un aforisma ci seppellirà

Standard

Quando la comunicazione interpersonale si basava unicamente sulle forze individuali, un tempo che ha coinciso perfettamente con l’epoca dell’analogico inteso come la totale assenza di piattaforme di condivisione orizzontale delle informazioni che non fossero associazioni culturali, circoli politici, dopolavoro e altre forme ora rintracciabili alla voce archeologia sociale, il citazionismo da frasi celebri come sintesi di un sapere pratico o una valutazione etica, in una parola aforisma, costituiva un metodo di rilancio dialettico volto al sensazionalismo nozionistico basato sullo sfoggio di un armamentario di frasi fatte, attribuite con più o meno veridicità ai massimi maître à penser in auge.

Nell’epoca della conoscenza condivisa, invece, laddove il numero di tacche su un dispositivo indicante la potenza di connessione alla rete, a supporto di un sistema di reperimento informazioni in tempo reale, vale di più di un background generalizzato delle principali materie utili alla vita quotidiana – leggere, scrivere, fare di conto – la disponibilità di massime e facezie pronte all’uso ha generato l’ennesimo effetto implosivo della sovraesposizione a virgolettati, a partire dalla semplice frase celebre in calce alla firma della posta elettronica, inclusa come una pillola di sé da allegare al messaggio indistintamente ad ogni destinatario, che rende edotti amici, colleghi, semplici conoscenti, emeriti sconosciuti circa la propria ermeneutica.

Ora, e lo sapete meglio di me, ci sono invece armi di distruzione di massa nascoste persino nei gruppi dei nostri socialini preferiti che bombardano a pioggia l’uditorio di saggezza quotidianamente, per la coltivazione di una sensibilità condivisa e una standardizzazione emotiva. Inutile sottolineare che nell’era dell’immagine, quale miglior modo per incrementare la potenza del messaggio se non accompagnando il motto del giorno con una foto il più didascalico possibile, per un effetto di inutile ridondanza? Repetita iuvant, si dice, anche se non so chi l’ha detto per primo.

Sono  sicuro che non moriremo di aforismi, come ho scritto nel titolo. Almeno non noi. Di certo il partito che fino ad oggi ho votato continua ad annaspare in queste sabbie mobili della comunicazione a botte di smancerie letterarie. Già uno dei più importanti killer del centrosinistra italiano di tutti i tempi, Walter Veltroni, ci aveva dato dentro con la faciloneria da astrazione micro-letteraria. Ma ieri, alla Leopolda, il candidato che sarò costretto a votare alle prossime elezioni politiche ha battuto ogni record.

194710296-4c8bdc50-990d-424d-9eab-49e5d232817f

194710288-9eb82c23-2910-4a79-b9ca-5a86c97cd5f1

194710303-d9479295-821e-4f7a-9cce-d58211a075a2

194710303-a8aa27ae-7946-4b68-8b25-aacface69b56

quando il nonno va in tilt è meglio una terapia d’urto

Standard

Uno dei tanti motivi per cui questo 2057 che volge al termine passerà alla storia è il curioso caso del novantenne in avanzato stato di demenza senile, divenuto fenomeno virale per i suoi sproloqui e atteggiamenti più che originali.

Il veterano del post-punk, così lo chiamano i frequentatori del Circolo “G. Casaleggio” di Milano, uno dei luoghi storici della cultura del partito di regime radicato sul territorio che, in orari diurni, accoglie molti anziani del quartiere alla ricerca di un centro di aggregazione dove trascorrere il tempo, scambiare quattro chiacchiere e giocare ai videogiochi dei loro tempi. Ma il signor R. B., novantun anni il prossimo maggio, è ormai una vera e propria attrazione locale, suo malgrado.

Si presenta conciato alla moda del secolo scorso, quando il signor R. doveva essere proprio una testa calda, oltreché un musicista dilettante ma attento alle tendenze. Recita a memoria scioglilingua che, a detta degli storici della musica antica, sono riconducibili al precursore di quella che è oggi la principale forma di espressione artistica. Il suo cavallo di battaglia è il rap di “Fight da faida” di un autore della fine del xx secolo, tal Frankie Hi-Nrg Mc, uno dei tanti dissidenti nostalgici della repubblica spazzati via dalla rivoluzione del quarto Vaffa-day. Il signor R. si diletta anche nelle riproduzioni di ritmi obsoleti con la bocca, durante le quali i suoi conoscenti sconsigliano la sosta nelle sue vicinanze, facile immaginare il perché. Cita di continuo artisti e gruppi musicali ormai cancellati dalla memoria comune popolare e digitale.

Secondo il geriatra che lo ha in cura, si tratta di una forma di demenza, in cui tutta una serie di condotte volutamente dementi, esercitate durante la sua vita, hanno preso il sopravvento sul comportamento. Se avesse trascorso la vita raccontando barzellette, abitudine comune tra gli anziani prima della rivoluzione digitale e della consacrazione del pop come arte nobile, probabilmente ora si limiterebbe a far arrossire i suoi congiunti con qualche freddura spinta, come usava tra i nonni di una volta privi dei freni inibitori.

“Sicuramente mio marito ha condotto una vita all’insegna dell’eccentricità, sotto questo profilo” chiarisce F. D., la moglie novantunenne ma di tutt’altra lucidità mentale. “Ha passato buona parte della sua vita a imparare testi di canzoni, a storpiare frasi e parole per lavoro, ad armonizzare qualunque melodia compresa la sirena dell’ambulanza l’ultima volta in cui è stato necessario ricorrere al soccorso, e ad accattivarsi il plauso dei suoi contatti sui social network con contenuti sempre pensati per suscitare simpatia”.

La signora F. racconta qualche altro aneddoto a cui avrebbe dovuto prestare maggior attenzione, presagi di difficile comprensione del decorso mentale del marito. “I primi tempi della pensione, intorno ai 75 anni, li ha trascorsi guardando per intero le serie di cartoni animati preferite da nostra figlia quando era piccola, come Il giro del mondo in 80 giorni o Sherlock Holmes”. Decine di episodi visti senza interruzione e per più volte, con le stesse reazioni emotive. “Versava spesso qualche lacrima durante la sigla, perché si ricordava tutti i momenti trascorsi insieme a lei, cui è fortemente legato, malgrado viva negli Stati Uniti ormai da più di trent’anni”.

Decisamente un segnale di depressione che non lascia ombra di dubbio sull’equilibrio del signor R., una persona facile ai sentimentalismi ma anche capace di azioni che hanno dell’incredibile. “Qualche anno fa”, continua la signora F., “ha riesumato un vecchio strumento musicale elettronico che deve aver conservato a mia insaputa, nascosto da qualche parte. Poi tramite il Grande Archivio Informatico dei Cittadini ha rintracciato un paio di suoi amici musicisti ancora vivi, con i quali si è incontrato per realizzare un suo antico progetto: suonare i Joy Division da vecchio e vedere l’effetto che fa”.

Mai sentito una comportamento così bizzarro. Al Circolo Casaleggio non è più una novità. Quando accenna passi di break-dance malgrado la precaria mobilità i gestori comprendono che è il momento di avvisare la consorte che si precipita, per modo dire, a togliere l’arzillo novantenne dall’imbarazzo. “Lo riaccompagno a casa e cerco di fargli capire che quei tempi sono passati, che da allora ad oggi c’è stata in mezzo tutta una vita di cui non ci possiamo lamentare. Siamo siamo stati molto fortunati”. Ma il metodo più veloce per tranquillizzarlo potete immaginare in cosa consiste. “Ci mettiamo subito in videoconferenza con nostra figlia, che con grande pazienza e amore gli si rivolge come faceva da piccola, e lui si rilassa, si mette il cuore in pace, contento come è sempre stato”.

ecco da dove deriva tutto il mio sdegno verso l’uso del termine “fisicato”

Standard

Vorrei che, prima di chiedermi l’amicizia su Facebook, passassi in rassegna tutta la storia della nostra superficiale conoscenza, che peraltro non si ravviva non solo con una frequentazione, ma nemmeno con un incontro anche solo casuale, dai tempi in cui non usava nemmeno dotarsi di un telefono cellulare. E se te la devo dire tutta, fino a questa mattina mi ero dimenticato persino che esistessi, che occupassi una porzione di spazio reale sul quale peraltro dovresti essere soggetto a una tassa tipo l’ICI, considerando che pur alto un metro e cinquanta e rotti da sempre ami gingillarti con manubri e amminoacidi ramificati tanto che, in larghezza e spessore, se nulla è cambiato da allora sfoggi un form factor da due persone solo con i tuoi muscoli. Ricordo di aver notato, nella palestra che frequentavamo entrambi, il diametro dei tuoi avambracci, superiore a quello delle mie cosce. Persino le dita avevi da culturista, ho ancora viva l’immagine del tuo indice mentre disegna una mappa invisibile di confini – nello spazio che ci separa – entro i quali sogni di racchiudere la tua Patria con l’intento di tagliare fuori tutte le località delle zone soggette a bilinguismo con una toponomastica “esotica” o contraria ai canoni della vulgata nazionale, anzi nazionalista, sia francesi che ladini o tedeschi e slavi. D’altronde non facevi segreto del tuo becero orientamento politico, e sono pronto a scommettere che sotto la corazza della squadra di football americano in cui militavi, sei stato un precursore della biancheria nostalgica del ventennio poi venuta in auge qualche anno dopo grazie a giocatori di calcio dal cognome che beffardamente incarna il meglio della loro personalità.

Ma il punto non è quello. Prima di chiedermi l’amicizia su Facebook ti saresti dovuto ricordare che non mi hai mai restituito la vhs originale con i video dei singoli dei Depeche Mode, ché già soffro quando una delle mie creature non torna a casa, poi a saperla immeritatamente reclusa in quel mausoleo del cattivo gusto che dev’essere l’abitazione di un ignorante nazifascista, in mezzo a filmati dei discorsi del duce. Che poi, a pensarci bene, facevi pure psicologia, me lo ricordo perché una amica mia tua compagna di studi era rimasta traumatizzata da un tuo arrogante tentativo di approccio ai confini con le molestie, ma lei era un po’ mitomane quindi ai tempi mi sono trattenuto dall’esprimere un giudizio a favore dell’uno o dell’altra. Malgrado ciò, ci sono tutti gli ingredienti per condannarti ad almeno altri venticinque anni di oblio, senza contare che la tua richiesta di contatto mi ha fatto tornare alla mente il motivo per cui frequentavo quel posto, così distante dalla mia indole. Per certi versi mi piaceva osservare, c’era quello tutto pompato che diceva di aver la passione per il diventare grosso e io che gli rispondevo che era una bell’idea ma avrebbe dovuto iniziare a fare qualche sport. O quell’altro che pensava di scrivere il seguito della Bibbia perché gli avrebbe assicurato un successo letterario. Ma poi il fato ha pensato bene di punire la mia presunzione e la mia superiorità intellettuale non solo guastandomi la schiena a causa alla scarsa cura con cui venivo seguito, ma anche mandando in fumo un rapporto sentimentale che stavo costruendo. Avevo insistito affinché la mia fidanzata di allora si iscrivesse con me, e alla fine il body building le è piaciuto così tanto che ha preferito mettersi con uno di quei giganti senza scrupoli, ma con ben altri argomenti convincenti. L’avevo scoperto per caso. Una sera avevo notato la sua cinquecento parcheggiata davanti alla palestra al termine dell’orario di apertura, anche se a me aveva detto di avere tutt’altri impegni.

potreste allora tenerveli a casa, sarebbe anche un modo per tagliare la spesa pubblica

Standard

La maestra A., che pur nella sua modestia porta avanti il suo lavoro con dignità e il massimo impegno, mi riporta la notizia come se fosse una confidenza, come se la colpa fosse sua se, con gli stessi bambini giorno per giorno da cinque anni, non è riuscita a insegnare non solo le materie ma a trasferire anche un appropriato metodo di studio e di esercizio. Questo perché ci sono almeno una dozzina di bambini che, il lunedì, si presentano in classe senza compiti svolti o fatti parzialmente. Che già a me sembrano pochi, quelli assegnati per il fine settimana. Mia moglie o io ci mettiamo insieme a nostra figlia e la seguiamo mentre porta a termine le consegne, cerchiamo di non intervenire tuttavia prestando attenzione a quello che fa. Un tentativo di non risultare troppo presenti e di non farle sentire il nostro fiato sul collo. Chiaro che se notiamo qualcosa che non va le andiamo in aiuto, ci sembra tutto sommato un metodo corretto, almeno finora ha funzionato. E tutto questo processo scorre comunque senza imprevisti: una manciata di operazioni, qualche frase da analizzare, un paio di esercizi legati a un brano di lettura, poi le paginette di storia, geografia, scienze e inglese. Un totale di un paio d’ore in tutto, distribuite lungo venerdì sera, sabato e domenica.

Eppure c’è chi o ritiene che siano troppi o proprio se ne fotte o magari pensa che i figli non vadano più accuditi così da vicino così grandi. Sono gli stessi che sostengono che quando loro erano bambini nessuno si sedeva al loro fianco per controllarne l’apprendimento. Un punto di vista che fa acqua, abbiamo dimostrato diverse volte quanto il paragone tra epoche differenti non valga. Più probabile la seconda ipotesi, e cioè che genitori e figli siano lazzaroni in eguale misura. Durante il week-end ci sono sempre mille cose da fare per cui i figli possono anche essere lasciati allo sbaraglio, l’importante è che non disturbino le attività di primo interesse. A quel punto già me li vedo, aggrappati alle console dei videogiochi, o a passare in rassegna i canali tv, o su Internet a inventarsi escamotage per superare le barriere di controllo e godersi il fascino del proibito. Oppure sabato tutti al centro commerciale e domenica al ristorante con amici e parenti, mettici poi le partite da seguire e lo shopping e i cugini a cena e alla fine tempo non ce n’è più. La maestra A. è amareggiata per la scarsa importanza che i bambini danno alla scuola che è quanto di peggio i loro genitori gli abbiano fatto apprendere. Istruzione e insegnanti non sono aspetti vincenti della nostra società, a loro è dovuto il rispetto che si meritano. Stipendi bassi, considerazione al minimo. E possono essere messi in discussione a nostro piacimento, tanto siamo noi che li stipendiamo, vero?

opportunità di strage

Standard

Se uno ci riflette un attimo a fondo è un controsenso. Ma come, sei un animale sociale, addirittura fai di tutto per farti notare, apprezzare, condividi persino tutte le volte che vai al cesso su Instagram e poi te ne salti fuori che non sopporti le persone. Perché prima fai uscire tutti quelli che leggono le cose che scrivi che sono pochi e magari la pensano pure come te sul prossimo ma, nel dubbio, è meglio essere prudente. Poi metti in salvo le fasce che ritieni più deboli, quelli che ti fanno tenerezza o verso i quali non riesci a non essere indulgente, in fondo non è colpa loro, sono vittima di trent’anni di tv commerciale e ora hanno pure tutto lo spazio che vogliono sui socialini ed è naturale che postino le loro foto in controluce, non tutti hanno potuto frequentare un corso di fotografia e solo perché hanno l’icoso con millemila giga di spazio possono salvare tutti gli scatti che vogliono per poi farteli vedere. Sì, ci sono anche gli amici, pochi, senza contare che fai fatica a mettere il naso fuori di casa e ogni volta è la stessa menata. Ti stupisci di chi ti ruba il parcheggio, dei genitori che insultano l’arbitro che non ha fischiato l’invasione a favore della squadra di serie infima di pallavolo della loro figlia, degli apologeti di ogni dottrina sacra o profana che ti promettono una vita che vedono solo loro. Comunque quei pochi che ne vale la pena li hai avvisati in tempo, come in quelle leggende metropolitane dei terroristi che avvertono il tizio che si distingue per una buona azione di non recarsi il tal giorno nel tal posto perché potrebbe saltare tutto. Ecco, ultimata questa distinzione al millimetro tra sommersi e salvati, il resto ogni volta che esci pensi che la gente, davvero, non sta per niente bene.

vade feretro

Standard

A me questa faccenda che se fosse capitata qualche giorno prima poteva essere tranquillamente una parodia di “Weekend con il morto” mi ha fatto riflettere innanzitutto sul perché, come sostiene anche Gramellini – notate che ho usato “anche”, scusate l’immodestia, ma vi giuro che ci avevo pensato pure io ieri – le cose dalle nostre parti assumono sempre contorni farseschi. Voglio dire, era abbastanza verosimile che sarebbe emerso il problema di una salma così scomoda. Ora, non dico che uno debba pensarci tutti i giorni, ma insomma sul fatto che prima o poi un centenario per di più boia e nazista avrebbe raggiunto tutte le sue vittime a sessanta e rotti anni di distanza si poteva anche essere proattivi. Magari non noi ma il suo avvocato o chi di competenza, così da sbarazzarsi delle esequie altrove e mettere tutti di fronte al fatto compiuto. Dopodiché posso anche capire che ci sia ancora gente del calibro di Carlo Vichi, il proprietario della Mivar, che mostra con naturalezza il busto del mascellone oggetto della sacrosanta e meritata ostensione retroversa a Piazzale Loreto, ma che nel 2013 siamo ancora qui a leggere dell’esistenza di nazisti pronti a partecipare al funerale di un boia assassino non so. Ma cosa hanno in testa queste persone? Perché nessuno gli ha voluto bene da piccoli? Per non parlare della cronaca degli eventi che ci ha fatto fare i conti anche con la presenza in Santa Romana Ecclesia di personale investito di responsabilità officiante auto-definitosi lefebvriano. Perché il buon Francesco non tira su la cornetta e fa una telefonata anche a questi per fare il punto sul senso della loro presenza nel disegno divino? Ma se proprio uno vuol essere costruttivo e non criticare e basta, ecco la mia soluzione sul cadavere scomodo: gettarlo in discarica e tanti saluti. Con tutto il rispetto per le discariche.

nel dubbio, emigra

Standard

Il giorno dopo l’ultima puntata di Report è tutto un cercare in rete informazioni per trovare lavoro in Germania e trasferirsi magari proprio a Berlino. E anche se a malapena si sa contare da uno a cinque, si sanno pronunciare i nomi dei peggio criminali nazisti e qualche avversario della nazionale italiana ai mondiali dell’82, si conoscono un paio di battute da film come Frankenstein Jr o si sa dire non gettate alcun oggetto dai finestrini, quel quarto d’ora di entusiasmo sul sito del Goethe Institut o su qualche blog di giovani cervelli in fuga nei quartieri a est del muro è appena sufficiente a farci dapprima illudere che un altro futuro è possibile al di fuori di questi aneddoti, per poi riportarci alla cruda realtà che mollare un impiego di scribacchino sui socialcosi per impastare pizze ai wurstel o a riempire coni gelato non so, forse non siamo ancora pronti e la pagheremo cara e tutta quando saremo costretti invece a servire quattro stagioni e ad amalgamare stracciatelle – a essere fortunati – al centro commerciale all’angolo perché i presìdi con le bandiere della Fiom stanno alle agenzie di comunicazione come non lo so, non mi viene un paragone divertente in questo momento. Ecco, come accompagnare tua figlia in classe il primo giorno di scuola solo con uno slip da bagno addosso. Insomma, gli ardimenti da emigrazione ingiustificata sono leciti quanto i tuffi dagli scogli nelle giornate in cui c’è una tempesta e la gara si procrastina all’estate dopo, tanto chissà dove saremo. E dopo quei quindici minuti la Germania da meta esistenziale è già la nuova mostra che magari con un low-cost si potrebbe visitare in scioltezza al ponte dei morti, che detta così suona un po’ lugubre. Ci sono anche le scarpe da comprare che si trovano solo lì e le borse artigianali quelle che le scegli a pezzi intercambiabili e che costano un botto, che altro che crisi ed essere lasciati a casa dall’azienda in fallimento. Non è una forma mentis a cui siamo abituati, quella della povertà. Per questo guardiamo Report, ne parliamo a colazione, e la sera dopo di nuovo leoni per ritrovarci poi, una bella mattina, tutti quanti [finitelo voi, questo post, non metto nemmeno il punto]

dell’avere problemi di saluti

Standard

Vorrei proporvi una riflessione sui saluti di rito del venerdì tra persone che hanno una conoscenza superficiale o circoscritta a un settore specifico della loro vita, e mi riferisco a colleghi, compagni di viaggio quotidiani, gente che si incontra con cadenza regolare ogni settimana a un corso o in palestra, per dire. Di solito si liquida la pratica con “ci si vede lunedì”, che è un augurio ipocrita che ci facciamo tutti. Da un parte speriamo di essere ancora allo stesso posto la prossima volta, sapete quelli che gli chiudono l’azienda a loro insaputa nei giorni di vacanza e quando tornano trovano la porta murata che nemmeno in quei programmi di scherzi idioti sulle reti mediaset. Dall’altra ciascuno di noi spera di entrare in una dimensione festiva senza fine per un non ben definito evento soprannaturale, come quei film in cui tutti i giorni fai sempre la stessa cosa solo che hai il culo che il meccanismo universale si inceppa quando nel tuo emisfero è sabato mattina e nessuno conosce la parola magica per rimettere le cose come stanno. Un eterno presente fatto di quella semplicità di quando ti svegli ed è tutto sospeso, magari è ancora primavera e prendi la bici e ciao. I giorni feriali non torneranno mai più.

Poi c’è il più comune cenno di commiato è quel “buon fine-settimana” che suona come una convenzione, il fine-settimana è buono di default perché si sta a casa e non ci si deve mescolare all’umanità cattiva che vuole farci lo sgambetto per gli altri cinque giorni. Il male al massimo è insito quindi nel saluto stesso, specie se è formulato all’inglese come “buon weekend” o, peggio, in quella versione abbreviata arbitrariamente che è “buon week” e che non vuol dire un cazzo, quasi come “buona vita” che quando me lo dicono mi viene da fare i più biechi scongiuri.

Quando c’è maggiore intimità tra i contraenti di questo patto di reciproca fiducia nel futuro comune, ci si guarda con l’espressione di chi la sa lunga e ci si lascia con “mi raccomando”, come se fossimo ancora ai tempi dell’università quando in effetti il sabato e la domenica poteva succedere di tutto, tra sesso, droga, birra e rock’n’roll, anzi, post-punk e tutto il resto. Cosa vuoi raccomandarmi? Temi che mi si blocchi la schiena sollevando il sacco da dieci kg di sabbia per gatti? Mi consigli di riguardarmi da tutti i viziosi film per bambini durante i quali sarò costretto ad appisolarmi sul divano mentre fuori piove? Alludi al quantitativo di casseula che mangerò a pranzo da mia suocera, da cui mi reco ogni domenica da dieci anni a questa parte? Ecco, questo è il massimo della trasgressione tra noi di mezza età, comunque apprezzo lo spirito di chi crede che la vita, nel weekend, riservi ancora qualche sorpresa.

ci vorrebbero più strumenti musicali tascabili

Standard

Presso la scuola di musica del paese in cui vivo, quest’anno è stato istituito un corso di chitarra da scampagnata. Ora non ricordo la corretta dicitura ma il senso è quello: insegnare l’uso sociale dello strumento a sei corde, divulgare la sua funzione di collante delle attività di gruppo e ripristinare l’antico valore della “chitarra sulla spiaggia” nella cultura del tempo libero. La chitarra acustica, nella musica, riveste lo stesso ruolo del pane durante i pasti, un appagante e completo supporto armonico alle melodie. Ma il suo uso universalmente noto come “di accompagnamento” necessita di un’educazione musicale a sé. Basta riff, basta soli e arpeggi: se volete compiacere i due amici e guadagnarvi il diritto a fare un paio di tiri dallo spinello come si cantava ai tempi dei collettivi studenteschi, la chitarra dovete saperla suonare come si deve, con pochi personalismi e al servizio della comunità con pennate e barrè. E c’è ancora oggi chi ha voglia di imparare così e diventare un chitarrista senza troppe pretese, per questo l’idea della scuola di musica che vi ho riportato prima mi sembra tanto onesta quanto funzionale.

Ci sono infatti due aspetti da tenere in considerazione, che tengo a sottolineare in quanto tastierista/pianista e, come tale, sempre afflitto da una sorta di “invidia del manico” nei confronti dei miei nemici-amici chitarristi. Intanto la completezza armonica del timbro data da una giusta misura di note suonate simultaneamente lungo la scala (gravi, medie e acute), un risultato che non sono mai riuscito a ottenere in modo equivalente con il pianoforte vista la maggiore possibilità di rivolti (almeno credo) e la difficoltà di supportare una linea melodica con la base di accordi migliore. Suonare a due mani è una scocciatura, soprattutto se sei una mezza calzetta come il sottoscritto.

Oltre a questo, è la portabilità dello strumento che fa la differenza. Non a caso l’adesivo dell’hippy di spalle che campeggiava sulle automobili da fricchettoni di una volta aveva una chitarra sulla spalla, e non un piano verticale. Si tratta di un altro elemento di frustrazione. Vorrei vedere voi fermi in coda in autostrada per un incidente, quei blocchi in cui si sta lì per ore, e tutti i vostri compagni di viaggio che tirano fuori tromba, sax, contrabbasso, rullante e chitarra semi-acustica dal furgone e improvvisano un concertino nella corsia d’emergenza e voi nulla perché non ci sono prese di corrente e amplificatori.

Ma ci sono anche altri momenti che un tastierista vive con imbarazzo, quando per esempio c’è un pianoforte a disposizione e amici o parenti o colleghi ti chiedono di suonare qualcosa. Se sei un pianista classico o un jazzista, capace di suonare temi e di accompagnarli allo stesso tempo, il gioco è fatto. Gli spari senza indugi un notturno di Chopin o The Koln Concert e il successo è assicurato anche se qui, attenzione, il rischio di passare per un Richard Claydermann o, peggio, per un Giovanni Allevi è dietro l’angolo. Ma se non siete così esperti o siete più avvezzi ai synth, come me che ero scarso e pure abituato a suonare con una mano mentre l’altra smanettava su manopoloni e potenziometri, mettere a disposizione un brano di senso compiuto, con un capo, una coda e una serie di note in mezzo comprensibili, mica è facile. Non c’è una scuola intermedia e di conseguenza un modo ufficiale per diventare un pianista equivalente al chitarrista da scampagnata.

Ma a volte basta trovare una propria nicchia. Io per esempio avevo tutto un repertorio di stupidaggini musicali, che andavano dalla sigla de “Il pranzo è servito” a “Profondo rosso” e potevo contare su una discreta capacità di riprodurre al volo canzoni anche senza averle mai studiate con attenzione, attività che rientra nella categoria dell’improvvisazione. Questo mi ha regalato momenti irripetibili, come un’esibizione a una cena di Natale a casa di una fidanzata, molto tempo fa, con parenti, nonni e animali annessi, un convivio a cui ho aggiunto valore con il mio accompagnamento usando una di quelle tastiere da dilettanti a tutto un rito famigliare, e mi spiace averne dimenticato i dettagli. Mi pare che ci fosse un membro designato alla consegna dei regali ad ogni componente della famiglia e che, ogni volta, dovesse accompagnare l’attribuzione del dono con storie, battute, aneddoti famigliari. Sono stato così assoldato nel musicare improvvisando quelle scenette, fino a quando la nonna si era messa a piangere dalla commozione, anche se non riesco proprio a ricordare quale brano avessi scelto per sonorizzare il suo momento. Inutile sottolineare che quello, che era il primo Natale trascorso con quella ragazza, è stato anche l’ultimo, l’unico insomma, ma sono pronto a scommettere che quella cena, con tanto di esibizione di pianobar tutta per loro, se la ricordano ancora.

multisala, tanti divertimenti in uno

Standard

Sto aspettando che termini il sequel di un film per bambini di cui non ho visto nemmeno il primo episodio, seduto su una specie di divano nella hall di un multisala di provincia. Dalle mie parti funziona cosi: nel limite del possibile si portano i bambini al cinema parrocchiale che è una causa da sostenere, sia per una questione di principio che sotto il profilo economico. Costa poco e fa provare quell’effetto di comunità che nei posti come quello in cui vivo, in cui non si capisce bene la fine di un paese e l’inizio di un altro e quando tutto diventa città e metropoli, tutto sommato dà l’ebbrezza dei vecchi tempi, quando i bambini giocavano in strada e altre superficialità di un’epoca finita da un pezzo. La scelta di riserva, quando si vuole andare al cinema ma alla sala dell’oratorio non c’è niente di interessante, è il multiplex al profumo di secchiello di popcorn.

In entrambi i casi la dinamica è la stessa. Si mettono insieme tre o quattro compagni di classe e un genitore li accompagna, fa i biglietti, gli indica la sala e i posti. I bambini si sistemano e l’adulto di turno, oggi sono io, può fare quel che crede. La spesa nel centro commerciale annesso, per esempio. Io questa volta mi sono portato da leggere, sono al primo romanzo di Richard Ford che con Sportswriter è balzato nella top ten personale al fianco dei vari Auster, Delillo, Homes, Everett, Coupland e compagnia bella. Mi accomodo su un divanetto multicolore e per farvi capire quanto mi piace quel libro non mi distrae nulla, né il casino delle famiglie che corrono dietro ai figli né gli adolescenti all’assalto delle sale.

Fino a quando rifletto proprio su quell’utenza e mi meraviglia quel contrasto tra bambini troppo piccoli e le sagome cartonate dei loro eroi, le bestiole gialle di Cattivissimo me o i mostri della Pixar. Per non parlare delle scritte a caratteri cubitali: multisala con una freccia che campeggia sopra l’ingresso del cinema, per differenziarlo dal centro commerciale che gli fa da contorno, i cartelloni pubblicitari di attività locali che sperano nell’investimento in advertising tradizionali puntando a una clientela che i soldi li spende diversamente, a botte di 16 euro a testo per un film con occhiale 3D per esempio. E mentre osservo le famiglie mi sovviene un articolo che mi ha letto dopo pranzo mia figlia, una biografia di Martin Luther King, che è nato lo stesso anno di mio padre ma è stato assassinato a 39 anni. Questo solo perché tra un gruppo e un altro di paganti che si dirigono alle varie sale poso gli occhi su una pagina del libro e leggo proprio quella data, 1968, e l’attenzione sulla storia dura un’altra volta poco.

Vengo distratto da un dialogo tra un coppia di trentenni che si sono seduti a fianco a me. Sfogliano il dépliant con tutta la programmazione della giornata e si scambiano pareri molto vaghi sentiti altrove per scegliere quale film vedere, il che mi sembra curioso perché a me non verrebbe mai in mente di passare un pomeriggio in un multisala in quanto tale e poi lì, a seconda di cosa danno, decidere il film. Voglio dire, se vado al cinema vado a vedere un film non vado a vedere l’edificio indipendentemente dalla programmazione. Non so se mi sono spiegato.

Nel frattempo qualche spettacolo finisce. Escono di gran carriera dal corridoio cui si affacciano tutte le sale due ragazzi nordafricani, vestono giubbe smanicate di colori sgargianti e si allontanano di corsa, potete immaginare che cosa ho pensato. Là dentro, da qualche parte, c’è mia figlia e due sue amiche da sole. Vedo passare tante ragazzine e ragazzini e penso che un posto così, con tanto andirivieni di giovanissimi, potrebbe essere un posto perfetto non solo per la delinquenza tradizionale, avete capito cosa intendo. E per certi versi mi sento sospetto anch’io che osservo le persone passare, seduto da quasi due ore nello stesso punto della hall del multisala con un libro in mano che trascuro per tutte queste cose ed è inutile aggiungere che sono l’unico che è lì di domenica pomeriggio a fare una cosa anomala come leggere un romanzo anziché spippolare sullo smartcoso, mangiare gelati o popcorn o chiacchierare con altri. Non lo scrivo perché poi so già cosa uno può pensare, la superiorità morale e la cultura e cose così.

Insomma, qualcuno potrebbe pensare male, sono anche vestito abbastanza trascurato anche se non indosso smanicati di colore sgargiante. E mi rendo conto di tutto questo quando mi alzo, da lì a poco le bambine di cui sono in attesa usciranno da una delle sale, e due inservienti mi vengono incontro con passo piuttosto nervoso e penso che oddio, ora mi chiederanno cosa ci faccio qui e ci farò una figuraccia con tutte le famiglie e invece no. Mi fanno solo notare che ho lasciato il mio telefono sul divanetto, mi è caduto dalla tasca dei pantaloni. Li ringrazio, lo raccolgo e, non avendo con me carta e penna, lo uso per annotare l’accaduto.