tutto si aggiusta

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Converrete con me che la figura dell’uomo di fatica esiste ancora. Siamo noi, e siamo in tutte le case. Mariti, compagni, conviventi che comunque quando c’è da sgobbare siamo per forza di cose chiamati in causa perché i lavori pesanti, alla fine della fiera, spettano sempre a noi. Ci pensavo stamattina alle sette mentre guidavo e mi restavano ancora più di tre ore di strada dopo aver passato una notte pressoché in bianco per un mix di tossi diffuse altrui  ed esuberanza felina e mentre crollavo dal sonno ma dovevo sforzarmi per portare la mia famiglia nel luogo di villeggiatura stabilito – una nota città d’arte italiana – la mia famiglia si era già addormentata e mi aveva lasciato in quel duro compito di non cadere nella tentazione di un fatale colpo di sonno. Loro dormivano tanto c’era chi guidava ed era naturale che fosse così. L’uomo è al volante sempre, in ogni situazione e quindi anche in senso metaforico. Perché capita ogni tanto di chiedere a tua moglie di lavare cortesemente i piatti mentre devi per forza controllare se si sono aggiunti nuovi follower al tuo profilo di Twitter. Oppure se non le pesa cambiare la lettiera dei gatti perché non puoi assentarti dal flame che stai seguendo sul tuo social network preferito. A me è successo, per esempio, di sottrarmi al tradizionale cambio degli armadi di stagione ma solo perché non avevo ancora ultimato un post per questo blog. Ciò non toglie, però, che le nostre consorti sentano come dovuto l’affibbiarci ogni scocciatura che secondo loro ci spetta di natura. Fare buchi con il trapano. Portare continuamente cose giù in cantina o in garage, per poi riportarle su qualche mese dopo perché occorre portare giù le altre che la volta prima avevate portato su. Togliere le tende e riallestirle dopo che sono asciutte. Per non parlare degli interventi sul pc di famiglia, già perché noi uomini siamo tutti periti informatici (e allora voi donne siete tutte cuoche? Eh?) e forniamo help desk 24 per 7, e ci spetta anche tutto ciò che è soggetto a un funzionamento meccanico. Dall’apribottiglie al motore a scoppio passando per serrature, giocattoli dei bambini e rubinetteria. E questi sarebbero i lavori di fatica, sento già mormorare le voci inquisitorie al di là dello schermo. No, però i trasporti pesanti li ho omessi in quanto sono un dato di fatto. Sposta il tavolino lì, la libreria sta meglio là, la cameretta potremmo rivederla perché il lettino è vicino a una parete esposta a nord. E noi a rimboccarci le maniche come quegli energumeni delle imprese di traslochi. Quando ce ne staremmo molto più volentieri spaparanzati a leggere il nostro romanzo preferito malgrado tutti quei rumori di aspirapolvere e lucidatrici. Ecco, la parità dei diritti dovrebbe essere un po’ più pari ma dalla nostra parte. Altro che.

in parole povere

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La piazza che si lascia inquadrare dalle telecamere e intervistare stupisce per la semplicità che rasenta l’analfabetismo, per non parlare del contrasto tra umiltà di condizione e mancanza della stessa da un punto di vista caratteriale che l’esasperazione giustifica solo in parte. Probabilmente le trasmissioni di attualità mirano a mostrare il peggio, i casi più sofferenti, le storie più drammatiche. Dall’altra parte, la classe politica che parla risalta per preparazione dialettica, capacità di analisi, citazionismo colto, intelligenza sociale. Attenzione, non sto dicendo che una sia meglio dell’altra né sto esprimendo un giudizio morale. Mi sembra solo che lo scollamento sia sempre più ampio, altro che digital divide, non mi stupirebbe che antipolitica e sfiducia nei partiti siano maturate proprio a causa del fatto che, dal basso, certe cose nessuno le capisce. Ma a partire proprio dal linguaggio. Dalle parole. Ci sono studi che dimostrano la scarsa attitudine degli italiani alla comprensione dei testi, giusto? Testi semplici di taglio informativo o narrativo. Figuriamoci discorsi propagandistici con speculazioni sui massimi sistemi. Ecco così che i temi diventano le imprese che chiudono, i disoccupati, i soldi che mancano per la cassa integrazione, i giovani e i loro contratti farlocchi perché fanno breccia. Ma nemmeno questi sono argomenti condivisi. Nei carrelli dei centri commerciali, negli abitacoli delle macchine di lusso, nei ristoranti eat all you can, nei villaggi all inclusive non se parla. Sotto questo ceto povero dentro ma tutto sommato benestante fuori per sotterfugi e imposte non pagate c’è un seminterrato di povertà che non protesta per Rodotà o chi altro perché non sa nemmeno cosa stia succedendo. Il totale di questa enorme porzione sociale lo si trova in quella metà di italiani che non votano, alcuni per protesta, altri perché non ne comprendono l’utilità ai fini pratici del tornaconto in beni posseduti o, nei casi peggiori, della sopravvivenza. Un giorno arriveremo a parlare due lingue diverse ma in senso proprio, sarà impossibile capire l’italiano dell’informazione da quello dell’entertainment, Internet compresa. Si tira in ballo il populismo ma giustamente qualcuno cerca di fare da interprete tra politica e gente, d’altronde se si depotenzia l’istruzione e la cultura non ci sono alternative e non è nemmeno giusto chiedere alla politica di adattarsi diversamente. Non ne sarebbe capace.

ripararsi dalle intemperie

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Il luogo comune delle mezze stagioni ormai è un dato di fatto, è innegabile, quindi dovremmo tutti impegnarci a rimuovere questa patina di pour parler da chi esprime considerazioni su ciò e, anzi, riconoscere la profondità e l’autorevolezza di chi lo sostiene. Oltre al coraggio di impostare una conversazione sul tema dei repentini cambiamenti climatici dal freddo al caldo e viceversa, oggi che tutti fanno finta che non ne possono più di quel genere di battute tipo qui era tutta campagna eccetera perché sotto sotto ridiamo, siamo attratti dall’infantilismo e una prova tangibile è stato il successo di una canzoncina del menga come quella di Tricarico e della sua maestra – vi ricordate? – solo perché il testo conteneva una parolaccia. Ma se effettivamente ci siamo giocati primavera e autunno e relative sfumature, il danno maggiore consiste, secondo i più, nell’aver reso inutile una cospicua porzione del nostro guardaroba che, a dirla tutta, era la preferita di molti. Me per esempio. I capi di abbigliamento di mezza stagione sono quelli più comodi perché né troppo pesanti e né troppo leggeri. Sono quelli meno vincolanti negli abbinamenti, stanno su tutto, consentono molteplici combinazioni. Posso portare l’esempio delle giacche di pelle, quelle che mia nonna additava come l’uniforme da debosciati perché piuttosto equivoche. Io ne avevo più di una, un tempo nei negozi di roba usata te le tiravano dietro. Peccato che questi, come altri capi tipo i giubbotti di velluto, le casacche militari, i cappottini di lana, sono diventati ormai merce superflua che occupa spazi utili all’economia familiare, da destinare per esempio all’abbigliamento dei figli dismesso da altri e ricevuto in omaggio provvisorio per una catena infinita di ricicli sotto il profilo dell’economia domestica, prima di una coscienza ecologica. Sì, capitano quei due o tre giorni in cui ci è concesso di indossarli, in cui occorre incrociare le condizioni atmosferiche con l’occasione. Per esempio non ci si veste da debosciati per andare in ufficio, soprattutto se si vira verso i cinquanta. Allo stesso modo non è  possibile conciarsi così con la famiglia, insomma bisogna darsi un contegno. Poi ecco che si presenta la situazione perfetta ma nel frattempo è arrivato un caldo boia e a mettersi una giacca di pelle ridono i polli e i figli di Apelle che giocano a palla. Quindi nulla, si aspetta la successiva mezza stagione che ancora non non ti sei convinto che non ci sono più, come te lo devo far capire, lo dice persino la saggezza popolare. Per non parlare dell’impermeabile. Io non lo possiedo ma una volta, verso i vent’anni, ne avevo uno bellissimo e grigio che indossavo quando minacciava pioggia ed era perfetto da marzo a fine aprile. Due mesi buoni con il trench che nemmeno nei film americani anni ’50, ci mancava giusto il borsalino. Ora mi sembra che la moda maschile non lo contempli più, ma forse perché non c’è più tempo per l’impermeabile, passi dal piumino che è impermeabilizzato alla giacca leggera e se piove amen. Ne ha però uno bellissimo mia figlia, beige e molto di classe, lei poi è alta e le sta benissimo. Anzi, sembra molto più grande, direi troppo. La osservo qualche secondo prima di uscire di casa per andare a scuola, vestita con il trench, e penso che non solo non ci sono più le stagioni di mezzo ma probabilmente nemmeno le età.

sogno ribelle

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Ogni generazione ha la sua cultura da strada, chiamiamola così, che fa presa su una larga fetta di giovani e diversamente adolescenti. Il bisogno di anticonformismo ordinario che va dal manager con suoneria dei Clash al maestro elementare che frequenta i rave è una testimonianza della doppia vita che resta latente in ciascuno di noi, ma si fa presto a considerarlo una valvola di sfogo alle presunte costrizioni della vita odierna, con cui è più facile fornire una giustificazione. Ma il punto è capire da dove nascono, in quale momento nei remoti anfratti della nostra vita. Voglio dire, ci gettiamo alle spalle i primi anni di appartenenza al genere umano per fare di tutto per distinguerci omologandoci con ciò che è di moda, per non far parte di quello che il senso comune fa passare come di moda. Pensate al controsenso con cui si conducono le esistenze. Non penserete vero che giocare agli afroamericani del ghetto o ai punkabbestia nomadi sia uno spin off della società, vero? È la stessa cosa, baby, tutto è calcolato, ogni deviazione ha un suo canale youtube di riferimento o una sua community di hacker che ne infrange le regole – che a loro volta ne infrangevano altre – per una catena infinita di derivativi che poi, alla fine, uno si stufa anche e arresta il sistema. Ma se ci riferiamo all’aspetto più alla luce del sole di tutto questo, evidente malgrado i protagonisti se ne stiano ben nascosti a provare balletti corali negli androni sovradimensionati delle metro o nei loro ritrovi da addetti ai lavori sognando comunque che passino punti di riferimento del calibro di Maria De Filippi o dei suoi amici, ci attrae oltremodo la curiosità che spinge sempre nuovi adepti tra le braccia di questo consumo apparentemente sotterraneo di cultura alternativa. Da sempre, perché anche chi vi scrive ha i suoi trascorsi e i suoi scheletri nell’armadio. Se mi posso permettere, però, il sedicente rap e quel tipo di cultura lì che impiastra i vagoni della metro, oltre ad aver rotto un po’ il cazzo ha altrettanto sparigliato le carte perché così di basso livello (sempre nel senso informatico, ovvero di vicinanza al linguaggio macchina ma voi intendetelo un po’ come volete) da aver pervaso tutto trasversalmente. Ve la ricordate, vero, la metamorfosi dello specifico da CSOA, quando dall’hardcore si è passati alle varie posse. Nel frattempo tutto è diventato hip hop ma lo era già vent’anni fa quando un ragazzino dei quartieri popolari che aiutavo a studiare aveva la sua ghenga con i saluti che nemmeno Spike Lee e scriveva sul suo zaino Invicta i motti più arguti degli Articolo 31. Pensa te. E pensa te ora, con le bande di latinos e i nordafricani e gli italiani di periferia al confino che inneggiano a Fabri Fibra. Vedete, poi tutti mirano al contratto con le major mentre dall’altra parte gli utenti disagiati pensano di mettersi in fuga da tutto ciò che è commerciale ma non sanno che fanno parte di un target su cui molti brand sono già appostati e pronti a lanciare le loro esche. Ecco, proprio Fabri Fibra di questi tempi è seguitissimo tra i più giovani e si dice anche che sia il miglior rapper in circolazione. Che poi non fa rap, lui è uno che straparla sulla musica. Voglio dire, i rapper sono altro, Caparezza per esempio, molto bravo a scrivere testi in rima pieni di metafore e recitati alla velocità della luce. Fabri Fibra parla a tempo sui suoi pezzi, e se lui è un rapper allora lo sono anche gli Offlaga Disco Pax. Dimostratemi il contrario.

scoop

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Comunque io mi chiamo Roberto, molto piacere. Mi chiamo Roberto come il novanta per cento del genere umano di nazionalità italiana di sesso maschile della mia generazione. Intorno alla metà degli anni 60 Roberto doveva essere uno dei quei nomi di moda o magari c’era qualche personaggio in vista che si chiamava così e tutti i genitori pensavano che dargli lo stesso nome potesse essere di buon auspicio. Vi risulta? C’è qualche studio nell’Internet sulla antroponomastica di massa? Sta di fatto che dalle mie parti c’è stato un periodo quando ero ragazzo e frequentavo i miei coetanei in cui chiamavi Roby e si giravano in venti in un colpo solo. Un amico mio omonimo e il sottoscritto c’eravamo addirittura inventati un programma radiofonico in cui tutti si chiamavano Roberto. I due presentatori, lui e io, gli inviati a raccogliere finti servizi sul territorio, ancora io e lui. Ci sembrava una buona idea da proporre come format a qualche emittente locale. Ci siamo persino incontrati una volta per mettere a punto la puntata pilota con tanto di mixer e registratore. Ma lui aveva un po’ di erba e alla fine abbiamo desistito perché non la smettevamo più di ridere e ci toccava rifare sempre tutto da capo. Fino ad ammettere che l’idea non era granché, meglio archiviarla tra gli ennemila progetti lasciati a metà, anzi meno della metà.

Poi per fortuna la moda di chiamare Roberto è passata, chissà quanti altri trend di questo tipo sono nati, hanno raggiunto il top e quindi tramontati nella severa quanto giusta indifferenza generale. Ma, come tanti altri, vedete che anche i miei genitori si sono fatti omologare dal mainstream e dal momento che cercavano un nome che iniziasse per erre e che completasse la trilogia con le mie sorelle maggiori battezzate con la stessa iniziale hanno pensato a Roberto. Non immaginate quante volte mi sono reputato salvo per miracolo, pensate se avessero scelto Romualdo o Rodomonte o Rastrello. Scherzo eh, che visto come tira il momento vedo già frotte di commentatori che si chiamano così offesi solo perché il loro nome non rientra nei miei gusti. Sì, lo so che rastrello non è un nome proprio ma mi faceva ridere.

Ecco, il nome che è una cosa che volente o nolente ti porti dietro tutta la vita e oltre, perché come se non bastasse arriva il momento in cui te lo scrivono a indicare che in quell’urna è stato raccolto quel poco che è rimasto di te. Ma il vostro nome, se ci fate caso, alla fine quando lo usate? Ok, nei documenti ufficiali, a volte ma non sempre per compilare i form, nella firma, per farvi riconoscere quando occorre. Per il resto ci firmiamo con l’iniziale puntata, come R., oppure con un diminutivo. Io ho scelto Rob, lo uso in calce alle email e non chiedetemi il motivo che non so spiegarlo. Sul lavoro nessuno mi chiama Roberto perché è un nome lungo, credo, o forse perché non mi somiglia e così tutti usano Bob, o Bobby, o addirittura Zio Bob che non so come sia venuto fuori. A scuola sempre per cognome che però non vi dico, mica voglio mettere a rischio la mia privacy on line che già ho rivelato il mio vero nome. Ma perché ci si chiude dietro a nick, poi. Perché si sceglie l’anonimato? Chi crediamo di incuriosire con il mistero di una sequenza alfanumerica come la mia, o con nomignoli evocativi per farci sentire nelle discendenze di qualcos’altro?

In casa mi chiamano papà, papo, per non parlare di tutti i teneri modi di rivolgersi tra partner che ci si potrebbe scrivere un dizionario. Anzi, quando mia moglie pronuncia per intero il mio nome mi suona strano ma non è come nei film che bisogna stare all’erta perché si è agitata per qualcosa. No, lo fa per gioco, per sentire come suona il mio nome con tutte quelle erre, un nome di sicura provenienza germanica. In quel caso mi sento un estraneo, non so se capita anche a voi se avete nomi formati da più sillabe. Devo fermarmi a pensare se davvero si sta rivolgendo a me, a furia di sigle e nick forse è un nome che non mi appartiene più. O forse è solo che nell’era degli indirizzi IP il nome è superato. Comunque io mi chiamo Roberto, molto piacere.

opportuno

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– E così sei tu il laureando. Ci sarà tanta claque oggi alla discussione della tua tesi?
– No, solo mio nonno e la mia fidanzata, che mi seguirà in streaming dalla Francia.
– Come? E i tuoi genitori? Non vengono?
– No, sono orfano.
(da “Le grandi gaffe di Plus1gmt, vol. 2″)

più governo dell’altro

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Se non ne potete più di questo stallo e di questa stalla politica in cui giace quel mostro tricefalo di cui nessuno sa che farsene, fate come me. Lanciate un appello. Il governissimo sembra non essere una strada percorribile, il perché è abbastanza evidente. Sancire il primato della democrazia con un superlativo assoluto non rientra negli standard delle istituzioni occidentali. Che almeno si allestisca un qualcosa che sia più alla portata del popolo italiano, uso a compromessi. Che poi la politica è il compromesso per eccellenza. Quindi potremmo ridimensionare l’obiettivo, per esempio anelando al più governo del dopoguerra. Anche se relativo, si tratta pur sempre di un superlativo. Fermo restando che – alla peggio – si possa ripiegare su un mediocre comparativo e si faccia un governo più efficiente dell’altro governo, per esempio quello prima per attestare il nuovo esecutivo almeno al grado di qualificativo neutro che è sempre meglio di negativo e squalificante, come era il penultimo che speriamo davvero non torni più.

piove, governo di larghe intese

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Mentre il mondo cade a pezzi (cit.) ora che a tutti sembra di aver perso definitivamente la lotta contro il tempo – it’s just a question of time, cantavano proprio quei Depeche Mode su cui ci siamo soffermati ieri – c’è chi alza l’asticella del’ostacolo, sposta più avanti il pallino, si pone nuove sfide da cogliere e vincere. Luca Zaia – sì proprio quel Luca Zaia – qualche giorno fa è infatti sceso in campo contro le previsioni dello stesso, dove il tempo è chiaramente inteso nella sua accezione meteorologica ma il calembour funziona ugualmente. La notizia è che per una volta mi sento di concordare con un leghista. Lo so, un giorno pensi che gufare pioggia faccia più danni al turismo che un arredamento della nonna povera spacciato come percorso di ritorno alle radici della tradizione popolare, quando poi si scopre che chiudere i confini culturali all’Ikea è solo il braccino corto nel non voler investire nemmeno il minimo sindacale per quelli che soggiorneranno nella tua catapecchia che spacci come antica edilizia marinaresca. Dicevo che una volta pensi così e il giorno dopo ti ritrovi a Pontida con le corna. Nel senso di quelle artificiali e vichinghe, cosa avete capito. Ma alla fine quella delle previsioni del tempo è la prova che ci bulliamo tanto della nostra escatologia materialista e poi, alla resa dei conti, cerchiamo solo certezze e nel modo più ordinario. In questo vuoto cosmico, sociale, culturale e politico, gli oracoli più o meno istituzionalizzati che ci avvisano con lauto anticipo se prendere o no l’ombrello o se è meglio starsene a casa anziché mettersi in viaggio alla fine sono quelli che ci azzeccano di più. E non è solo il tempo che fa domani. Riescono a indovinare se sarà coperto venerdì prossimo, sanno già che le piogge termineranno il quindici, e uno può regolarsi. Ma oramai dovremmo aver imparato che mettere in mano all’uomo l’arte divinatoria è un guaio perché ne fa un uso scorretto quanto compulsivo, e l’avere il controllo del futuro non è certo un dono per noi mortali. Ce ne accorgiamo in queste settimane, mentre ne abbiamo i coglioni pieni della pioggia e delle nuvole che siamo già ad aprile inoltrato e ci chiediamo che fine abbia fatto la stagione che tutti aspettano tutto l’anno. Che poi, anche lì, bastava saperlo subito che era così semplice che uno magari ci pensava prima. Voglio dire, se al genere umano sono sufficienti delle prove concrete e tangibili per abbracciare in toto una disciplina come quella del colonnello Bernacca, bastava che Gesù mettesse in atto miracoli più demagogici e populisti come stilare un calendario delle condizioni meteo dei successivi tre o quattro anni che sai quanta fede in più si sarebbe guadagnato. Per non parlare della potenza dei nuovi media. Ai tempi del carta e dei mezzi analogici c’erano solo quelle due o tre certezze che andavano a sommarsi alla saggezza popolare dei calli, delle torsioni dei gatti, dei voli dei gabbiani e cose così. Per esempio era matematico che se a Savona c’era nuvolo potevi stare sicuro che a Genova pioveva, vice versa se a Genova faceva freschino a Savona belin si muoriva dal freddo. Ora è tutto così scontato, accendi la tua app per avere la dimostrazione che la tecnologia controlla persino il tempo. Almeno in quell’accezione lì. E uno si chiede allora perché non i terremoti – come del resto fanno già grillini e stellari – e le altre catastrofi bibliche. Le cavallette. I maya. Ma che ne sappiamo noi di cosa ci riserveranno i giorni a venire, al massimo possiamo sapere fino a quando i vestiti leggeri sarà meglio tenerli ancora nell’armadio. Io però ho una spiegazione su questo prorogarsi della brutta stagione a discapito dei tepori primaverili. Secondo me è tutta colpa della situazione politica, è una sorta di presagio di tempi bui, grigi, duri, che ci aspettano dietro l’angolo se gente del calibro dei cinquestellari avrà la maggioranza. Secondo me è un segnale, è la natura che si ribella alla nostra ignoranza che mentre chiediamo gli autografi a Ruby dinanzi al tribunale di Milano ne gridiamo di ogni alla Boldrini che partecipa ai funerali, rea di rappresentare uno stato che hanno voluto quelli che la stavano fischiando, votando i governi precedenti che hanno peraltro avallato la parentela altolocata della Ruby di cui sopra. Ecco, in questo bailamme che vede scenari che vanno da Grillo a Berlusconi, la natura ci avvisa. Continuate così e avrete solo tempi di merda.

all’oscuro di tutto

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I vetri neri o, meglio, fumé, di cui numerose vetture al giorno d’oggi sono dotate mentre, se non erro, fino a poco tempo fa si trattava di un optional vietato per ovvi motivi di supremazia della sicurezza pubblica sugli isterismi da privacy a tutti i costi, oltre a essere un provvedimento peraltro che imponeva una soglia di buon gusto a bilanciare le scelte estetiche in fatto di macchine degli italiani, hanno tolto ai nostri figli l’insuperabile piacere di fare le boccacce a quelli che ti superano ostentando il turbo, i cavalli e le dimensioni di carrozzeria che tanto piacciono ai nostri connazionali. O meglio si tratta di un divertimento che può essere mantenuto in auge, ma senza sapere a chi sono dirette le pernacchie non c’è più gusto. Senza contare che al di là del vetro nero, che prima poteva solo celare gente del calibro di Emilio Fede, starlette in odore di successo o entrambi nello stesso abitacolo, oggi l’anonimato può nascondere un team di muratori rumeni pronto a far pagare a te, in quanto padre responsabile del comportamento dei tuoi figli minorenni, il costo di tanta insolenza. Che poi non è detto che siano solo i muratori rumeni a dotarsi di equipaggiamento trendy come quello o come quel modo di verniciare in rilievo le vetture che, ragazzi, non si vedevano cose così tamarre dai tempi dei led sulla Lancia Delta Integrale.

Trovo invece che mostrarsi trasparenti ai vicini di coda sia comunque non solo una forma di cortesia, perché la chiarezza può riservare sorprese. Ricordo quando vidi tre quinti dei Matia Bazar fermi quanto me lungo un viadotto dell’Autostrada dei Fiori, questo prima dell’arbitrario e infrangibile oscurantismo con cui si è deciso di mettere al riparo i propri famigliari dagli sguardi indiscreti. Tanto che io e un amico volevamo brevettare dei pupazzi da mettere in macchina, tipo quei dummies di cui le copertine di bignami uno punto zero sono pieni, però con l’effigie di personaggi celebri del momento. Pensavamo di chiamarli “i compagnoni”. Mica male, eh? Ora, per dire, andrebbero a ruba Casaleggio, il nuovo papa, Di Canio che sfodera il saluto nazifascista. Te li metti in auto, parti, e stai sicuro che puoi attirare così tanto l’attenzione che chi ha i vetri fumé si pentirà di non poter fare altrettanto.

tarallucci e vino

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Una delle armi più efficaci dei buoni commerciali è sapersi intrattenere con i prospect – i potenziali clienti – per riuscire a girare intorno al nocciolo della questione che è vendere, indipendentemente da che cosa, senza andare diretti al punto e apparire così sfrontati in eccesso e turbare la sensibilità con la mancanza di delicatezza. Per questo i buoni commerciali non dovrebbero essere delle bestie da fatturato e basta o, per lo meno, darlo a vedere il meno possibile mascherando il tutto con modi e buone maniere tali da conquistare la fiducia tanto da essere complementari al valore del prodotto da piazzare almeno fino a quando non si risale in macchina al riparo con la firma sul contratto e oltraggiare a piacimento le proprie prede bullandosi del successo con i propri colleghi guidando verso casa, rigorosamente via bluetooth. La fuffa esige però una capacità di convincimento sovrumana mentre per le cose effettivamente funzionanti basta poco. Nel mezzo c’è la vastissima gamma delle botte di culo di trovare nel minor tempo possibile i punti in comune con chi si ha davanti e sfruttarli per aprire un canale di persuasione. A volte scatta la scintilla e a volte no, un po’ come in amore. Solo che in affari se non si riesce a far innamorare nessuno non esiste l’equivalente del solo sesso o, peggio, del piacere a pagamento. Sul lavoro se non raggiungi la quota dopo un tot di occasioni sei fuori. Ciò impone a questi professionisti del portare a casa il risultato di saper intrattenere conversazioni su un po’ di tutto, avere argomenti con cui creare la confidenza con le persone in momenti in cui si deve ostentare disinteresse al business, come a pranzo con le gambe sotto al tavolo. In generale, come si può immaginare, ci sono temi standard con cui è facile scambiare un parere, perché anche il cosiddetto più e meno segue le mode del momento. Con l’enogastronomia mai come di questi tempi si corrono rischi, probabilmente perché il genere umano, nel nuovo millennio, in carenza di certezze si butta sui piaceri più rassicuranti e riempire la pancia a garanzia dello svolgimento di tutte le altre funzioni è indubbiamente un fattore di conforto. Voglio dire, basta accendere la tv per trovare su un canale qualunque qualcuno che spignatta o valuta pietanze preparate da altri. Avere competenza in fatto di vini o di preparazione di piatti da chef, poi, per molti è sinonimo di classe e raffinatezza il che, se ci pensate, è un controsenso perché si tratta di piaceri primordiali, di sostanze che poi all’interno del nostro organismo si trasformano sino allo stato meno nobile di tutti, quello che poi viene espulso in un modo o in un altro. Tutto questo per dire che, con me, i commerciali cascano male perché non mi intendo di nulla di tutto ciò. Bevo vini da supermercato e considero l’alimentazione poco più che fare benzina prima di mettermi in viaggio. Una volta un venditore di un noto aspiravolvere, appena aperta la porta di casa mia, ci mise davvero meno di un secondo nel trovare un argomento per rompere il ghiaccio. Tanto di cappello. C’era una copertina di un disco di David Sylvian sul tavolo, che lui scambiò per il tastierista dei Duran Duran. Non sarebbe riuscito a convincermi comunque, ma come potete immaginare la conversazione fini così. Non sempre le cose vanno come uno è abituato a condurle.