un po’ di ossigeno

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Ero tutto gasato perché pensavo di avere una teoria, per oggi. Volevo invitarvi a fare come me e a gettare dalla finestra tutta l’opera di Bauman perché basta guardarsi in giro e vedere che della società liquida non resta quasi più nulla. Anzi, inutile guardare perché non si scorge niente perché siamo in piena società gassosa, il gas non si vede ma si sente, eccome, ed è per questo che ero tutto gasato come recita l’incipit di questo contributo. Volevo dirvi che i legami già deboli che uniscono le molecole della materia allo stato fluido sono andati a farsi fottere e siamo belli che evaporati. Proprio così. E V A P O R A T I. Provate a toccarvi, ma non da soli, toccatevi l’un l’altro tanto nessuno sente più nulla. Siamo dispersi e prendiamo la forma dei nostri contenitori. Per esercitare una forza ci vuole un volume al di fuori dalla nostra portata. Non riusciamo nemmeno a premere i tasti di un portatile, meglio così perché non ci saranno più impiegati costretti a feroci operazioni di data entry per normalizzare informazioni destrutturate secondo format imposti dall’azienda che li ha indotti in schiavitù e permessi non retribuiti. Basta maschere con nomi e numeri, basta e-mail protocollate da uffici tecnici per esercitare il controllo che qualunque bit esca fuori da lì sia di lavoro e di nient’altro non consentito. Siamo così eterei che ci incontriamo contemporaneamente in più punti e facciamo condense con questo e quello, ci mescoliamo pure con brandelli di grillini sublimati chissà come. Tutti verso l’alto perché siamo caldi, almeno noi italiani, ché solo noi possiamo operare scelte così e sapete a cosa mi riferisco. Ma per farla breve ero tutto gasato perché pensavo di avere una teoria, per oggi, la teoria della società gassosa e invece no. Non perché non ce l’ho, ma se la cercate con Google c’è già tutta una letteratura che ignoravo e poco male, non voglio essere originale a tutti i costi ma volevo solo sparpagliarmi per l’immensità per poi ricompormi a proiezioni finite, dopo martedì, per capire quale in quale stato della materia rifugiarmi. Anzi, in quale Stato e basta. Così brevetto per primo la società gazzosa, siete testimoni, che suona più come una start up e, tutto sommato, dà un po’ di ristoro se, come me, siete nel panico pre-elettorale.

cinque a uno

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Trovo che uno dei momenti più emozionanti dal punto di vista umano e sociologico durante le mie esperienze di shopping o acquisti in genere sia quel lasso di tempo circoscritto in cui porgo la carta per l’acquisto elettronico, l’inserviente la inserisce nell’apposito slot del dispositivo POS di sua competenza e mi si invita a procedere con l’inserimento del pin, che è poi il fine ultimo per cui esiste il commercio, l’economia, il marketing, la pubblicità e tutto ciò che concerne lo spostamento di beni da una proprietà a un’altra. Ciò che consente loro di portare a casa un guadagno e a noi di trovare una nuova voce di uscita dell’estratto conto. Mi spiego meglio.

Avete mai notato cosa fanno commessi, negozianti e cassieri dopo che vi hanno porto (è “porto” i participio passato di porgere, vero?) il trabiccolo con la tastierina numerica per finalizzare l’acquisto? Perché quello è un momento di massima privacy, come quando siete in bagno e dovete scaricare l’urgenza del momento e bisogna far di tutto per tenere la porta chiusa o, se siete maschietti come me e usate quegli incivili raccoglitori a muro di liquidi, è bene stare con gli occhi rivolti davanti o o al massimo osservare il proprio coso perché guai a guardarsi di lato. Come quando siete nella cabina elettorale a mettere la croce sul Partito Democratico (vero che la metterete?) e nessuno deve essere lì a fianco ad osservarvi perché è tutto segreto ed è una cosa che non ho mai capito. Il fatto che la politica sia quasi più tabù di cosa fai e con chi lo fai sotto le lenzuola è uno dei drammi del nostro secolo. Insomma, tutte quelle cose che per una sorta di ipocrisia mascherata da rispetto dell’intimità altrui impongono ai più di voltarsi dall’altra parte. L’istante in cui le dita digitano le cinque cifre del numero magico che apre il canale attraverso il quale, secondo la teoria dei vasi comunicanti, l’erogazione di liquidi prosciuga il nostro conto corrente e ingrossa il portafogli del venditore più o meno al dettaglio.

Ed è lì che l’inserviente rivolge lo sguardo altrove. Finge di leggere l’ultimo numero della house organ della Grande Distribuzione da cui è stipendiato. I commessi dei negozietti osservano fintamente interessati la gente oltre le vetrine. I benzinai simulano un check sul monitor della videosorveglianza delle pompe. I farmacisti si sistemano il camice e giochicchiano con la vostra Carta Regionale dei Servizi. Nemmeno se, spiando il codice, fosse possibile per loro a transazione eseguita comprarsi la macchina nuova con la vostra tessera magnetica o chissà che altro e restare impuniti. Io rispetto questo loro desiderio di mostrarsi rispettosi dei miei dati personali e li faccio contenti. Ho la mia strategia mnemonica per snocciolare il numero senza indugi e lo compongo forte della mia arte di stare sul palco, dietro alle tastiere, in piedi come quello dei Subsonica, con una mano sola. Tanta tecnica unita a una presenza carismatica. Eseguo il mio assolo e a quel punto la speranza che tutto fili liscio assale tutti. Il commerciante, l’acquirente e la coda dietro. Tutto a posto, finisce quasi sempre così. Io mi allontano lieto di questo siparietto che si consuma ogni volta che devo comprare qualcosa e pagarlo non in contanti. Probabilmente lo insegnano a scuola come agli Acto’sr Studio, perché non è semplice coprire l’ansia da prestazione di terzi facendo finta di nulla.

in pending

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Quindi ricapitolando ecco un veloce reminder per tutti sulle cose da chiudere a breve giro:
– chi vincerà il Festival di Sanremo 2013
– conclave, fumata bianca e nuovo Papa
– elezioni politiche
– elezioni regionali, Maroni e Finmeccanica

Mi raccomando teniamoci aggiornati.
A presto
Plus1gmt

sembrava un giorno come tutti gli altri, e invece

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Quando si dimette un papa è bene spegnere Internet.

abbasso il tre

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Ogni tanto rimprovero con la dovuta amorevolezza mia moglie e mia figlia perché in alcune occasioni non sono sufficientemente pazienti. Forse è il modo in cui viviamo, non noi della mia famiglia ma noi in generale, noi abitanti del mondo occidentale che siamo abituati ad avere risposte alle nostre ricerche in 0,14 secondi e rotti grazie ai motori di ricerca al fulmicotone e grazie a Internet. Grazie al pulsante on/off della tv, alle auto che non serve più a nulla dover lasciar scaldare il motore, alla canzone che ci piace che non dobbiamo più aspettare che prima o poi la trasmettano in radio per sentirla. I frutti di stagione che non dobbiamo più attendere la stagione, tanto è sempre estate o autunno o primavera o inverno da qualche parte nel mondo.

Questo accorciamento globale che ci fa sentire tutti come quella fatta di elastici che faceva parte dei Fantastici Quattro, ci allunghiamo e arriviamo subito ovunque. Con il pensiero, perché abbiamo il nostro prolungamento elettronico, anzi più di uno. Con le gambe, perché per compensare il fatto che abbiamo importato tutto il mondo in casa nostra per consumarlo tirandolo fuori fetta per fetta dal congelatore per poi passarlo nel microonde, ci sforziamo di fare ogni giorno quella rampa di scale che ci separa dalla nostra immobilità professionale e spesso precaria a piedi, addirittura facendo gli scalini due e due perché lo dice anche Elisir. Con le braccia, perché abbiamo ogni tipo di facilitatore che ci porge le cose e fa sembrare tutto più comodo, per non parlare dei telecomandi e le console tanto che ammiro a dismisura in modo con cui utilizza il dispositivo per il controllo della tv mia figlia. Lo tiene vicino al televisore, e quando vuole alzare il volume del suo cartone preferito perché di là facciamo baccano con le nostre discussioni su Bersani si alza dal divano, afferra il telecomando, lo punta verso la tv, alza il volume, ripone il telecomando lì dove l’ha preso e torna a sedersi sul divano. Ecco, è da lei che mi devo sforzare a imparare. È dai bambini che dovremmo prendere ripetizioni per non estinguerci nel giro di un paio di generazioni, consumati nella nostra fretta di anteporre il dopo al presente.

Non ci credete? Uno dei motivi per cui adoro il sabato mattina, bramo affinché arrivi al più presto e come tutti voi non cambierei il sabato mattina nemmeno con la più vantaggiosa delle dritte sulla schedina vincente, è che il sabato mattina è il momento in cui mi siedo allo scrittoio con mia figlia, dopo la colazione, e la assisto mentre fa i compiti. Io non so se sia giusto o sbagliato, mia figlia frequenta la quarta elementare e non mi sembra di ricordare che quando avevo la sua età mamma o papà mi dessero supporto nello studio. Che poi non è che l’aiuto, perché è bravina, anzi, posso dire che se la cava piuttosto bene e, per ora, le piace. Mi metto lì e la seguo mentre fa l’analisi grammaticale o le frazioni perché è anche un modo per stare insieme, stare vicini, crescere e condividersi, e  finché non mi chiederà di lasciarla in pace o manifesterà segni di insofferenza alla mia presenza me ne guarderò bene dal privarmi di quel momento di vero relax.

Perché i compiti sono un’attività che i bambini fanno mettendoci il tempo che occorre. Le operazioni vanno fatte passo dopo passo, e non c’è nulla che possa anticipare il risultato. Occorre arrivare fino alla fine, magari poi c’è da fare pure la prova e confrontare i due risultati per vedere se è tutto a posto. Le divisioni si risolvono così, cifra dopo cifra. Abbasso l’otto, il sette nel quarantotto ci sta sei volte con il resto di sei. Scrivo sei e abbasso il due. Un processo da seguire con una lentezza che è inevitabile, non assoluta ma standard e contro la quale non si può sperare di vincere. Come il tempo che l’acqua ci impiega a bollire. Un fagiolo nel cotone a spaccarsi per fare uscire la piantina. Per fare i compiti ci si siede a un tavolo in ordine, con tutto il necessario, e si costruisce a mano quel pezzo di esperienza, se non addirittura di conoscenza, che resta. Non è digitale, non è solubile, non è a effetto immediato, non è usa e getta, tanto meno in mater-bi e destinata a un riciclo fruttuoso. Ha una massa, un volume, esercita una pressione e prende la forma del contenitore umano che la circonda. La tocchi e ha la sua grana, la sua consistenza. Da quel momento la porti sempre con te. Ecco, fate i compiti con i vostri figli, perché sono loro che vi aiutano a rimettere in sesto tutte quelle cose che nemmeno pensavate vi servissero più. Sono ancora lì da qualche parte e si ricordano di voi perché voi, a vostra volta, gli avete dedicato il tempo necessario.

per più fiate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso

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Qualche tempo fa, a quella trasmissione della domenica con le classi delle superiori che si sfidano sui libri, c’era un gioco in cui i ragazzi dovevano correre e suonare una campanella tipo il musichiere. Il giudice leggeva un brano e un rappresentante della classe si precipitava a dare la sua risposta, ma io non avevo seguito bene le regole perché facevo dell’altro. Il concorrente doveva indovinare titolo e autore dell’opera, ma poi ecco che c’è stato un equivoco, che è quello che su cui ho riflettuto fino a quando, come spesso succede, mi è venuta voglia di scriverlo qui e avviare una discussione. O, meglio, l’equivoco è stato tutto mio. Perché il giudice ha letto un brano tratto dalla Divina Commedia che ha attirato la mia attenzione in quanto parte di uno degli svariati canti che ho imparato a memoria, un po’ alle superiori e un po’ all’università, roba che naturalmente non ricordo più se non a stralci perché, come tutti, ho fatto spazio alle scemenze che la modernità ci ha venduto come il codice di accesso alla saggezza eterna. Il giudice ha letto qualche verso, a malapena un paio di terzine, uno dei giocatori è scattato di corsa, ha suonato la campana per primo e ha dato la sua risposta. “La Divina Commedia. Dante”. Grazie al cazzo, mi è venuto spontaneo malgrado ci fosse mia figlia nelle vicinanze. Ho pensato che scemo, quel ragazzo, ma che risposta ha dato? Se non sapeva il canto da cui quel verso è tratto perché è corso a rispondere? Non penserà mica che la risposta fosse solo quella?

E invece era proprio così. La risposta da fornire era il nome dell’autore, Dante, e il titolo dell’opera, la sappiamo tutti no? Il giudice non pretendeva altro e io ci sono rimasto male, e non perché sapevo il canto e il regno ultraterreno in cui la scena si svolgeva, ma perché mi sembrava una risposta molto ovvia. Come quando sentite il riff di Smoke on the water, le prime tre note della Toccata e fuga in re minore di Bach, il sapore del curry, la Gioconda, Saturno con i suoi anelli, i Blues Brothers eccetera eccetera. Cose che riconosci all’istante, tanto che è persino banale confermare a qualcuno il fatto di averle riconosciute. E, nel nostro caso, si dovrebbe riconoscere subito il canto, altro che autore e titolo, a maggior ragione se partecipi a una trasmissione sui libri occorre sapersi orientare.

E invece no, non è più richiesto. Basta sapere solo che è Dante, che è la Divina Commedia. All’esame di Italiano circolava un’edizione completamente priva di riferimenti. Pagine, note, indicazioni, numero del verso, forse anche titolo ma questa è una leggenda metropolitana. Niente di niente. Il professore o il suo assistente ti mettevano la rivoltella carica in mano, te la facevano puntare alla tempia, perché lasciavano la scelta casuale ai candidati. Apri a caso e dimmi dove siamo. Ecco, ci sono decine di occasioni nella vita in cui una risposta così non basta. La Divina Commedia. Dante. Bum. E non ripresentarti al prossimo giro, perché è un gioco in cui hai perso.

sulle punte

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Per alcuni significa falsificare i conti, tenersi una parte di un budget dedicato all’insaputa di terzi, una sorta di margine non autorizzato in grado di far crollare la fiducia nei confronti di un intermediario incaricato di una qualunque transazione. Una cosa che si impara sin da piccoli. La mamma ti dà i soldi per il latte, lo trovi scontato, non glielo dici e ti tieni il resto. Altri la alzano come un baluardo di arroganza, una metafora del pollame e dei suoi inquilini, laddove qualcuno vuole predominare sul resto della compagnia. E chissà da chi deriva questa moda che nel bene e nel male ci trasciniamo dietro dai punk del 77. Più o meno alta, colorata o naturale, a spuntoni o compatta. E nel tempo ha modificato pesantemente il suo valore simbolico, benché non si possa negare che la pettinatura a cresta sia da sempre legata a un atteggiamento di trasgressione. Non solo una sfida contro la legge di gravità quindi. Proprio in questi giorni la cresta è tornata su tutte le prime pagine grazie a un tiro mancino del calciomercato che puzza tanto di trovata elettorale, in ogni caso enormemente costosa. Sta di fatto che è dagli scorsi campionati mondiali che i capelli alla mohicana sono sempre più comuni, e non solo nei fotomontaggi dei politici omonimi dell’archetipo. Con il passaggio dell’attaccante in questione alla squadra di proprietà dell’unico che contende a Beppe Grillo la capacità economica di gestirsi le spese di campagna elettorale con le proprie finanze, sono frequenti i casi di giocatori di ogni età e etnia che si rifanno il look come tributo al loro idolo. Ma era già da qualche anno che si notavano acconciature tendenti alla verticalizzazione centrale tra i comuni mortali, anche nei più piccoli, e questa è proprio bella. Perché i bambini quando sono vittime del senso artificiale di violazione del buon senso comune dei propri genitori ne meriterebbero l’allontanamento. Altrimenti mi tocca risalire agli anni novanta con la pettinatura di Keith Flint quando faceva l’attaccabrighe per dimenticare che oggi, a sproposito, gente con i capelli all’insù ti capita quotidianamente, non ti giri nemmeno più a guardarla tanto è diventata una prassi dell’espressione di un’originalità omologante. Faccio l’esempio del regista video che giusto l’altro giorno mi è stato presentato come tale, e che sopra a una faccia che non gli avrei nemmeno dato da fare il filmino della comunione sfoggiava questa zolla brillantinata con tutta una serie di stecchini, che a me una volta a Roma mi hanno detto che se piovevano molluschi avrei raccolto cannolicchi. Già, perché l’ho portata anche io per moda, tanti anni fa. Oggi sembra più un’ostentazione di baldanza e niente, a me viene da girarmi a guardare e cercare una maglietta dei Clash sotto, ma quasi sempre trovo acronimi come D&G.

dice a me?

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Oltre a cannare e prendere la decisione sbagliata quando c’è il 50% di possibilità di fare bene o male, e non venitemi a dire che non è vero che fare la cosa giusta è sempre un bene e che a volte i successi più importanti nascono dagli errori, un’altra delle casistiche più impressionanti a cui mi capita soventemente di essere soggetto è quella dello chiedere informazioni a persone che non sono in grado di fornirmele per i più svariati motivi. Il che comunque già depone a mio favore di partenza e sfata quel luogo comune che vuole noi uomini ritrosi a rivolgerci a terzi per avere indicazioni su strade e punti di riferimento. Io no, per quello chiedo e mi affido alla saggezza locale. Il mio scrupolo riguarda la facilità con cui mi rivolgo a individui scarsamente attendibili per pura coincidenza, ma è sconcertante che la percentuale di occasioni in cui sono incappato in casi umani, più che degni di essere raccolti ed elencati a dovere. Persone di una certa età poco presenti e con uno scarso senso della propria geolocalizzazione e percezione del tempo occupato, oltre che dello spazio. Stranieri affatto integrati a partire dalla comprensione della lingua della loro nuova comunità. Tossicodipendenti apparentemente usciti da un’altra era in pieno down da ricerca dei generi di oblio. Sordomuti che orgogliosamente ce la mettono tutta nello spiegarti in un linguaggio che non è quello dei gesti dov’è il bancomat più vicino, e se ce n’è uno sia a destra che a sinistra, più avanti, si posizionano a seconda della direzione che devono indicare in modo speculare. Gente che non è del posto. Gente che anche se ci sono quattro vie in croce, dov’è quel posto non lo sa. Così ogni volta che devo accostare e abbassare il finestrino, prima di esordire con il classico “mi scusi?” di chi ha veramente bisogno, devo avere il tempo di capire – e in macchina non si tratta certo di un’operazione così semplice – se mi sto per rivolgere alla persona giusta. Cerco di individuare tutti quegli aspetti che l’esperienza mi ha insegnato essere inutili ai fini della richiesta, quelli che si vede che non hanno nulla da fare e si corre il rischio che siano prolissi e sconclusionati, quelli erroneamente contestualizzati con l’obiettivo della ricerca, per esempio qualcuno in camice bianco quando ci si deve recare all’ospedale e scoprire trattarsi di un operatore di una mensa di un’azienda lì vicino. Persone che non sanno dov’è la biblioteca del comune in cui vivono. Matti. Insomma, faccio una rapida scansione di colui al quale sto per rivolgermi e, otto volte su dieci, cicco in pieno la missione. E non voglio deresponsabilizzarmi sostenendo che sono loro, in fondo, che attirano me. È un sorta di teoria del caos, in cui secondo la forza di attrazione determinata dalle affinità elettive, gli eventi si manifestano attraverso la dimostrazione che ci si ritrova, prima o poi, tutti, noi pre-destinati all’inutilità sociale.

fattori di rischio

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Ogni giorno, tra le mura domestiche, si perpetrano le peggiori angherie accanto a eventi tragici consumati in contesti familiari che vedono come vittime donne e uomini di ogni età ed estrazione sociale. Non sempre queste efferatezze e le conseguenze che comportano superano la soglia domestica. Subentrano stati d’animo e reazioni controverse ma, in fondo, comprensibili. La percentuale di micro e macro tragedie coniugali sono solo la parte visibile di una consistente quanto intricata matrice sommersa. Qualche esempio? S., un uomo di 54 anni, ha aperto nel tempo numerose confezioni di latte recanti scadenza successiva ad altre presenti nel frigo costringendo i propri congiunti a corse alimentari, soprattutto a colazione, volte a impedire sovrapposizioni. P., 31 anni, impiegata, è schiava della dipendenza da attivazione di più elettrodomestici contemporaneamente. Lavatrice con forno, forno con lavastoviglie. Fino al collasso del sistema di erogazione energetica e la conseguente spedizione maschile nel locale contatori, che data la sua ubicazione sotterranea necessita di abbigliamento adeguato, soprattutto nei mesi più rigidi. Sono frequenti anche i casi di asciugamano del bidet lasciato umido e raggomitolato sull’apposito sostegno, un reato per il quale le mogli non sono disposte a indulgenza alcuna. Lato femminile, sono sempre più diffusi gli episodi di lavandini intasati dai resti della cena per colpa della preventiva rimozione del filtro appositamente progettato che, trattenendo le componenti non liquide, evita gli ingorghi. Senza contare che spesso gesti di questa portata seguono ad anni di velata indolenza nel lasciare calzini sporchi a penzoloni sul bordo della cesta, scarso impegno nell’imparare certe funzioni basi dei dispositivi elettronici – casalinghi e non – e il conseguente ricorso a sessioni di help desk intra moenia, difficoltà nell’individuare la logistica e l’ubicazione stessa di oggetti e documenti di uso comune, per contro i repentini spostamenti di componenti di arredamento e accessori senza una consultazione preliminare e, tantomeno, la preparazione di un supporto informativo contenente gli aggiornamenti o un eventuale flusso di assestment volti al training interno. Questa è la realtà. Da ogni casa si leva una richiesta di aiuto e di solidarietà. Ci si aspetta che, qualunque sia l’esito della prossima tornata elettorale, il focus torni ad essere sulla famiglia, dentro le mura domestiche, tra tutte quelle persone che non manifestano adeguata insofferenza e lasciano che piccoli gesti quotidiani diano adito a giorni di ordinaria follia.

ma vi giuro che quando mi abbronzo divento olivastro

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Che ridere. Un amico è convinto di aver sofferto di mal d’Africa quando era a una festa un po’ particolare, il compleanno del moroso di una sua collega che viene dal Senegal e gli amici hanno cucinato per tutti un piatto tipico a base di pesce ma il pesce probabilmente non era di prima scelta e nemmeno di seconda. Si sentiva la puzza fin da fuori l’ingresso, su per le scale, nell’androne e a ritroso fino a un punto non definito in cui l’aria non aveva vinto la sua battaglia contro i rimasugli gassosi del cibo avariato. Ma no, non si tratta di quello e spiegateglielo voi perché io in Africa non ci sono mai stato. Poi per dimostrarmi che non ha mica tutti i torti mi fa vedere le foto di quel party con le ragazze coloratissime e gli uomini invece con completi dubbi e monocromatici che chissà dove li hanno presi, nel tentativo in buona fede di essere il più elegante possibile. Io gli ribadisco il mio punto di vista, che stanno molto meglio conciati da americani anziché da camorristi, non necessariamente americani. Almeno la musica era di qualità? chiedo. Capisco di no e nel mentre mi vengono in mente le festicciole a casa di uno dei miei dj preferiti, lui era sposato con una ragazza nigeriana e c’era una nutrita componente nera e un elevato tasso di reggae e old school, là dentro, oltre a un caldo boia e alla nebbia da tutto quello che c’era di acceso. Ma inutile che glielo racconti a voce, poi lo leggerà qui, insieme a un altro esempio di difficoltà di integrazione. L’unica volta in cui sono stato a New York volevo acquistare dei vestiti, per esempio le camicie di tela a quadrettoni o i pantaloni con le tasche sulla coscia, spero comprendiate che ero ampiamente più giovane di ora e potevo permettermelo. C’era un sacco di roba che mi piaceva ma non riuscivo a trovare la taglia. Un po’ perché quel tipo di vestiti li fanno già di misure abbondanti, un po’ perché sono tutti più muscolosi di me che ho lo stesso fisico da quando facevo la terza media, e non è un plus. Mi provavo le camicie e le mettevo giù perché le spalle mi arrivavano al gomito. I pantaloni larghi, a me che non è cresciuto in gonfiore il didietro, mi facevano quell’effetto appena uscito dall’ospedale dopo un mese di degenza. Ci ho rinunciato, almeno per il versante black music, e ho ripiegato sui classici europei come le giacche di pelle strette che non ho problemi visto il torace e le magliette a righe, che un tempo ne avevo così tante e di tutte le fogge che pareva una collezione, e forse lo era pure. Poi in metropolitana, tornando verso Brooklyn, due tizi afroamericani quando mi sono seduto hanno liberato i loro posti per spostarsi altrove, e io che tifavo per gli Arrested Development un po’ ci sono rimasto male.