’ più elevata rispetto alla normalità. Gli uffici erano al completo con gli impiegati seduti ai computer a usare i programmi della suite di Office come gli era stato insegnato ai corsi di specializzazione. Un occhio sempre pronto a sbirciare sui siti di informazione lo stato delle cose, i tweet in tempo reale per avere in anteprima, rispetto alla stampa, qualche aggiornamento fondamentale. Un sistema che era già stato sperimentato ai tempi del bombardamento di Belgrado, quando grazie a ICQ i ragazzi in pace inviavano solidarietà ai loro coetanei in pericolo di vita o sotto il tiro delle missioni umanitarie. Una cosa simile era accaduta anche durante i fatti di Genova, quando la popolazione che protestava era stata brutalmente contrastata dalle forze dell’ordine a dimostrazione che cortei espressamente di sinistra erano soggetti a trattamenti ben diversi, da polizia e carabinieri, rispetto ai movimenti di ben altra matrice, come quelli del dicembre 2013. Non c’erano contatti tra la gente comune e i rivoltosi, non si assisteva a isterie di piazza come quelle esplose nei paesi arabi qualche mese prima, ognuno portava avanti la sua vita senza nessun ostacolo particolare. C’erano stati lo stipendio e la tredicesima, le partite di coppa si svolgevano regolarmente e se venivano interrotte accadeva per motivi ordinari come un’abbondante nevicata. Le famiglie di immigrati, anche di culture e religioni così distanti dalla nostra, continuavano ostinatamente nel tentativo di integrarsi trascorrendo pomeriggi in posti come l’Ikea per salutare una maggiore stabilità economica, ottenuta grazie a qualche datore di lavoro ben disposto e straniero come loro, attraverso uno sforzo di adattamento alle linee e a un’estetica così ancora lontana dai colori e dai tagli dei loro abiti tradizionali. La sera alla tv era tutto un gridare di anchor man d’assalto, corrispondenti da presidi e blocchi ai caselli autostradali, punti ristoro con salsicce alto-atesine e vin brulè, su riprese con smartphone delle poche vittime sacrificali a giustificazione che dall’una e dall’altra parte tutto quel rumore non era affatto per nulla. I disoccupati aggiornavano i loro profili Facebook con le foto dei loro cartelli sgrammaticati e gli adolescenti più temerari applicavano strategie apprese su videogame sparatutto in soggettiva. C’era stato qualcuno, pochi giorni prima, che avrebbe voluto dare un nuovo nome al futuro ma nessuno si ricordava più, alla fine, come si era deciso di chiamarlo.

gli italiani in piazza per una nuova moneda al posto dell’euro

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Mio suocero che è del ventotto una volta mi ha raccontato di quando, nella Milano del 44, quella di “Senza Tregua” per capirci, passava davanti alla sede della decima mas. Anzi non passava proprio davanti, ma come tutti cercava di stare alla larga dalle pattuglie di guardia, ragazzini con mitra e pistole con cui era facile mettersi nei guai. Il regime di Salò raschiava il barile del consenso tra volontari e non che, a quindici o sedici anni, potevano avere pasti caldi e libertà di fare fuoco arbitrariamente in cambio di una divisa. Sono racconti che mi tolgono il sonno nel vero senso della parola. Stanotte ho dormito poco e male. Ero tormentato da scenari apocalittici da golpe cileno in cui la gente rivoltosa unita a forconisti post-grilleschi con il patrocinio di qualche scheggia impazzita delle forze dell’ordine, camionisti, pentastellari, evasori fiscali in cerca di una scusa per giustificare le loro manchevolezze, movimenti di estrema destra, black blocks, un velo di criminalità organizzata di stampo mafioso, studenti che non vedono l’ora di saltare scuola e lanciare qualche sanpietrino, oltre agli immancabili apparati deviati dello stato, insomma tutti insieme appassionatamente all’attacco della democrazia. Uno esce dall’ufficio in questa temperatura polare e sulla strada di casa passa per caso in mezzo a questi legionari del duemila alimentati a gadget tecnologici da centinaia di euro e con in mano qualche pistola. Ma non è un videogame, nemmeno un gioco di ruolo. Quello che transita di lì fa una domanda per capire che succede, quell’altro gli spara. Poi è suonata la sveglia e, per fortuna, di tutto quello c’era solo – almeno apparentemente – la temperatura polare.

#1

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L’unica volta in cui ho vinto non c’era un premio vero e proprio e non era nemmeno una gara sportiva o un concorso, quindi so che è difficile far rientrare questo successo in una sorta di palmares ma credetemi, è vero. E non voglio fare la lagna implorandovi di lasciarmi almeno la soddisfazione di questa vittoria visto che non vi costa nulla e non c’è qualcuno che è arrivato secondo o terzo e si meritava più di me la vetta della classifica. Non ve lo direi perché giuro che con i miei terzi, quarti e spesso ultimi e penultimi posti tutto sommato non mi posso lamentare.

E anzi, quando mi trovo a contatto con uno di quei fenomeni che sono arrivati davvero primi nelle competizioni che contano, mi viene voglia di andargli vicino e assicurarmi che non sia una macchina progettata per non sbagliare, voglio stringergli la mano, vedere se respira o se c’è dentro un congegno telecomandato a distanza che lo tiene su o con un sistema che da remoto gli suggerisce le risposte giuste da dare o i movimenti per battere gli avversari, nel caso di match sportivo. Non intendo quindi togliere niente a nessuno, scudetti o stelle sulla maglietta ché ve li meritate tutti. E vi consiglio di non barare, ché una volta l’ho fatto e sono arrivato quasi in cima in una graduatoria togliendo quindi il posto a uno che se lo meritava più di me e infatti poi sono stato surclassato con il tempo, ne porto le frustranti conseguenza tuttora.

Era solo per dire che l’unica volta in cui ho vinto non so esattamente che premio ci fosse in palio, ma ho capito di averla spuntata su un nutrito gruppo di gente che aveva probabilmente le stesse mie possibilità meno una, quella determinante, che mi ha permesso di staccare tutti. Sono arrivato primo e se non ricordo male, perché è successo un po’ di tempo fa, sono andato appena ho potuto a raccontarlo a un amico ma non per vantarmi, lui era uno di quelli molto più in gamba di me con la casa piena di trofei e medaglie e attestati di riconoscimento. Spero cogliate il senso metaforico delle mie affermazioni. Sono andato a raccontarglielo perché non ci credevo nemmeno io, era mattina e non ero riuscito a chiudere occhio dalle bollicine che si agitavano in tutto il corpo, così all’alba mi sono alzato e sapevo che dovevo raccontarlo a qualcuno. Avevo vinto, ero  stato scelto, me l’ero guadagnata. L’amico mi ha confermato che si trattava proprio di me, aveva assistito anche lui, mi ha rassicurato e poi mi ha pregato però di lasciarlo dormire ancora un po’ perché era un giorno di festa, un sabato o una domenica.

Ricordo però un vento forte perché poco dopo mi sono fermato ad ascoltarlo con la faccia, sapete quando ci si mette contro l’aria che spinge forte e il fatto di avere una forza invisibile e tutto sommato facile da resistere contro ci fa sentire doppiamente eroi, se abbiamo già una cosa di cui essere fieri. Sono rimasto lì a lavarmi con l’aria che mi sferzava contro e ho pensato che anche se non ci sarebbe stata più nessun’altra occasione per superare tutti e tutto come quella, un giorno, magari turbato da un’appagante metà classifica, avrei potuto scrivere ciò che stavo provando in modo che rileggendomi almeno per un minuto o due ci sarebbe stato un richiamo a quel momento di gloria, da respirare ancora a pieni polmoni.

alzati che sta passando la musica della pasta Barilla

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C’è stato un momento storico in cui tutta l’Italia si è stretta intorno alla musica della pubblicità della pasta Barilla. Erano gli anni 80 e rotti ed era un tempo perfetto per le composizioni di Vangelis come quella scelta per lo spot in questione, che come sapete si intitola “Hymne”. Venivamo da esperienze come Blade Runner e Momenti di gloria, immagini che oggi non riusciamo più a scindere dalla colonna sonora, e la scelta di abbinare melodie così ingombranti a scene struggenti di vita famigliare – padri in trasferta di lavoro che si ritrovano fusilli in tasca messi dai loro figli, giusto per fare un esempio – dimostrò che in Italia sarebbe stato sempre più facile scardinare le emozioni del pubblico a scopo di lucro.

Ognuno di noi da allora si è dimenticato di Vangelis e la musica della pasta Barilla è diventata appunto famosa come la musica della pasta Barilla. I bambini alle prime armi degli studi pianistici imparavano una riduzione facilitata della musica della pasta Barilla a due mani per eseguirla al cospetto di genitori e parenti la mattina di Natale. Nelle scuole elementari intere classi di flautisti in erba si esercitavano all’unisono alla preparazione dell’aria con cui introdurre il saggio di fine anno. Teneri pupazzi di peluche di nuova generazione rilasciavano una versione incerta e a pochi bit della musica della pasta Barilla alla pressione del ventre (il loro), questo molto prima che il commercio di giocattoli scadenti diventasse monopolio di venditori ambulanti su showroom pubbliche e abusive. Gadget frutto del progresso tecnologico venivano nativamente dotati di carillon proto-digitali attivabili a seguito dell’interazione principale per la quale erano stati pensati, l’apertura di uno sportellino come la rotazione di una componente, in una sorta di augurio che prima di guastarsi definitivamente il loro ciclo di vita regalasse almeno una manciata di momenti di stupore ai destinatari dell’omaggio. Tutto questo molto prima della recente caduta di stile sul target eterosessuale degli spot.

E ancora oggi, mentre intere generazioni ed eserciti di maître à penser indipendenti o prezzolati guardano agli anni di cui io, a mio modesto parere,  mi vergogno come un ladro e di cui salverei ben poco soprattutto dall’84 in avanti, come al punto di massima evoluzione socio-culturale, cosa che può anche avere un senso ma allora, mi chiedo, perché si è fatto di tutto, tra un disimpegno e una puntata di Drive In, per dismetterli in fretta e in furia, tra l’altro non si è trattato nemmeno di una svendita considerando quanto hanno reso al loro principale stakeholder che ancora oggi guida l’agenda politica del nostro paese. Dicevo, ancora oggi alcuni degli ex ragazzini di allora, cresciuti con la musica della pasta Barilla come inno nazionale dello sfruttamento emotivo, ora più o meno adulti almeno anagraficamente accarezzano la fronte dei loro figli prima di addormentarsi con la musica della pasta Barilla dentro di sé. Altri invece ripescano la musica della pasta Barilla in una giornata come questa, magari come inno ufficioso ma specifico per suggellare un momento di grande impatto storico come la croce su una casella con su scritto Renzi in una scheda elettorale, a una votazione per il segretario di un partito che proprio a partire dalla musica della pasta Barilla ha iniziato il suo declino o la sua metamorfosi, dipende dai punti di vista. E marcando per sempre la loro identità con quel nome per un istante avvertono un’interferenza, una voce metallica che gli dice “alzati che si sta alzando la canzone popolare” ed è lì che loro danno retta a quell’interferenza perché davvero, la musica della pasta Barilla è quanto di più popolare ci possa essere sulla faccia della terra.

se siamo scialpi e infelici svegliamo questa città da una notte tragica

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Cattura

No perché l’abbiamo visto tutti, vero, ieri sera durante il programma di Crozza, il mega-refuso nell’articolo del Corriere di cui nemmeno lo show man si è accorto? O è stata solo un’illusione ottica dettata da sete di scoop, la stessa che ti fa vedere notizie dove non ce sono e ti fa inanellare figure di merda? Non è un problema, anche se ci sono grammar-nazi che fanno passare quello degli svarioni come una catastrofe biblica, cosa che farei anch’io se non fossi il primo a non accorgermi dei miei. Sapete la storia della pagliuzza e della trave. C’è la corrente di chi vorrebbe che tutto venisse straricontrollato e quella che non ci sono più gli accademici della crusca di una volta. Il titolista del Corriere, o l’addetto a Photoshop de La7 è così reo di un involontario calembour tra sciapo e scialbo. Ma non è quello il punto. Siamo davvero così apatici e malinconici, l’immagine che il Censis dà di noi è quello di un popolo alla Cigarettes and coffee e niente più. Siamo isole nell’oceano della solitudine, e arcipelaghi le città dove l’amore naufraga? Ci accarezza solo la musica?

Del resto solo noi italiani potremmo essere poeti e navigatori e allo stesso tempo gente senza fermento in una società in cui circola “troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa”. D’altronde, sempre come diceva proprio lui che è uno dei massimi esponenti della nostra cultura, non essendo né a est e né a ovest siamo i migliori e ciascuno di noi ha un posto al mondo. Questa è la nostra terra. Abbiamo perso un’occasione, perché quella canzone si che poteva diventare un inno generazionale, altro che “Penso positivo” di quel renziano di un Jovanotti. Così, in questo decorso verso l’abbassamento generalizzato dei ceti sociali, abbiamo comunque avuto la fortuna di trovare una nostra identità. Non più Ricchi o Poveri, non più Albano e Romina, ma finalmente un popolo di Scialpi, che anzi da un po’ ha cambiato nome e si fa chiamare Shalpy, lo dice persino la sua pagina su Wikipedia. E allora? E allora rocking e rolling, per resistere. Ci potete contare.