più che di uno stivale ha la forma di un tronchetto

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Questi tempi non passeranno certo alla storia per la grandezza del nostro agire, verranno piuttosto ricordati come gli anni del tronchetto. Sfido chiunque di voi, care lettrici, soprattutto chi non ha approfittato delle ultime stagioni all’insegna degli stivali a tutti i costi, a trovare un paio di calzature che non rientrino nella suddetta categoria, che ora va per la maggiore. Ci sono tronchetti di tutti i tipi, con o senza tacco, le fibbie borchiate che fanno tanto motociclista e i drappi che cadono sulla caviglia. Accollati e non, più o meno eleganti o da battaglia, persino quelli sportivi che ricordano il design del made in Italy con la suola da tennis. Se poi vi capita di entrare in uno degli ennemila megastore monotematici, e qui nella profonda periferia milanese c’è una densità senza precedenti, vi colpisce la distesa orizzontale di tronchetti che svettano su pile di scatole di cartone che contengono il modello in mostra in tutti i numeri e tonalità. Tanto che quando entri ti assale la strana sensazione di essere preso per i fondelli perché l’ampia scelta di articoli in realtà è solo una infinita variazione sul tema del tronchetto, il che rispecchia perfettamente il pensiero unico o unico e mezzo a cui oramai siamo avvezzi in politica, nell’informazione, quando accendiamo la radio e cerchiamo qualcosa che non sia Ligabue o Ramazzotti, quando vogliamo mangiare quello che ci piace e non quello che è in offerta, nelle attività extra-scolastiche dei nostri figli, quando cerchiamo un regalo per una persona cara e a Milano quanto a Cagliari i negozi appartengono alla stessa catena, di fronte alla moltitudine di link su Internet presentati dal più noto motore di ricerca. Il nostro vivere è saturo di impercettibili declinazioni dello stesso archetipo, a guardare bene ci sono solo tronchetti metaforici, e ci sembra pure di avere una scelta se non che, come diceva un mio amico, la scelta non c’è ma si può fare finta di averla.

tronchetti

vecchie canzoni per giovani amori

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Trovo che sia irriguardoso nei confronti della contemporaneità e degli sforzi dell’umanità intera, compiuti per tirare avanti e migliorare se stessa, ascoltare solo ed esclusivamente canzoni di cantanti morti o gruppi ormai più che dimezzati, vuoi per questioni anagrafiche o per la condotta di vita talvolta poco salutare dei componenti, che ora comunicano ai loro fan le giuste vibrazioni dal paradiso delle rockstar. Ecco perché credo sia fondamentale tenersi sempre aggiornati sulle novità discografiche, se non altro si può contribuire al percorso verso un successivo stadio di evoluzione e si toglie un po’ di eredità in termini di diritti alla progenie dei cantanti famosi, evitando che il frutto di tanti sforzi venga dilapidato solo in termini di nepotismo in tentativi di emulazione con successi oltremodo discutibili. D’altronde sembra quasi un destino comune alle persone normali, quello degli anziani di mescolarsi in mezzo ai giovani. Se John Lennon – che è morto ma che se fosse ancora in vita avrebbe 70 anni e rotti – usa risuonare nelle playlist degli adolescenti del 2013 è perché, tra la gente comune, i pensionati amano sbrigare al sabato commissioni e fare cose di cui potrebbero tranquillamente occuparsi in settimana, quando in uffici, negozi, servizi pubblici ci sono sono solo loro e la forza giovane e produttiva di questo paese cazzeggia sui Social Network in ufficio. Invece a tenere in mano il numerino delle code nei pochi negozi rimasti, o nei tavolini comuni ai numerosi bar a gestione cinese dei centri commerciali, sono in larga maggioranza loro, i pensionati che non a caso sono anche la larga maggioranza della popolazione autoctona. Come biasimarli, stare in mezzo a tatuaggi, infradito e pettinature da calciatori è meglio che contornarsi di carampane e fisici cadenti. E poi, con l’occhio dell’esperienza, è possibile trarre il meglio dai comportamenti e dalle abitudini delle nuove generazioni, si possono criticare e tirare sospiri di sollievo su che cosa, chi è nato sensibilmente prima, è riuscito ad evitare. E non mi riferisco solo ai soliloqui con il proprio dispositivo touch screen che probabilmente comporterà l’estinzione del genere umano. Qualche sera fa mi sono trovato in mezzo a un nutrito campione di giovani e giovani adulti, per così dire, in quelle atmosfere da ormoni e contratti a tempo determinato di cui i luoghi di ritrovo per giovani e giovani adulti sono pregni, uno scenario in cui l’anziano ero io. Tra crocchi di avventori con bicchieri di plastica pieni a metà di birra industriale emergevano qui e là, seduti sull’erba di un parco, coppie prevalentemente etero in via di formazione. Ragazzi impegnati in presentazioni in stile marketing di sé cercando di approfittare del giusto livello di persuasione nella ragazza target, e ragazze che si raccontavano guardando un punto indefinito mentre i ragazzi di cui erano target cercavano il giusto varco per compiacerle. Il tutto con canzoni di cantanti e musicisti defunti da tempo. Così ho pensato che ci sono cose che è bello non dover più fare, e che certi posti è meglio evitarli perché quello che avviene mescolato a quello che si sente a una certa età va fuori dalla nostra capacità di comprendere.

caso Barilla, dopo la gaffe pronto il pane del perdono

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Niente, mi faceva ridere un titolo così. Perdonate l’interruzione, tornate pure alla crisi di governo.

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se l’autovelox è un fotofinish

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E poi non è che uno esce alla mattina con un cartello grande così sulla schiena con su scritto “odio tutti”, per questo non vale nemmeno l’opposto “ce l’hanno tutti con me”. Il mondo non è una gara, una specie di omni-thlon dove il bisogno di superare gli altri supera noi stessi, ché non dobbiamo essere secondi a nessuno, tantomeno ai nostri impulsi animali. Conosco uno che quando si sveglia e si sente cattivo, o meglio, una brutta persona, si guarda allo specchio e dice di ritrovarsi riflessa l’Italia che c’è in lui. Ma ci sono i giorni – vero? – in cui casa nostra è una caverna e ci sembra di uscire con la clava perché i pericoli si annidano dovunque. Quindi ci sentiamo in dovere di giustificare qualunque gesto con il nostro istinto di sopravvivenza non agevolando l’immissione da destra nelle superstrade congestionate dal traffico, quando la coda ci consente al massimo il passo d’uomo ma l’uomo che vive nell’abitacolo rivale fa parte del resto del mondo conosciuto con cui, manco a farlo apposta, quella mattina siamo in guerra. Per non parlare dei confronti al millesimo di millimetro in prossimità dei caselli, irrispettosi delle corsie canalizzatrici disegnate proprio con l’obiettivo di farci arrivare magari non primi ma per lo meno indenni al nostro sistema di pagamento preferito. Quelli che sono a metà e che vorrebbero fotterci il posto sono un anello sopra di noi nella catena alimentare, e quando non è giornata cerchiamo di ristabilire le giuste gerarchie.

E se ci pensate bene, tutta questa metafora autostradale fila che un piacere, magari un po’ meno nelle ore di punta e nel weekend quando andate al mare, proprio come tutti i milioni di altri con i quali ce l’avete perché sono un ostacolo alla vostra voglia di ottimizzare il tempo libero andando il più veloce possibile verso la meta. Quante volte usiamo segnali nella nostra quotidianità, come lampeggiare con gli abbaglianti al futuro che sta davanti e a cui chiediamo di farsi da parte tanto è lento. Non venite a raccontarmi che non vi capita di procedere nella terza corsia – quella più a sinistra – per lasciarvi dietro tutto il resto che tanto non riuscite nemmeno a vederlo se non riflesso nello specchietto, mentre si ha tutto il tempo di osservare le porzioni in eccesso allontanarsi come sfondo di chi viaggia al nostro fianco nel massimo del confort. Il climatizzatore personalizzato per ogni sedile, quelli dietro con il tablet incorporato, un unico connettore per i dispositivi audio che al giorno d’oggi l’iPhone fa tutto lui. Navigatore, autoradio, computer di bordo. Abbiamo bisogno sempre di più spazio e ma allo stesso tempo cerchiamo di tenerci ben saldi alle nostre radici che ci seguono in questa corsa in cui, con la scusa della sicurezza, ci siamo allargati a torto ma impuniti.

non ci si può nemmeno più strangolare con il filo del telefono

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Una delle espressioni che presto cadrà in disuso e che già quando la dici oggi in presenza di qualche rappresentante (suo malgrado) della generazione digitale ti guarda come se parlassi in gaelico è quel “sbattere il telefono in faccia” o “buttare giù la cornetta” della cui obsolescenza, in tempi di smartcosi, converrete con me. Nessuno colpirebbe mai qualcun altro lanciandogli un pezzo da sei o settecento euro sul naso, che magari è più facile che si rompa il dispositivo più che l’altrui grugno, né ci sono più cornette da far cadere con violenza verso il basso. Interrompere una chiamata, di questi tempi, non dà più la stessa soddisfazione del gesto violento fatto ai danni di un Bigrigio o di un Sirio tra le mura domestiche, oppure con uno di quegli indistruttibili Rotor – quei madonnoni color rosso mattone arancio utilizzati nelle cabine pubbliche – in ambienti outdoor tra lo sgomento generale di chi stava a sentire le conversazioni concitate altrui, magari nella calca de posti telefonici a pagamento che usavano anni fa. Ora è sufficiente dare una ditata sul touchscreen dei nostri piastrelloni e occorre pure misurare l’impeto perché una volta che sono rotti, se proprio non si vuole ricorrere agli artigiani di via Paolo Sarpi o altre analoghe chinatown se non siete di Milano, sarete costretti a sborsare un altro capitale per sostituire l’intero pezzo giacché portarlo a riparare costa una follia e in più, nel frattempo, il vostro modello sarà già considerato tecnologicamente superato.

Resta però fuori discussione che l’essere colui che interrompe brutalmente una conversazione diciamo burrascosa, e di questi tempi le conversazioni telefoniche – e anche quelle burrascose – sono quasi esclusivamente di dominio pubblico perché la mobilità dei dispositivi ci induce a usarli mentre facciamo altro o nei momenti morti come i trasferimenti da un posto a un altro, non implica il doversi giustificare per la cattiveria infierita. Intanto perché la vittima non si vede, e gli spettatori del vostro show parteggiano emotivamente per l’unico protagonista visibile e cioè voi che avete diritto di vita e di morte su chi vi sta facendo alterare. Di segno opposto quando siete voi le vittime, ovvero quando vi hanno “sbattuto il telefono in faccia” e siete in pubblico, giacché è un onta il dover riconoscere la sconfitta e passare da una turbolenza sonora verbale al silenzio assoluto preceduto da numerosi e reiterati “pronto? pronto?” di disperazione, momenti durante i quali noi curiosi ci guardiamo con quello stato d’animo per cui siamo consapevoli che non poteva altro che finire così.

Quindi scende l’imbarazzo, la vittima al limite può fingere e lamentarsi con la compagnia telefonica di turno sul fatto che è caduta improvvisamente la conversazione, lì magari non c’è campo ma non se la beve nessuno, state sereni. Il mio suggerimento, lo so perché l’ho provato io una volta ed è un escamotage rodato e funzionante, ve lo assicuro, è quello di far finta di continuare il dialogo approfittando per riportarlo su binari di civiltà, per così dire, recitando la parte di chi sta convincendo l’interlocutore alle proprie ragioni mentre l’interlocutore, di là, sta già facendo altro. Quindi ci si saluta con un benaugurante “ne parliamo più tardi, che ne dici?”, la gente intorno si tranquillizza, qualche volta parte pure l’applauso come quando il pilota compie un atterraggio da manuale.

recensioni letterarie: Catalogo Ikea 2013-2014 [attenzione spoiler, questo post contiene anticipazioni sulla trama]

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Vivere la casa è creare spazio per la vita di tutti i giorni. La nuova edizione del catalogo Ikea inizia così, introducendo il tema che è un po’ la fatica che ci portiamo appresso e che non riusciamo mai a riporre in alcun luogo perché è la vita stessa di tutti giorni a non avere nemmeno uno spazio organizzato rispondente a un modello svedese. Le prime esperienze abitative, in questa nuova narrazione dell’impiallacciato, anticipano subito una trama che si sviluppa in un unico piano monodimensionale. Ambienti rappresentati solo per un lato che sembra infinito, popolato di bimbi che giocano o che guardano la tv mentre gli adulti riposano il sonno delle grandi responsabilità e delle scelte, certi che nessuno corre pericolo se lo show room della modernità è uno spettacolo a porte chiuse ma sempre ben allestito.

Dietro a fondali e paratie che dosano quell’ingrediente iper-reale che sapienti architetti stemperano lungo una visione platonica delle idee domestiche, da questa quinta volutamente minimale fanno capolino stampe con gatti giganteschi e bici posteggiate a cazzo perché quello che si ha per le mani è un catalogo, attenzione. Una sintesi delle possibilità di ravvisare il proprio sé e liberarlo dalla dipendenza del tasso di grancasa di cui siamo permeati, come metafora della resa e del compromesso. Ma dove si nascondono i protagonisti di questa nuova avventura, sfuggiti al mondo della convenienza? Essi sono solo comparse in stanze stipate di cose in istantanee fuori fuoco a ricordarci che una qualsiasi superficie sguarnita richiama una riflessione. Chi siamo? Saremo in grado di montarlo? Perché la birra Ikea costa quattro euro?

E ancora, cosa è un vuoto? Una porzione di essenza in meno, un oggetto in esposizione che qualcuno ha sottratto ignaro che lì non si deve toccare nulla e occorre invece attendere la discesa al piano inferiore, là sotto dove man mano che si avvicinano le casse ogni acquirente lascia dietro di sé sempre più copiose tracce della serenità, sogni di socialismo reale del benessere applicato all’individualità in quella allegoria della casa, che è la casa di tutti e che a tutti ha infuso una speranza di luci, colori, jingle, dispositivi elettronici non funzionanti ma a prova di italiano, libri in brossura di autori dai nomi impronunciabili.

E anche nella nuova edizione le novità sono sempre molteplici, in questo spaccato di società scandinava che trasuda da carte da parati, tendaggi mitteleuropei e stampe industriali a finto rischio di omologazione. Volti nuovi da idealizzare – prima che i nostri figli non ci facciano chiamare dalla zona giochi con il sangue dal naso – mescolati ai protagonisti ormai costanti della nostra vita, il Billy come il Besta o l’Expedit che un po’ come i nostri migliori amici o le persone che davvero ci stanno a cuore sembrano condurci anche questa volta verso l’epilogo. Che però non è un epilogo perché il catalogo non ha una fine ma un perpetuo ritorno alla partenza nel labirinto dei passaggi non segnalati tra i reparti, qui reso in forma di elenco di tutti i prodotti in ordine alfabetico. Una sorta di meta-titoli di coda preceduta da un tripudio tanto multietnico quanto utopico con colte citazioni nell’appendice gastronomica a tema.

Ma non c’è da sorprendersi, anzi sì. Sorprendiamoci. Un giudizio ampiamente positivo per questo nuovo capitolo di una saga che da anni porta un po’ di Stoccolma nel nostro sdraiarci nell’ozio, nel vivere sogni agitati della settimana lavorativa, mentre ci sforziamo per andare di corpo o come scenografia per una cena romantica. Il nuovo catalogo Ikea si conferma così un altro pezzo della storia delle nostre vite, quella pennellata di giallo e blu che ci fa sognare che anche se siamo in milioni, ogni domenica pomeriggio, a riempirci il borsone di plastica di cose e matite e fogli a righe e metri di carta che chissà se useremo mai. In fondo c’è qualcuno lassù che ci ama davvero e che è prima di tutto è un architetto d’interni. Precario, ma questa è solo una boutade.

il blog e la rotazione delle colture

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Da solo, nel silenzio del box della domenica pomeriggio, mi meraviglio del sistema di mensole che continuano a reggere il peso sproporzionato di cose che sono utili solo a metà. Un’architettura di accantonamento che non ho certo costruito io, considerando che il trapano proprio non fa per me, ma che vista così, in quel luogo che sembra pensato apposta per essere sporco e dimenticato, mi fa sorprendentemente assalire da quel brivido che è unico ed è quello che il genere umano prova esclusivamente in quello stato di solitudine totale di fronte a un progetto. Due cose prima di proseguire: deve trattarsi intanto di solitudine assoluta anche se temporanea, per lasciar scaturire tale sensazione. E poi non capisco quelli che piastrellano il pavimento del garage, che già è scandaloso dover acquistare una stanza pensata per un’automobile, figuriamoci poi ad accomodarla come una sala da pranzo. Ma non è questo il punto. Io che non sono un amante del fai-da-te, nell’assenza totale di suoni e rumori e con quel groppo di piacere che mi percorre dallo sterno all’inguine, riesco persino a capire il mio vicino che è in pensione a 58 anni e che nel box ci passa la sua vita.

Capisco anche mio padre, che curava un orto ma non come fanno tutti, l’orticello dato in gestione dal comune sotto il cavalcavia dell’autostrada che poi non oso immaginare il sapore della verdura, nel senso che è sicuramente roba a chilometro zero perché chi li cura va e viene in bici. Ma i chilometri sugli ortaggi sono tutti quelli delle auto e dei tir che passano sopra, quindi alla fine è meglio la grande distribuzione. No, mio padre aveva un orto in una zona di campagna vera su una collina vera a un’ora di viaggio da casa sua. Mio padre un giorno sì e uno no, una volta in pensione, prendeva la sua Lada Niva e andava a innaffiare, potare, raccogliere, sistemare. Tornava con verdura e prodotti per tutti, roba buona e sana. Un’esperienza che però non condivideva con nessuno. Sono certo che amasse recarsi da solo per trascorrere da solo un paio d’ore con il suo orto, ad affrontare e risolvere problemi senza nessuno intorno. E siccome lo conosco bene, posso immaginarmelo stare in piedi e godersi quel brivido di cui sopra, che non saprei definire ma magari ha un nome, fermo a guardare i settori dei campi coltivati ciascuno con vegetali differenti.

Di queste cose non ne abbiamo mai parlato, e tanto meno possiamo farlo ora visto che mio papà è in quell’età in cui confonde le cose e i discorsi, si ricorda solo pezzi e, spiace dirlo, ma dal punto di vista del dialogo non costituisce più un interlocutore autorevole né è costruttivo intrattenersi con lui. O meglio, io lo faccio giusto per rispetto, perché è mio padre e spero che un giorno anche mia figlia riesca ad essere indulgente con me sul fatto che sono diventato vecchio, che il cervello mi sta andando in pappa e che non posso più proteggerla come quando era piccola. Quindi di lui in piedi che osserva il suo orto godendosi la solitudine del momento ho solo un ricordo di quelli inventati, lo desumo da come rammento mio papà prima che diventasse troppo vecchio per qualunque cosa.

Comunque, e dovreste saperlo se avete un blog, ci sono strumenti per vedere quanti passano a leggere le proprie cose. Oggi stavo dando un’occhiata a questa parte visibile solo a me che in gergo si dice back-end, e mi sentivo piuttosto fiero non tanto perché ho un’audience da paura, perché altrimenti non avrei trascorso la domenica tra box, cantina e pc ma sarei andato alla Blogfest a ritirare il mio premio di miglior cialtrone del web. Voglio dire, io e il mio blog siamo come il mio vicino baby-pensionato con le sue mensole o mio padre con il suo orto, non ricaviamo un centesimo o un quarto d’ora di nulla dalle nostre passioni, ma le coltiviamo ugualmente e per anni, finché abbiamo le forze, finché ci funziona il trapano, finché ci vengono in mente cose da scrivere. Mi sono sorpreso invece perché mi sono accorto di guardare la home page di questo blog, quella che immagino abbiate davanti anche voi, proprio nello stesso modo in cui sono sicuro mio padre guardasse il suo orto. Con quel brivido che sale e scende e che te lo danno solo e unicamente la solitudine e il silenzio, di fronte a un qualcosa che cresce grazie a te, che poi magari lo racconti dopo, ma che in quel momento davvero non vorresti condividere con nessun altro.

porno subito

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La sfida per i prossimi anni consisterà nel difendere i più piccoli da quell’infinito contenitore di schifezze che è l’Internet. Ci sono tante cose belle, eh, per carità, ma insomma. Tanto per cominciare, mi chiedo che ne sarebbe stato della nostra generazione se anziché nascondere “Le ore” nei cassetti della cameretta avessimo avuto a disposizione gratuitamente e comodamente sdraiati sui nostri letti tutto quello a cui oggi siamo esposti. Non so, forse avere cose proibite così a portata di mano le solleva dal fascino della peccaminosità, ma avremo maggiori informazioni sulle conseguenze tra qualche anno, quando i primi tecnodipendenti saranno adulti. Ci accorgeremo se c’è stato un abuso, se abuso o meno ci sono state conseguenze, se c’è ancora margine per correre ai ripari, se nessuno farà più caso a cosa e lecito o cos’è morale o se comunque è più costruttivo avere tutto alla portata di tutti, questo a ogni livello, perché magari è proprio quella la vera democrazia e gli squilibri sociali si sono sempre manifestati proprio a causa di omissioni, diritti negati, attività nascoste. Ma nel frattempo noi “esodati” che siamo a metà tra Ifix Tcen Tcen e Youporn come dobbiamo comportarci? Non sapendo come andrà a finire, nel dubbio ci muoviamo applicando i valori del passato. E per farlo correttamente, oggi, occorre essere davvero preparatissimi sulle nuove tecnologie. Sapere fin dove i nostri figli possono spingersi autonomamente, se subentrano gli approcci con cui il marketing digitale attira l’attenzione e la curiosità dei giovani, se il sentito dire che oggi si dipana a velocità vertiginosa sui social media arriva prima degli interventi dei grandi diretti interessati. O magari noi stiamo qui a preoccuparci ma intanto i nostri figli sono già oltre, usi a un sistema pornografico di per sé che va ben oltre il Lando che si poteva consultare dal barbiere o le vetrine dei giornalai stipate di letteratura a luci rosse. Sembra infatti che il sesso sia ovunque, nei racconti privati e nelle foto che la gente posta su Facebook tanto quanto nei link correlati dei motori di ricerca, per non parlare delle persone in carne ed ossa. Sta a noi prepararci a dare la lettura più appropriata a ciò che accade e a fornire le risposte alle domande che ci verranno poste. Che nell’insieme delle complessità, questa che riguarda la più privata delle sfere private non ha precedenti. Non so, magari saremo chiamati davvero a rivedere tutto dal principio, ma la sfiga è trovarsi proprio qui nel mezzo.

laureato ex-musicista con esperienza sui socialini e italiano fluente impartisce lezioni private di vita

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Diciamo che il desiderio di insegnare a vivere agli altri nella gente è superato di poco dal piacere di non farsi i cazzi propri. Oggi poi in cui basta un follower in più per scatenare gli ormoni dell’onnipotenza, noi disinfluencer ce li abbiamo proprio tutti contro. Per disinfluencer intendo ovviamente coloro i quali, giustamente consapevoli di non aver bisogno di pareri di terzi se non quelli della propria moglie che tanto non cambieranno certo opinione alle soglie della terza età, sfuggono alle discussioni anche se un po’ si meravigliano che il resto del mondo non solo abbia convinzioni differenti, ma nemmeno non ascolti le mie, pardon, le proprie o le sue, insomma le idee di quei “coloro i quali” soggetto di questo costrutto in cui mi sono arenato. Il problema è quest’epoca di -ismi di seconda scelta, ché quelli fighi ormai sono già tutti occupati e anche se un po’ retro c’è chi continua a non farne scadere il dominio. Oggi vi dovete accontentare dei movimenti di grillo, dei vegani, dei complottisti e dei testimoni di Geova, giusto per citare quelli dalla fanbase meno scopabile come diceva questo articolo qui. Pensate per esempio alla superiorità morale di chi non pasteggia a salamelle e mortazza. A me fa venire voglia di caricare mucche e maiali sui camion dei viaggi della morte, per esempio, anche se poi mi spiace vedere il panico negli occhi dei miei amici animali e farei volentieri cambio con questi terroristi degli appetiti altrui. Ci sono persino quelli che ti schifano se sprechi l’acqua della pasta e non ci lavi i piatti zozzi dentro. Che vi giuro che ci ho provato, perché a me piace comunque conoscere le usanze di quelli più intelligenti di me, però a me il risultato è venuto inqualificabile e ho dovuto caricare la lavastoviglie e rifare tutto da capo.

Ora, senza tirare in ballo i grandi colossi ideologici del nostro tempo come le religioni monoteiste o l’heavy metal o il filone tatuaggi/fantasy, l’internet come il posto di lavoro ma anche le sale d’attesa del dottore pullulano di insegnanti di ruolo di via, verità, educazione e condotta generica. Mi è capitato persino di leggere un panegirico sul fatto che è giusto dare gli smartcosi in mano ai figli perché così poi possono addirittura intensificare il rapporto con i genitori e scriversi carinerie con uazzap e signora mia che sfigati quelli che leggono ancora i libri di carta, che poi i bambini crescono analfabeti digitali e non cercano di emulare i gesti del touch su ogni superficie liscia sottomano. Avete presente, vero, quegli estremisti del digitale che ti si rivolgono drill-down con il loro verbo zeppo di storpiature anglofone. Che poi uno potrebbe anche pensare male che magari i colossi della telefonia pagano persone così per scriverne e parlarne bene e magari convincere qualcuno che passa di lì per caso o che si incontra al bar che il progresso è tutto grasso che cola, ma sapete meglio di me che è pubblicità anche questa come quei medici sponsorizzati dalla Camel che negli anni 60 e rotti negli USA dichiaravano che le Camel erano meno nocive di altre sigarette. Insomma da una parte penso che non stare ad ascoltare il prossimo sia un po’ da zoticoni campagnoli come quegli anziani che fanno di testa loro fino alla morte. Dall’altra poi quando provo a dare una possibilità alla gente e dico vediamo se ci sono posizioni più convincenti della mia, alla fine rimango sempre deluso. Sì, probabilmente sono uno zoticone campagnolo anche io. Comunque dai prezzi modici, se vi interessano le ripetizioni.

il quinto dei fantastici quattro

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Ci sono quelli che a sfiorare le persone vanno in trance e vedono il loro passato. Anche io a mio modo sono un sensitivo. Quando sto vicino alle persone percepisco odori che vorrei essere meno sensitivo, da questo punto di vista. Io non so se capita anche a voi, a me succede forse perché ho un naso sovradimensionato e tutta questa superficie di interfaccia con il mondo esterno ne amplifica la percezione. Ma se così fosse, avendo anche le orecchie piuttosto grandi, dovrei sentire a metri di distanza e invece ho perso qualche frequenza, e se così fosse no scherzo, volevo fare una battuta ma non vorrei sembrare troppo grossolano, non più di quello che sono ecco. Comunque sento gli odori credo più degli altri, perché ogni tanto faccio quelle espressioni come se stessi per vomitare dalla nausea e vedo intorno tutti tranquilli che continuano con i loro tic tic su mouse e tastiera come se fosse tutto normale. Esco la mattina di casa e mi inonda il profumo della mia dirimpettaia che un giorno vorrei farvelo sentire, perché è uno di quelli molto di moda e molto particolari, come quando ero ragazzino e c’era il Patchouli e tutte usavano questo Patchouli che non capivo mai come si pronunciasse e dicevo Paciulli anche se sembrava una specie di parolaccia. Quando mi trovo poi in ambienti nuovi con persone che non conosco lì è un grosso problema perché è difficile anche associare odori – piacevoli e non – con persone, tanto che a volte cerco di chiedermi se sono io la causa di una improvvisa manifestazione olfattiva. Provo a snasare la pelle, i vestiti, apro la borsa per vedere se ho dimenticato qualcosa di dubbio dal giorno prima. Dicono che i propri odori non si sentano più tanto siamo abituati, ma credo che quando il nostro corpo ne genera di nuovi quelli ci sorprendano ancora. Magari ti salta un’otturazione e ti meravigli di quello che una bocca – la tua – può causare. Ma in definitiva sono consapevole che questa specie di superpotere non sia un vantaggio, lo sapete che i grandi paragnosti della letteratura e dei fumetti soffrivano molto della loro condizione e avrebbero barattato il costume da ragno o la vista a raggi x con qualcosa di più alla loro portata, come saper cambiare i sacchetti dell’aspirapolvere o cucire i bottoni sulle camicie. Non per vantarmi, ma ho usato due esempi in cui sono un fuoriclasse. Nel mio piccolo, cerco di tenere un qualcosa a portata di mano da mettermi con nonchalance su naso e bocca quando vengo preso alla sprovvista, e cerco di indovinare nel minor tempo possibile la persona da cui stare alla larga e comunque mi allontano. Parto sempre dal presupposto che la causa sia la mia pelle così, se poi è vero, tanto meglio per tutti.