lasciate che i Bimby vengano a me

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Se vi capita di ascoltare conversazioni il cui argomento è una sorta di rito esoterico di preparazione di cibi e pietanze, pure il pane e il risotto e le torte e ogni ben di Dio in una manciata di secondi, giusto il tempo di apparecchiare o di scendere il cane e pisciarlo, vi siete imbattuti in un crocchio della diffusissima setta dei facoltosi utenti del Bimby. Si tratta di un efficientissimo – a quanto sento – robottino tuttofare, intelligente e pure un po’ presuntuoso, che ti sforna dall’antipasto all’ammazzacaffè in quattro e quattr’otto tanto che chi non ce l’ha stenta a crederci e guarda chi ce l’ha un po’ come oggi guardiamo chi sostiene la veridicità delle scie chimiche, i seguaci di Grillo, i testimoni di Geova o chiunque creda nel potere taumaturgo di qualcosa o qualcuno.

Così noi che al massimo abbiamo la pentola a pressione ci piace ascoltare questi sostenitori della Lamborghini per casalinghe e assistere sbigottiti ai loro miracoli culinari, visto che probabilmente l’ammortamento dell’investimento effettuato comprende questa diffusione post-vendita di aneddoti come una sorta di emanazione piramidale di benefici ricevuti. Già, perché il costo non è proprio accessibile a tutti, ma rientra in quell’elite di prodotti il cui discutibile rapporto prezzo/funzione non lascia scampo a posizioni intermedie tra gli entusiasti e i detrattori.

Non metto in discussione la qualità. Sostengo però che attività quali la preparazione di cibo o la pulizia della casa mi sembrano ambiti inappropriati per stanziamenti di budget extra e quindi, per citare il mio di caso, noi cerchiamo di starne alla larga, anche perché già una volta ci siamo cascati con l’acquisto del Gioel, il principale competitor del Folletto, per capirci, che consiste in un sistema di pulizia all’avanguardia nel senso che spendi anche per il futuro e ti ritrovi a girare per casa con questa specie di armadillo pulitore che ti segue mentre tu spruzzi vapore come un draghetto. Non chiedetemi chi si è lasciato convincere all’acquisto, dico solo che l’abbiamo pagato davvero un botto ma non ha mai funzionato a dovere, si è rotto quasi subito e dopo averlo riparato si è ancora guastato più volte, per non parlare della scomodità di trasporto e del peso.

Voglio dire, un acquisto sbagliato da cento euro te lo puoi anche permettere anche se a me, da buon ligure, girerebbero ampiamente le scatole. Buttare tanti soldi così è pessimo. Ma per il Bimby non saprei, è come convincere un materialista a contemplare una visione escatologica o convertire all’omeopatia uno che non è abbastanza snodato per fare yoga. Voglio dire, se non ci sei dentro non puoi capire, così mi dicono quelli che lo usano, come chi ha figli protegge le proprie conquiste emotive da chi non ce l’ha compatendo la ritrosia altrui alla riproduzione della specie.

Ma per farla breve, sull’onda di quel bambino che ha scritto alla Lego perché aveva perso un personaggio incluso in un set di costruzioni che aveva acquistato con tutti i suoi risparmi e la Lego ha risposto in quel modo che sta commuovendo il web intero inviandogli un set di gioco ancora più ricco, mi sento di dire che la Gioel stessa potrebbe mandarmi un aspirapolvere nuovo di pacca gratuitamente, con una lettera del tipo “Caro plus1gmt, noi della Gioel non lasciamo che i nostri clienti lascino la gestione dei loro risparmi in mano alle emozioni di chi subisce il pressing dei nostri venditori, tanto più se poi restano delusi. Eccoti un nuovo armadillo pulitore, e che l’igiene sia con te”. Dirò di più. Se la Vorwerk ha un efficiente sistema di monitoraggio della sua Brand Reputation e nei feed del loro social media manager finirà anche questo post, ecco, sappiate che sono disponibile a sottopormi una prova del Bimby a fondo perduto del prodotto e comprensiva di un bel volume di ricette autenticate.

la dignità sotto i piedi

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Ci sono anche i saldi nei posti dove già di norma le cose costano nettamente di meno delle boutique, quelli che propongono una scelta al di sotto degli outlet e quasi dei venditori ambulanti che smerciano capi contraffatti, o per lo meno a quel livello lì. Io sto cercando un paio di Clarks tarocche, perché le Clarks ormai sono uno dei pochi modelli dentro i quali i miei piedi non si ribellano ma le Clarks originali non le voglio più comprare, perché costano dai 120 ai 140 euro a seconda del negozio, ora ci sono anche su Amazon ma non trovo mai il numero, e poi lo sapete che ragiono in lire e proprio in lire sono 240 mila. Voglio dire, un tempo un paio di scarpe al quel costo non le avrei mai acquistate e le Clarks a dir tanto costavano ottantamila lire, e già era un prezzo impegnativo. Così ho deciso di comprarle tarocche, che non è detto che non si trovino di qualità. Ed era già da un po’ che ci pensavo, almeno da quando rientrando da Varese per lavoro ho visto sulla strada un mega super iper magazzino il cui nome non lasciava dubbi. Il risparmione della scarpa. Bello, neh? Vero che ci state facendo un pensierino? Ma ero in autostrada e non mi sono fermato, consapevole del fatto che abitando nella zona a più elevata densità di centri commerciali, un paio di banalissime Clarks marrone scuro tarocche da qualche parte le avrei trovate.

E c’è una imponente rivendita monotematica a una manciata di km da qui, quei posti a cui si accede solo in auto perché costruiti in mezzo a svincoli e tangenziali e superstrade. Anche quell’iperstore ha un nome che richiama all’affare, spendi poco ma non scendi a compromessi in qualità. L’allestimento non è dei più invitanti, diciamo che dal punto di vista del marketing nel presentare i prodotti sullo scaffale ci sono ancora margini di miglioramento, il tutto soffocato da centinaia di stand ricoperti disordinatamente di pantofole di tutte le fogge dietro le quali è facile giocare a nascondino, questo ve lo dico qualora vi accompagnaste ai vostri figli durante le sessioni di shopping, cosa che io evito di fare.

Mentre cercavo il reparto uomo, ho notato una signora con il marito. Lei voleva provarsi un paio di stivali di quelli che usano adesso, quelli che puoi metterci dentro i pantaloni stretch e i jeans alla moda. Ovviamente capi in versione tarocca. Li stava valutando a distanza e si stava avvicinando al modello preferito quando si è fatta avanti una famiglia di etnia difficilmente identificabile, così vestiti male potevano essere nomadi o giù di lì. La mamma ha preso in mano proprio lo stesso stivale a cui la signora era interessata e si è chinata per togliere la scarpa e provarlo. Questo probabilmente ha fatto desistere dalla scelta la signora di prima, ho sentito che diceva al marito che aveva cambiato idea ed è facile immaginare il perché. Siamo più poveri ma non vogliamo ammetterlo, ci siamo anche abbruttiti ma non bisogna dirlo perché poi gli altri chissà cosa pensano. Ma guai a dirci che non esistono più i poveri di un tipo e di un altro. Una signora come quella non acquisterebbe mai un paio di stivali tarocchi che possono rientrare nei gusti di una nomade. L’ho vista allontanarsi e ripiegare fintamente su una scarpa bassa, ma non è passato molto che è se ne è andata da lì a mani vuote, probabilmente dicendo al marito che non ne voleva sapere di essere scambiata per una con lo stesso potere d’acquisto di una rom. Perché va bene cercare di fare affari, ma c’è un limite a tutto. Che poi secondo me quei stivali non li ha comprati nessuno.

Ma è finita che poi ho trovato un discreta disponibilità di Clarks tarocche. C’erano blu e beige e color visone, che poi è il marrone che cercavo e che nel caso delle Clarks originali non si chiama così quel colore, ma pazienza. Un paio costavano addirittura diciannove euro, un po’ poco ma erano scontatissime e poi non è detto che non siano di buona fattura. Le ho provate e ho così potuto comparare in tempo reale la calzabilità con quelle originali che indossavo. Questo mi ha indotto a lasciarle lì, sembravano in effetti di cartone. Ne ho provato un altro modello a dieci euro in più, c’era il 44 anziché il 45 che per me è un numero a rischio, dipende dalla forma che hanno. Ma mentre le estraevo dalla scatola è sopraggiunto un ragazzo cinese con la fidanzata che gli ha indicato con entusiasmo le Clarks tarocche, proprio come quelle che stavo valutando. Ha trovato un numero piccolo, si vede che i cinesi non sono come noi caucasici, e mentre le rimettevo nella scatola senza nemmeno provarle e uscivo dal negozio a mani vuote pure io, come la signora di prima, ho pensato se ho mai visto un cinese con le Clarks.

la città che mi ha dato i genitali

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Il mio consiglio di oggi è di fare attenzione a cavalcare con il vostro umorismo gli svarioni che fa la gente per due motivi. Intanto come fate ad avere la certezza che uno non dica una cosa volutamente sbagliata? Ai tempi delle freddure su Internet, poi, le persone si esprimono in questo neo-volgare in cui rivoltano le parole, enfatizzano congiuntivi deliberatamente cannati, usano anglicismi pronunciati secondo i suoni del nostro alfabeto e via così. Mescolati agli errori veri e propri, certo. Anche questo è un modo per tener la lingua viva, chissà. Per dire: mi sono burlato per anni di uno zotico che chiamava un oratorio qui vicino “Maria Immatricolata” e mi vantavo di questo piccolo aneddoto con tutti, fino a quando ho scoperto che la sua storpiatura era voluta. Me lo ha fatto notare lui stesso una volta rimarcando la desinenza anomala quasi a farmi sapere, in modo assai formale, che voleva farmi sapere che sapeva che io non sapevo che lui sapeva quel era la versione giusta della divinità a cui l’oratorio in questione è dedicato.  E c’è chi ancora racconta come proprie esperienze di questo tipo. Calamari per alamari o sodomizzare per somatizzare, tanto per fare due esempi. Il famosissimo patè d’animo. E poi questi pretendono anche che uno rida e rincari la dose. Stamattina una ragazza in treno si è letteralmente capottata sul sedile raccontando di aver sentito con le sue orecchie una collega dire che un capo d’abbigliamento faceva “potage” con un altro, io ho ascoltato tutto ma non mi sono sbilanciato perché io stesso dico che in un accostamento di colori è bene fare “panpan” tra due elementi per dire “pendant”, ma ogni tanto noto che quando è presente uno che non mi conosce mi osserva perplesso. L’altra che era il referente di quella conversazione ha rilanciato con l’amica wedding planner a cui è stata fatta la richiesta di un set di bicchieri di un certo tipo perché sono più “boheme”. Che non si capisce bene se intendesse bohèmienne o, visto l’argomento, si riferisse ai cristalli di Boemia. Insomma, andateci piano perché oggi la gente non è più così indotta. Mica come mia nonna, che chiamava tutti i giovani alternativi e contestatori “bitter”, nel senso di beat, che non so se lo facesse apposta oppure no, ma mi faceva ammazzare dal ridere ogni volta.

120.000 km, uniproprietario

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Apprezzo la professionalità di un vero sales quando ci si siede ad un tavolo e si affrontano tutte le sfaccettature del business indipendentemente dal valore dello stesso. Una manciata di dollari o la maggioranza delle quote di una multinazionale, per la nerditudine commerciale a grandi linee non cambia di molto. Le tappe della vendita, che passano dalla proposta, alla descrizione a parole della stessa, alla contrattazione e alla persuasione dell’affare fino alla firma del contratto, sono le stesse per tutti. Con tutto il lato estetico ed emozionale e gli annessi e connessi, ciò che nell’immaginario cinematografico comprende l’offerta del sigaro, i piedi sulla scrivania, la PNL non però in caso di piedi sulla scrivania perché dipende dall’altezza dei contraenti, lo sfoggio di segretarie provocanti che portano il caffè e via dicendo. Uno dei pochi lati positivi della crisi economica è quello di aver fatto saltare i nervi ai falchetti da quota, spero apprezziate il calembour, quelli belli aggressivi che devono raggiungere un tot in un tempo prefissato ma, cari miei, senza le palle e il sangue freddo e la pazienza non si arriva da nessuna parte.

I veri professionisti sono quelli che si attaccano a tutto pur di fare profitto, e non è assolutamente un giudizio etico. Ricordo ancora il concessionario che mi ha venduto la prima automobile acquistata con i miei guadagni, una Ford Escort SW blu usata, di quelle che ne sono state vendute a milioni in Italia, era impossibile fino a qualche anno fa guidare qualche chilometro in autostrada senza individuarne almeno un paio di esemplari. Lui, il venditore, lo chiamavamo Acefalo per via delle sue doti intellettive che manifestava al di fuori del contesto del registratore di cassa del suo autosalone di provincia, un lessico famigliare che riassumeva altresì tutte le perplessità di mia moglie e mie riguardo al suo successo con le donne, dato che gestiva in modo piuttosto spregiudicato un menage alternato con due compagne entrambe consapevoli della dicotomia relazionale, il tutto con l’aggravante di un figlio avuto da una terza donna precedente alle due e sparita chissà dove. Avevo tampinato Acefalo per alcuni mesi perché volevo essere sicuro di fare un affare, acquistare un’automobile al meglio delle condizioni e al prezzo più basso possibile, uno dei principali paradigmi della nostra società in caduta libera. Acefalo sopportava il mio pressing solo per il trait d’union, quel mio cognato lazzarone che poi ha truffato me e la mia famiglia dell’unica casa di proprietà, e so che penserete per quale motivo uno debba rendere pubblici i cazzi propri in questo modo e la risposta non è semplice e sarà un capitolo a sé stante.

Comunque, ricordo come se fosse ieri il nostro Acefalo seduto alla sua scrivania, mia moglie ed io dall’altra parte della stessa, e lui che abilmente dirottava la conversazione e le decisioni che ne sarebbero derivate privilegiando, come da manuale, le istanze della mia consorte. Mimando con le mani il gesto dell’iscrizione su stele delle ragioni sapienti che lei sosteneva, cosa che io faccio quotidianamente, sia ben chiaro. Una mano che impugnava un martello invisibile e l’altra uno scalpello inesistente e una lastra di marmo su cui andava a comporsi il successo di quella trattativa. Il cui valore non avrebbe poi superato i tremila euro, e che a posteriori mi sono chiesto quale potesse essere il senso di dedicarci così tanto tempo, così tanta energia, e una enfasi così marcata mentre al di fuori di quel gabbiotto c’erano fior fior di evasori totali che intestavano fuoristrada e berline da decine di migliaia di euro sulle spalle di società ma a uso e consumo di fine settimana trascorsi a lavarle negli appositi esercizi self service.

L’operazione di vendita comprese anche una fase di passaggio di consegne, un vero e proprio indottrinamento sul come si conduce una sedici valvole che è meglio tenere sempre con le marce alte anche se non si va forte. Lui che guidava nei dintorni di quel capannone di periferia e mi faceva il gesto di stare in silenzio, aguzzare l’udito e sentire le variazioni del borbottio del motore, quella che doveva diventare la mia principale preoccupazione non appena ne fossi diventato il proprietario con tutti i crismi. Finì che mi consegnò le chiavi come se mi avesse appena messo a disposizione la verginità di una minorenne. E devo dire che poi non è andata male, la Escort ha fatto la sua parte con dignità e se non fosse per i consumi mostruosi e anacronistici l’avrei tutt’ora.

Perché a un certo punto sono passato a una Xsara Picasso bifuel, scelta proprio per tagliare i costi del carburante e per avere a disposizione un portabagagli più consono a cose come passeggini, carrozzine, biciclettine e monopattini. Insomma ci siamo capiti. Ero riuscito a vendere la Ford a 1.600 euro a un idraulico di Quarto Oggiaro che per pagarmela in contanti aveva estratto dalla tasca dei calzoni un rotolo in cui ci saranno stati almeno ventimila euro in pezzi da cento, duecento e cinquecento. Lui aveva una BMW e mi disse che le collezionava, e la mia Ford Escort sarebbe servita ai suoi aiutanti come mezzo di lavoro per le trasferte sul territorio.

E l’aspetto interessante di tutto questo è che al momento dell’acquisto di questa vettura che possiedo tutt’ora, questa volta nuova di pacca, scelta appositamente color auto sporca in modo da non essere costretto a vergognarmi per la mia sciatteria, al momento della consegna c’è stato un altro individuo, probabilmente altrettanto acefalo di Acefalo, che dandoci del tu pur essendo palese il gap anagrafico ha descritto a mia moglie e a me nei minimi particolari tutte le funzionalità di una macchina poco più che entry level, come se ci fossimo trovati nell’abitacolo dello Shuttle. Ma questo è forse ciò che i più definiscono metter la passione nel proprio lavoro, l’impeto che trattiene i rappresentanti di aspirapolveri dal suicidarsi, i giovanotti azzimati nelle sale dei medici generici di paese nel restare convinti dei principi attivi contenuti nelle loro borse in finta pelle tra anziani che fanno a gara a chi ce l’ha più grave, alle impiegate degli uffici amministrativi che consumano il pranzo in ufficio perché nel raggio di chilometri e chilometri dal lavoro non c’è nemmeno un bar gestito da cinesi, che loro con tutti il cash flow che hanno a disposizione gli investimenti li fanno in centro e poi delle Escort e delle Xsara Picasso non sanno proprio che farsene.

storia di un mp3

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Il fatto che si tratti di un agglomerato di nonsisabenecosa, se ennemila sequenze in codice binario o una sorta di merda d’artista nel senso manzoniano – Piero, che non è quello vero (semi-cit.) – o altresì il reale concentrato dell’anima di una canzone, la sua rappresentazione grafica molto ma molto più rassomigliante alla sua vera natura, alla faccia del solfeggio parlato e del setticlavio. Qualunque cosa esso sia, l’mp3 ha la sua dignità sin da molto prima del tamagotchi, per dire, perché ci sono tanti modi per essere considerati digitalmente tangibili e non solo perché c’è un pugno di byte da accudire, fargli fare la cacca, metterlo a nanna, o lasciarlo morire in un impeto di cybercinismo. E, ora, non voglio fare la figura di quello che sapeva già tutto prima o il precursore a tutti i costi, ma l’mp3 di cui vorrei raccontarvi la storia è comunque la prova provata che un contenuto digitale ha una sua dimensione di corporeità e di spiritualità. Altrimenti come spieghereste il fatto che oggi, almeno quindici anni dopo l’inizio di questa storia, quel mp3, una volta messo in funzione, sprigiona le stesse proprietà di quando si è materializzato la prima volta – perdonatemi il gioco di parole – ed è stato contestualmente archiviato ospite clandestino in una memoria fisica – per modo di dire – di mio dominio. Si tratta di un prestigio che è accresciuto a dismisura. Basti pensare al valore dei luoghi di culto che agli mp3 oggi dedichiamo, dispositivi da centinaia di euro e tutta la letteratura che ne è generata, gente che è finita pure sul lastrico per colpa dei control c e control v compulsivi. Insomma, con un’esposizione mediatica così ampia ci dev’essere senz’altro qualcosa di più.

Comunque l’mp3 di cui vi volevo raccontare qui venne trasferito di nascosto con un sistema addirittura precedente ai vari Napster e i famigerati peer2peer. Perché si cercavano liste relative a contenuti di server pirata che, giorno dopo giorno, crescevano sempre di più – la cosa stava sfuggendo di mano – e a cui si accedeva tramite client del calibro di BulleProof FTP. Ma all’inizio la paura di essere scoperti non era virtuale, così quelli pavidi come il sottoscritto scaricavano poca roba per volta. E quello, l’mp3 protagonista di questa storia, è stato il primo. Che già il mattino dopo in cui avevo lanciato il comando di download, lo avevo trovato apparentemente menomato, come se si fosse gettato nell’hard disk di mia competenza senza paracadute e, nell’urto, si fosse danneggiato. Ma si trattava solo del nome un po’ ammaccato, un’infilata di caratteri che nel passaggio da un sistema operativo a un altro erano stati brutalmente troncati dall’ottavo in poi e sostituiti in blocco da un simbolo di tilde, il segno “~” . E nella primitiva release di Winamp non mi risulta che si potessero ripristinare le informazioni sul brano, artista o che altro come oggi. Così quel mp3 fu masterizzato di nascosto – insieme a una cinquantina di suoi simili – su un cd come i neonati si registrano all’anagrafe con quel buffo nome che solo il proprietario avrebbe potuto riconoscere tra mille, un nome di otto caratteri che era “INTERST~.MP3”, tutto maiuscolo.

Una sua istanza era stata contestualmente decompressa e agghindata con il vestito della festa, un formato traccia audio riconoscibile dai lettori cd più avanzati che chiudevano un occhio sulla discutibile provenienza e fabbricazione del supporto da leggere. Il nuovo ordine mondiale muoveva i primi passi. Interi eserciti di compilation autoprodotte risuonavano negli impianti casalinghi in barba a chi riconosceva i difetti nei 128 kbps sulle frequenza acute ma a tutto vantaggio di quelli che avevano sofferto l’impennata dei costi del materiale originale, un rincaro che aveva negato a un’intera generazione l’accesso alle cose più belle degli anni 90, una volta che il vinile era stato archiviato indegnamente a causa del grande complotto dell’industria musicale. Quel formidabile cavallo di Troia che poi, ritorcendosi contro, ne ha sancito la morte irrevocabilmente.

Poi sono stati immessi sul mercato illegale tutti quegli strumenti di esproprio culturale proletario, gingilli che a seconda della connessione ti facevano entrare in possesso di tutta la produzione musicale desiderata. I file audio hanno potuto aumentare la mole di informazioni contenuta, si sono gonfiati fino a 320 e rotti e i nomi stessi completi, fino a tutte le tag che oggi rendono persino inutili le cartelle e le playlist, tanto è facile trovarli in hard disk da migliaia di giga. E rimettere su disco fisso quel materiale di archeologia digitale estratto dalla rete con lo stesso spirito dei cercatori d’oro nel Klondike è un’operazione che i primi mp3 che ci hanno allietato in cuffia o a tutto volume delle casse se lo meritano, eccome. Per questo “INTERST~.MP3” è e resterà il mio preferito, e ne ho scaricate altre versioni anche con tutto il pacchetto dell’album a cui tale canzone appartiene, ma vi giuro che non ha lo stesso sapore. Sarà il maiuscolo, sarà lo spirito del pionierismo, ma portarlo fino a qui lasciandolo con quella connotazione da Windows95 fa parte di un senso di rispetto per la memoria, non quella del pc ma quella vera, quella che invecchiando sbiadisce un po’.

in cerca di guai

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E anche quella volta lì che aveva scelto la pizza che si chiama friarielli e che è ricolma di salsiccia e cime di rapa, lei gli aveva detto che era un’ottima idea. La pizza era una bomba, e potevano fare a metà, così entrambi avrebbero diviso la propria pizza ed era come mangiarne di due varietà al prezzo di una. E gli diceva che lei avrebbe scelto quella col prosciutto crudo e non so quale formaggio. Ma non era quell’abbinamento di gusti che lo lasciava contrariato, che poi il crudo sulla pizza ci va alla fine altrimenti – voi mi insegnate – se cuoci il prosciutto crudo diventa cotto e siccome il cotto costa meno del crudo, tanto vale scegliere subito il cotto. Perché gli ingredienti freddi sulla pizza non dicono granché, non si amalgamano, non fondono i loro sapori, è come mangiare la pizza E POI il prosciutto crudo. Ma, ripeto, non era solo per questo. Lui aveva questa voglia incontenibile di una pizza con la salsiccia e le cime di rapa, e quando diceva una intendeva UNA INTERA e non metà, altrimenti non avrebbe proposto alla moglie di ordinare una pizza ma le avrebbe chiesto “cara, ti va mezza pizza?”. Quindi proprio non ci sarebbe stato alcun compromesso. Lui avrebbe preso una pizza friarielli, e se lei voleva mangiare quel tipo di pizza lì avrebbe dovuto prenderne una tutta per sé.

Insomma, non poteva finire come tutte le volte, come quando il portatile resta tutto il tempo spento, poi lui a sera, poco prima che gli altri si addormentano, lo accende per scrivere quelle sue cose sull’Internet ma a lei, appena vede lo schermo acceso, le viene in mente che non ha ancora letto il giornale, o deve controllare se le è arrivata una e-mail, o vuole cercare su Amazon il sacco a pelo matrimoniale da portare in tenda l’estate prossima. Fomentata dalla figlia che vorrebbe guardare su youtube il trailer del nuovo lungometraggio dello Studio Ghibli. Quelle volte lì finiscono con la sua capitolazione, chiaro. Lui consegna l’oggetto del contendere, “leggo solo questo e poi te lo restituisco subito” sono le ultime parole famose di lei. Perché finisce che lui cerca di continuare il libro, ma leggere nel letto è un passatempo che non può permettersi. Poche righe e si addormenta.

E notare che quell’episodio della pizza a metà, anzi delle due pizze a metà così è come mangiarne due intere di due tipi, che non è vero, era successo poco dopo che lei uscendo dalla macchina aveva spinto la portiera così esilmente da appoggiarla appena, andandosene senza nemmeno controllare mentre dietro c’era un automobilista agguerritissimo che aspettava che lui si spostasse. Ma prima lui doveva o avvisare la moglie che tornasse indietro a chiudere la porta o scendere e fare il giro per chiuderla. Aveva così deciso per la linea dura, suonando il clacson. La moglie era tornata indietro e lui le aveva mimato da dentro l’abitacolo di chiudere la portiera con più forza ma lei non aveva capito, e nel frattempo l’automobilista dietro aveva frainteso pensando che lui avesse suonato perché voleva uscire in retromarcia, mentre la ventola per disappannare il parabrezza faceva un baccano infernale e lui non capiva se fuori non lo sentivano urlare – di chiudere la portiera alla moglie e di avvisare l’automobilista dietro che non ce l’aveva con lui – perché dentro c’era tutto quel rumore. Poi la cosa si è risolta, mica come quando invece gli chiedeva di accostare in punti della strada in cui sono in vigore espliciti divieti di sosta che nemmeno puoi pensare di rallentare, figurati mettere le quattro frecce. “Tanto ci metto cinque minuti”, dice, ma voi le credereste?

Io no, ma che importa. La pizza poi lei l’ha presa al prosciutto e a quell’altro formaggio che non si sa bene qual è, lui l’ha presa con la salsiccia e le cime di rapa, hanno fatto metà per uno di entrambe e mi hanno assicurato che vivono, tutt’ora, felici e contenti. E sazi, ecco.

dei diritti delle pene

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In paesi come l’Italia, posti abitati da gente come me e come te, le persone dovrebbero sì essere soggette a discriminazione ma non per il colore della pelle, bensì per quello delle scarpe che indossano e alla loro foggia. Cose come i diritti civili dovrebbero essere negate non in base al sesso di appartenenza del partner con cui uno ha scelto di vivere, ma per orientamenti all’acquisto come l’auto che uno ha parcheggiata sotto casa. Hai sottoscritto rate a non finire per un suv per di più bianco che magari hai lasciato in un parcheggio per portatori di handicap perché ieri notte sei arrivato tardi dal festival latinoamericano (l’aggravante) e avevi sonno e non trovavi posto? Ecco, a te il matrimonio è negato, non hai sufficiente diritto di essere riconosciuto uno in grado di accoppiarsi e riprodursi, tantomeno adottare un figlio che ha già abbastanza sofferto in vita sua all’orfanotrofio. Oppure tenendo conto di certi comportamenti socialmente inutili. Per esempio l’acquisto e l’utilizzo di fuochi e petardi per capodanno fa scadere il diritto di assistere la tua compagna in caso di degenza ospedaliera oppure quello alla pensione di reversibilità. I calciatori dovrebbero essere insultati dagli ultras, su questo sono d’accordo. Ma non perché hanno origini africane, piuttosto perché hanno scelto compagne di vita temporanee e non che esercitano mestieri quasi più dubbi del calciatore stesso. Sporco marito di una show-girl, questo dovrebbero gridargli. Coperti di ignominia perché per mettere insieme il loro stipendio di un mese una persona normale ci mette dieci anni, evasione fiscale inclusa. Che poi dicono dei politici. Avete presente il servizio militare? Ecco, in posti come l’Italia, posti abitati da gente come me e come te, dovrebbe essere obbligatorio ricoprire una carica amministrativa e politica, locale o nazionale, per qualche mese  nella vita di ciascuno. Senza contare poi il diritto di voto, da togliere persino a chi getta i mozziconi per terra dopo aver finito la sigaretta. E il redditometro, che dovrebbe essere molto più invasivo e soprattutto riguardare anche altri aspetti. Quanto uno spende per andare in vacanza ma anche dove va. Che cosa compri al supermercato. La percentuale dei consumi culturali sul resto. Se ascolti Gigi D’Alessio. I tatuaggi. Vedrei quindi più utile un gustometro, se sei tamarro o magari invidi gente del calibro di Corona son cazzi tuoi perché ti aumento a dismisura le tasse, visto quello che fai sopportare ai tuoi simili che poi, per fortuna, ci sono tante persone diverse da te e questi parametri. Perché in Italia e nei  posti abitati da gente come me e come te, siamo stufi di sentire sempre che la questione dei diritti civili sia un elemento in discussione, sia un programma da campagna elettorale, sia soggetta al giudizio degli altri. Fatemi capire: perché se sono un uomo e vado a letto con un uomo sono esposto ai criteri decisionali di qualcun altro, ma se nel mio guardaroba ci sono capi firmati Dolce e Gabbana o recito delle preghiere o vado a ballare la zumba no? Mi spiegate la differenza?

siamo tutti piccoli, non è il caso di preoccuparsi

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Mi chiamo Allyson e malgrado il nome sono una ragazzina di origini latinoamericane che vive in Italia. Non so perché mamma e papà mia abbiano chiamato così, forse anche loro sono cresciuti con la convinzione che più il nome è altisonante e più regale e dignitoso sarà il destino della persona che lo porta. Vi ricordo per esempio il caso di Rosaspina, la bella addormentata nel bosco, che non avrebbe potuto chiamarsi Paola con tutto il rispetto per le Paole che sono in ascolto. Insomma, conoscete meglio di me la difficoltà di azzeccare i nomi giusti per i bambini. Pensate a nomi che indicano qualità di cui i vostri figli possano essere latori e troverete curiosi casi di ossimori viventi, appellativi che sottolineano la leggiadria attribuiti invece a caratteri viscidi e sgradevoli. Ma nessuno lo può sapere mai prima e l’idea che si fanno tutti è che presto avranno tra le mani un portento di discendente, quindi perché sprecare un’occasione.

Ma c’è un altro aspetto, una riflessione che facevo proprio stamattina mentre con il telefono all’orecchio cercavo la mia amica che mi stava guidando dall’altro capo della conversazione lungo il treno, verso il posto che mi stava riservando di fronte a lei. Pensavo che molte persone che vengono in Italia da altri paesi in cui c’è una massiccia quantità di loro connazionali che invece emigrano negli Stati Uniti, forse non hanno ben chiaro che qui non sono gli Stati Uniti e che quelli che hanno costruito una nuova vita là sono stati più fortunati. Voglio dire, c’è una Allyson di origine latinoamericana che in questo momento con il telefono si sta facendo guidare lungo un convoglio della Subway e che si sta recando da Brooklyn a Manhattan e che di certo è più fortunata di me che sono salita su un passante ferroviario in Bovisa. Come quelli che fanno i balletti come in quei programmi di Mtv però quelli là sono nel Queens e questi qui sono nella stazione della metro di Porta Venezia. Cioè è chiaro che ci sono afroamericani e afroitaliani oppure latinoamericani e latinoitaliani, o almeno ci saranno perché adesso quelli sono solo neologismi. Ma vivere nel mito delle gang di strada, dell’abbigliamento xxll da gangsta, dei cappellini del baseball non ci fa bene. Ci rende ancora meno aperti a qualsiasi tipo di integrazione e passeremo alla storia come quelli di serie B, a differenza dei promossi in serie A che hanno superato indenni il muro al confine con il Messico.

E posso immaginare l’espressione delle persone a fianco della mia amica che mi stava dando indicazioni e che pronunciava il mio nome in pubblico. Allyson vieni ancora avanti. Allyson sali nella terza carrozza. E qualcuno si sarà chiesto chi potesse essere questa Allyson, con il nome da serial americano, prima che comparissi difficilmente visibile tra la folla con il mio metro e cinquanta scarso di altezza, i chili abbondanti evidenti sulle ampie cosce compresse nei pantaloni slim alla moda, con il mio Galaxy a tartina rosa in una mano e il catalogo dell’Avon nell’altra, pronta a indicare alla mia compagna di classe quale matita per gli occhi avrei voluto scegliere come regalo per il mio primo ordine portato a termine. E malgrado il mio nome angloamericano, sedendomi di fronte alla mia amica che è anche mia connazionale, non ho resistito dalla voglia di intrattenermi in una conversazione in spagnolo, parlare di ragazzi nella mia lingua, cantare le canzoni che poi ascoltiamo a casa, tutti insieme, sognando un posto che, tra America del Nord e America del Sud, è sempre più indefinito ma assomiglia sempre meno a quello che vedo qui.

secondo certi standard

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Non è stata una cosa successa da un giorno all’altro, ma è bastato distrarsi un attimo che la volta dopo tutti si erano messi a studiare jazz. Quello al piano si era fatto incantare da un chitarrista con l’anima del venditore della Folletto che si era piazzato nella sua vita approfittando del forfait dell’insegnante vero e proprio, un pianista compositore che era volato in Bulgaria a registrare la colonna sonora di un film. Il primo caso documentato di turismo musicale post-globalizzazione. Non solo dentisti e cuori solitari, quindi. Ma uno che suona uno strumento a corde può essere utile a uno che schiaccia tasti bianchi e neri? Sì, forse per l’armonia, lo studio delle scale che non si capisce mai come applicarle poi quando improvvisi.

Quello alla batteria pure, ed è stata la sua fortuna quella svolta lì, perché prima teneva il tempo ma poi quando era il suo turno nel solo o nei botta e risposta – chiedetemi se qualcosa non vi è chiaro, so che questi scritti sono un po’ da addetti ai lavori – dicevo quando doveva improvvisare lui senza altri strumenti partiva con esperimenti di free-jazz come se a fare gli anarchici fosse tutto concesso. Agli altri veniva da dirgli cose come “ragazzino” – era il più giovane di tutti – “ragazzino fai pure tutto il baccano che vuoi con quei tamburi e quei piatti ma poi rientra giusto alla fine del giro”. D’altronde le regole del gioco sono quelle, nel jazz bisogna saper contare. A me per esempio mi avevano insegnato a tenere il tempo con il piede sinistro, che tanto nel pianoforte non si usa nemmeno per i pedali, e come i batteristi tengono il due e il quattro con il charleston così era utile per quando veniva il turno degli altri negli assoli. Perché poi ti trovi strumentisti come quello lì che partiva in quarta e a cazzo e poi chi si è visto si è visto, perché nel jazz non si parla, non si fanno cenni tocca a te poi tocca a me, è tutto un feeling, tutto un sentire, tutta una vibrazione. Comunque dicevo del batterista che poi si è rimesso in carreggiata, perché a parlare son tutti Giulio Capiozzo con il senso del ritmo degli altri. Lui andava a lezione da uno che era fissato con l’acustica, teneva la sua Gretsch nel centro di una stanza in cui secondo lui si avvertiva l’acustica perfetta, calcolando l’equidistanza dalle pareti e la pedana che sollevando la grancassa si evitava quella dannata vibrazione della cordiera e poi, insomma, tutto questo per fare il gregario su standard così antichi che nemmeno nel dixieland.

Il chitarrista partiva ogni sabato mattina con la fidanzata, quello era il suo giorno libero in cui non era al lavoro, e si faceva un centinaio di chilometri per la lezione con un session man piuttosto noto, di quelli che li leggi nei programmi delle Scimmie o nei booklet di Paolo Conte, per dire. Il costo era salato, perché c’era la lezione ma anche la benzina e l’autostrada ogni volta ed erano botte di migliaia di lire. Credo che lei assistesse alle due ore, jam session compresa, e poi andassero insieme a pranzo fuori. Alla fine sono diventati due coppie di quelle che si frequentano nelle uscite in quattro, in cui le due ragazze camminano avanti parlando di appartamenti e colleghe e diete e i due maschi qualche metro indietro, sempre con questo disco o con quell’altro e poi la tromba che è insostituibile a meno di non trovare un trombone ma nessuno ormai lo suona più.

Ma il colpaccio lo aveva messo a segno il bassista, che aveva mollato tutto e tutti e si era iscritto a un conservatorio all’estero, una di quelle scuole che qui in Italia le fonderanno tra un paio di secoli quando il jazz avrà la stessa dignità delle compilation di quella classica da concerto di capodanno. Non il vero, quello di Vienna, ma quell’altro, quello farlocco che ci siamo inventati perché non siamo da meno, e tutti guardano ancora ciucchi della notte prima Va Pensiero e il resto della top ten delle ariette da amici della lirica in diretta dalla Fenice, giusto per la coda di paglia e questo nazionalismo da operetta per il quale se all’estero fanno una cosa noi siamo sicuramente in grado di farla meglio. Si vede. Il bassista è partito, dicevo, è stato tre anni via ed è tornato con un mentalità musicale che andava oltre qualsiasi diplomino di quelle scuole del cazzo che ci sono anche qui a Milano che poi all’esame ti fanno suonare con le nostre rockstar sessantenni e puoi caricare il video che fai le stesse svise che faceva Dino d’Autorio quando lo ascoltava il nonno. Tanto che quando è rientrato in Italia, lui era oltre ma tutti gli altri avevano nel frattempo interrotto lo studio del jazz. Chi non se lo poteva più permettere, chi comunque non gli sarebbe servito per le cose che aveva in testa e che avrebbe voluto fare, chi si era lasciato con la fidanzata e si trovava in imbarazzo a uscire da solo con una coppia in procinto di sposarsi.

o taccia per sempre

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Mi aveva raccontato che il suo ex fidanzato l’aveva lasciata perché non era più sicuro di amarla, e fin qui non c’è nulla di strano. Se non che aveva annunciato questo aggiornamento circa i suoi sentimenti poco dopo averle detto che si sentiva molto fiero del fatto che la sera prima aveva cenato con un noto presentatore televisivo e un altrettanto noto comico in voga, il quale gli aveva fatto tutta una tirata per via della sua folta capigliatura e il vello copioso che abbondava sulle sue guance e sul mento, sulle braccia e sulle gambe. Ancora prima di terminare gli antipasti questo che aveva raggiunto la celebrità facendo ridere con battute sul calcio e sulla figa aveva chiamato al cellulare sua moglie, dicendole di essere sbalordito per il fatto di trovarsi allo stesso tavolo con l’uomo più peloso che avesse mai visto. Che poi mica è vero, per esempio io a quel tempo avevo molti capelli più di lui, a dirla tutta. Molto più lunghi. E senza dubbio mi cresceva anche una barba molto più regolare della sua, che così bianco di carnagione sembrava una spazzola al contrario. Insomma che lui, il sedicente tipo pelosissimo, probabilmente si sentiva un po’ un fenomeno da baraccone ma sperava di rientrare in una delle gag che il comico avrebbe presentato alla puntata successiva, magari con il presentatore stesso come spalla. Lei, la mia amica, aveva sofferto questa sorta di dislogia in cui la sua vita amorosa era stata declassata a un link di secondo grado legato a una spolverata di celebrità di quelle che ci sono persone che farebbero di tutto per avere, detto tra noi. Molto più che l’essere stata scaricata così.

Passa qualche mese, e un nostro comune amico che faceva il cuoco ci mette al corrente che lui – il barbuto capellone – aveva prenotato un ricevimento di nozze in una location da cerimonie piuttosto alla moda, una villa della riviera di ponente famosa solo perché tempo prima aveva ospitato un calciatore cecoslovacco in forza a una squadra di serie A locale. Una vera forza della natura, se non altro con le bellezze del luogo. L’amico cuoco faceva parte della cooperativa che aveva in gestione la villa e che organizzava le feste di nozze, e quando aveva letto il nome degli sposi per i quali avrebbe cucinato ci aveva messo al corrente. E lei – la sua ex – così la mattina del matrimonio, che era un sabato di aprile, si era nascosta nei pressi di casa sua per sincerarsi che fosse davvero lui e vedere come si sarebbe conciato. Non certo per gelosia. Insomma che lo ha visto scendere a posare qualcosa in macchina, tutto bardato con il completo grigio scuro e la cravatta arancione, ma con i capelli corti, senza barba, tutto rasato e pulito. “Sono certa che mi abbia visto anche se ero nascosta nell’ingresso del negozio di abbigliamento che c’è a fianco di casa sua”, poi mi aveva detto. Ma era certa che dopo quella cena la cosa non aveva più avuto seguito, nel senso che è difficile che poi certa gente di spettacolo si ricordi di persone conosciute così superficialmente. Lei stessa si era messa a seguire quel programma di sketch da seconda serata, ma della scena dell’uomo lupo – come avevamo iniziato a chiamarlo quando ci riferivamo a lui, ora che non stavano più insieme – non c’era più stata traccia.