qualcosa di te

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Aprire una busta o un pacco e trovare dentro un brandello umano è stato uno dei miei peggiori incubi durante l’infanzia. Chi è cresciuto negli anni settanta non ha avuto certo di che annoiarsi in quanto a paure suscitate dai fatti di attualità, e l’idea di quella macabra corrispondenza in transito sopra le nostre teste o mescolata alle comuni cartoline delle vacanze nei vagoni postali mi faceva rabbrividire. C’era anche il terrore che qualcuno mettesse una bomba nel portone, o di trovarsi coinvolti in una rapina a mano armata. Tutto merito del telegiornale all’ora di cena che è stato per almeno quindici anni un bollettino di guerra e che ci faceva vedere facce poco rassicuranti di ricercati, terroristi e delinquenti comuni che rilasciavano dichiarazioni ai giornalisti o dalle sbarre delle gabbie durante i processi, il che dava l’impressione che comunque la cosa non finiva lì. Poi gli animi più sensibili si portavano quelli come ultimi ricordi prima di addormentarsi, quindi potete immaginare che cosa il subconscio infantile era in grado di sceneggiare una volta spenta la luce.

Ma quella dei pezzi tagliati ai rapiti per dimostrare la veridicità del gesto mi aveva impressionato quasi più dello sguardo cinico di gente del calibro di Mario Tuti o Guido Giannettini. Il sequestro di persona è stata un’attività criminale che ha avuto una diffusione molto ampia in quel periodo, ora non ho dati alla mano ma per quello che mi ricordo tra il banditismo, i gruppi terroristici e la delinquenza organizzata era un continuo rapire persone a scopo di estorsione. Oltre a De Andrè, uno degli episodi più noti è stato quello di Paul Getty, o meglio John Paul Getty III, il nipote dell’omonimo petroliere americano rapito dalla ‘ndrangheta nel 1973. Come ricorderete, per spingere la famiglia a pagare l’oneroso riscatto, i sequestratori mozzarono un orecchio all’ostaggio e lo fecero pervenire alla famiglia, una pratica oltremodo barbara che, alla luce poi di molti altri cruenti episodi accaduti, non fu nemmeno una delle cose più crudeli perpetrate all’opinione pubblica, oltreché alle persone coinvolte.

Ma quello che mi sconvolse di più fu la foto di Paul Getty dopo la liberazione, mostrata con indifferenza alle otto di sera a grandi e piccini. Il profilo menomato dell’uomo trasferiva tutto il senso della libertà individuale interrotta con la violenza e la costrizione, il che potrebbe suonare strano tra notizie assai più forti come la guerra in Vietnam, le stragi, i conflitti tra stato e gruppi armati. Ma i bambini più semplici, come potevo essere io, non hanno quella sensibilità globale di pensare così in grande. Il perimetro domestico è lo spazio da difendere, l’internazionalismo e la solidarietà collettiva sono concetti troppo evoluti per una coscienza immatura. Confessai questa fobia a mia mamma, le dissi anche che avevo una giustificata convinzione di poter temere il mio rapimento. Lei mi rassicurò sul fatto che le persone poco abbienti come noi non avevano nulla da temere. Nessuno rapisce qualcuno se non c’è la possibilità di ottenere miliardi, mi disse, noi siamo fuori pericolo, non ti devi preoccupare. Che fortuna essere poveri, pensai. Ed ecco, vorrei sbagliarmi, ma quella è stata, credo, l’unica volta.

in tutto fa novanta, come la paura

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C’è questa coppia di amici in cui lei e suo marito sono bene assortiti in quanto a combinare disastri. Lui è quello che ne fa tanti e dalle conseguenze brevi ma molto fastidiose. Il classico bicchiere di vino rovesciato sulla tovaglia pulita, lo strappo nel sacchetto della spazzatura che raccoglie cose tipo due giorni di lettiera dei gatti e/o l’organico con gli avanzi del pesce alle 8.14 del mattino quando alle 8.15 li aspetta la compagna di classe di loro figlio e relativa mamma in auto per andare a scuola. Cose così, che magari poi uno ci ride sopra e se ne dimentica già la sera stessa ma magari nel momento topico in cui accadono alimentano quello che si dice un giramento di scatole e conseguenti imprecazioni contro la sbadataggine, la distrazione, la testa l’hai lasciata in ufficio, hai le mani di ricotta per non dire di peggio e via così. Questo succede in ogni famiglia, e posso dar loro la conferma, in prima persona, che non si tratta dell’unico esemplare di marito goffo al mondo e che può contare sulla nostra solidarietà.

E il bello è che alla moglie invece non cade mai nulla di mano e ha quello che si dice il controllo totale dei propri movimenti uniti alla consapevolezza dello spazio occupato, è sempre sul pezzo e quindi potete immaginare se anche voi siete così controllati cosa significa avere sposato uno che vi cammina dietro e vi calpesta con il piede la pianta dell’infradito facendovi inciampare oppure situazioni paradossali come ciò che mi hanno raccontato essere successo proprio qualche sera fa. Entra una cimice in casa e si posa su una parete. Lui afferra un tovagliolino di carta da tavola – stavano cenando – e lo appoggia sopra la cimice per poi catturarla e portarla fuori. L’uomo sente qualcosa sotto il tovagliolino, pensa di avere in scacco l’insetto, appallottola la carta e tira via il tutto ma la moglie gli fa notare che la cimice è rimasta sul muro. Eppure lui sente qualcosa in mano, e quel qualcosa era una fetta di pomodorino che prima stava su una pizza che il figlio, non gradendo, aveva scartato dal piatto e posato lì. Così oltre a non aver preso la cimice, lui ha anche macchiato di pomodoro la parete. Nel frattempo la cimice è volata in un altro punto più in alto e così l’operazione di caccia si è complicata. Bambini non provate questo a casa: avete capito il soggetto, insomma.

Lei è vittima e artefice invece ad altri tipi di inconvenienti, magari uno a trimestre anziché tre o quattro al giorno come a lui. Ma l’entità non è proprio la stessa. Una volta ha fatto un prelievo al bancomat piuttosto consistente, poi le è squillato il telefono e ha lasciato i soldi lì. Per fortuna che se lì è rimangiati lo sportello automatico, è bastata una telefonata e glieli hanno restituiti. Attiva il forno e la lavatrice in contemporanea – ecco, questo dice di essere la sua specialità – così salta il contatore che si trova in un locale al livello delle cantine, per cui poi il marito deve cercare la torcia per cercare la chiave del locale contatori, mettersi le scarpe e uscire per riattivare l’erogazione di elettricità. Questo è successo una volta di troppo, e il black out conseguente ha fatto saltare il router senza ritorno e così ora sono anche senza telefono e Internet (ah, mi chiedono di ringraziare pubblicamente un certo Pino-DLink per non aver protetto la sua connessione wireless). Il top forse è l’aver superato il limite di velocità in un punto di una superstrada dove qualche giorno prima era stata posizionata una telecamera per il controllo. E quella è la strada che percorre per recarsi al lavoro, ogni giorno. Proprio qualche giorno fa ha ritirato le prime due multe, quella dell’andata e quella del ritorno di uno stesso giorno feriale pre-vacanze di agosto, una bella somma con tanto di punti patente. Ovviamente sperano che non ne seguano altre, perché potrebbe essere un guaio. Anche su questo fronte li rassicuro, ho raccontato di quella volta in cui mia moglie si è tuffata in mare con la macchina fotografica in mano, non ricordandosi di averla con sé, tanto che si è ossidata e abbiamo dovuto buttarla via. Sono cose che succedono, dico loro, l’essere complementari è a detta di tutti una fortuna sfacciata.

ti ho visto in piazza

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Credo che gli studenti che sono scesi in strada a manifestare contro la scuola, il governo, le banche, i Monti e i Fornero dovrebbero cambiare oggetto della protesta e manifestare principalmente contro i loro genitori, rei di aver favorito, approvato con il loro consenso oppure non essersi opposti con sufficiente convinzione a scuola, governo, banche, i Monti e i Fornero. Il vero colpevole di quello che  ha cancellato il loro futuro, anche se a quell’età è difficile distinguerlo in una indistinta nebulosa con tanto di scia chimica dietro, si annida tra le loro stesse mura di casa e va ricercato negli scontrini mai richiesti o mai stampati, nei sotterfugi per evitare quella o quell’altra tassa, nelle mappe degli Autovelox che, una volta superati, si pigia sull’acceleratore e via, nei modelli di consumo e tutto quello che hanno generato, nella cultura che attraverso le loro scelte e non-scelte hanno fatto sì che si diffondesse. Un vero e proprio sistema che poi sì, ha prodotto la scuola a cui si ribellano, il governo, le banche, i Monti e i Fornero di conseguenza. Ecco cosa mi piacerebbe sapere: tutti quegli studenti che sono scesi in piazza, tornati a casa, che cosa hanno trovato.

station to station

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Gli uomini, a differenza di noi, pensano solo quando sono sotto stress. Lo dice una donna a una sua amica, entrambe al mio fianco, che sino a poco fa si lamentava del fatto che il suo fidanzato, che da queste parti si dice moroso, non ne vuole sapere di sposarla senza l’urgenza di una gravidanza. Si tratta di una tematica che ha invaso la mia attenzione spostandola dalla storia di cui ero spettatore, anzi lettore, fino a pochi istanti prima. E non me ne voglia la mia casuale compagna di viaggio se l’interesse è di molto inferiore e sono capitato su quelle parole forzatamente, visto anzi sentito il volume alto della conversazione. Aggiungerei che penserebbero di più, gli uomini, se non fossero distratti da discussioni un po’ così. E a dirla tutta sui due piedi, visto che di posti a sedere non se ne vede nemmeno mezzo, anche io troverei scuse su scuse per non sposarla.

In più, malgrado lo spazio a disposizione – per darvi un’idea sono costretto a reggere il mio libro a pochi centimetri dagli occhi con tanti saluti alla mia presbiopia – la donna gesticola per evidenziare con scie invisibili quel concetto. Le due mani parallele ravvicinate a rappresentare un’idea di chiusura, di scarsa lungimiranza, un contenitore tridimensionale che, sebbene tutto da immaginare, mette claustrofobia. Ma io lo vedo che si tratta di uno sfogo del momento, gli scioperi dei trasporti creano disagio e catalizzano la rabbia degli utenti nel privato più di ogni altra cosa. Famigliari, colleghi in ufficio, sempre che in ufficio ci si arrivi, e soprattutto compagni di sventura. La solidarietà di classe è un concetto morto definitamente con Hobsbawm qualche giorno fa, il filo che esce dagli smartphone e si inabissa nelle orecchie degli individui poi prosegue verticalmente invisibile verso altri output ubicati chissà dove. Dietro una tv, un decoder, un personal computer pronto a dare battaglia al mondo con commenti sgrammaticati su social media. Non c’è quindi un legame orizzontale, quella prospettiva di occhi e di orgogli che muoveva il quarto stato verso la riscossa sociale nella celebre iconografia dei primi del novecento. Oggi sarebbe ancora più semplice con un collegamento wireless o bluetooth per la condivisione dei moti. Ma non funziona più. La gente è solo gente quando è a casa propria.

Poi però mi attira l’attenzione una signora che, seduta, registra una serie di attività in programma a penna su un’agenda. Non sono uno di quelli che sbirciano, neh. Però leggo che il giorno prima, per due volte, una la mattina e una il pomeriggio, ha avuto qualcosa a che fare con Giulio Coniglio, il celebre roditore antropomorfo disegnato da Nicoletta Costa. Mi chiedo perché uno debba scrivere proprio così, Giulio Coniglio, su un’agenda come se si trattasse di un doppio appuntamento da marcare e ricordare. Quale sarà il vero significato? Una comunicazione in codice? Deve essere un segnale, non c’è dubbio.

Poco dopo tutti fuori, almeno fino qui siamo arrivati. Ci sono alcune stazioni in cui la coincidenza non è prevista. I convogli che vanno in una direzione partendo da lì non sono tenuti ad aspettare obbligatoriamente gli altri convogli in arrivo dalla direttrice opposta. Cioè, se il treno è in orario, i passeggeri riescono a prendere quello che gli consente di proseguire. Ma i ritardi sono frequenti, non è una novità, e in quel caso è lecito prendersela con il sistema che istituzionalizza questi disguidi a scapito degli utenti. E in un periodo come questo, in cui la gente è esasperata e si lancia sotto le saracinesche per non perdere l’ultimo metrò, dove magari ci fosse una ressa analoga per un film di Truffaut, secondo me è meglio muoversi con lauto anticipo, una procedura che io adopero normalmente perché con i mezzi pubblici non si può mai sapere. Per questo mi stupisco poi dell’insoddisfazione verso il servizio ricevuto, il linciaggio morale e fisico di autisti, macchinisti, controllori e personale vario. Si chiama sciopero. Serve per comunicare un malcontento. Siete avvertiti. Se avete un appuntamento all’ora x, agite di conseguenza con tutte le misure precauzionali prevedendo tutto quello che vi può succedere.

E accade anche che il tono metallico degli annunci dall’altoparlante rimandi da una parte all’altra della stazione. Bisogna tirar su zaini, ventiquattrore e in alcuni casi trolley e risalire le scale, mobili e immobili, e spostarsi ad almeno cinque binari di distanza. Che è anche questa una metafora perché se il convoglio definitivo ti ha atteso ti viene da ringraziare chi ha avuto la testardaggine di farlo nella vita e nei tuoi confronti, anche se magari prima non ti voleva sposare perché non c’era un nascituro di mezzo o perché vivi in un mondo tutto tuo, fatto di personaggi inventati per la letteratura infantile e prendi appuntamenti con amici immaginari. Perché poi l’esperienza fa crescere. Tutti e senza distinzione.

cattivissimi loro

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Se come me siete fortemente skillati (è inutile che inorridiate, chissà quanti abomini linguistici riuscite a produrre anche voi sul vostro posto di lavoro) in cartoni animati, un’esperienza maturata se non altro perché i vostri piccoli despoti tengono in scacco l’unico apparecchio televisivo in casa e da quando, come me, siete genitori avete subito il bombardamento di film d’animazione e a furia di vederli a ripetizione conoscete le battute a memoria, vi ricorderete certo la scena introduttiva ma anche le successive del malvagio – solo all’inizio, ma questo è uno spoiler – protagonista di “Cattivissimo me” quando sfoga il suo istinto malvagio contro i più deboli, come il bambino con il palloncino. Ecco, nel giro di due giorni leggendo i casi del padre che ha coperto il ragazzino autore del furto dell’iPhone al bimbo vittima di un incidente stradale, e oggi del dirigente pubblico che taglia le gomme al disabile reo di aver parcheggiato la sua vettura al posto cui aveva diritto dove invece il manager usava lasciare la sua Jaguar, due episodi di una cattiveria talmente gratuita da rasentare l’osceno, il grottesco Gru mi è venuto in mente ben due volte. Perché sembrano episodi inventati per far ridere gli appassionati di humour nero se non fossero invece terribilmente veri e grondanti di un cinismo inaudito. Potremmo fare una gara e pensare ad azioni sempre più gravi nel loro paradosso di voler colpire la debolezza, la disabilità, l’inerzia totale se non, come è successo, la morte. Ma ci sono elementi pornografici che secondo me superano la realtà dei fatti. La Jaguar e l’iPhone, il lusso nella tragedia, la tecnologia raffinata come scenario dello squallore. Fateci spazio, sembra essere la morale di tutto questo dalla voce dei costosi prodotti. Annientatevi a vicenda e lasciateci il posto, solo noi sopravviveremo alla vostra estinzione.

ti passo a prendere

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Quando ti trasferisci da Genova a Milano o, diciamola tutta, dal centro della prima alla periferia della seconda, la vera cosa di cui senti la mancanza non è tanto il mare (vedo già la folla con i forconi e le torce qui sotto) quanto la diversa destinazione d’uso degli spazi comuni. Che detta così non significa nulla, perché quello che intendevo è che qui, a Milano o meglio nella periferia povera in cui mi sono spostato, manca completamente il concetto di “esco a fare due passi”. Ci siamo capiti, vero? Si tratta di un problema  che può essere affrontato sotto due punti di vista. Quello della geografia diciamo urbana, in prima istanza, e quello della geografia umana. Ma se siete un po’ avvezzi con entrambe le discipline converrete con me che poi le due cose vanno a coincidere, o per lo meno l’una influenza l’altra.

Ma facciamo un passo indietro. Che cosa intende, il genovese, con la locuzione esco a fare due passi? La passeggiata è una componente fondamentale della giornata di ogni abitante del capoluogo ligure, perché si può ingannare il tempo, rilassarsi all’aperto o anche solo sgranchirsi le gambe e prendersi una pausa gironzolando per la città, per il centro storico, al Porto Antico o in Corso Italia fino a Boccadasse e Vernazzola. O dare un’occhiata alle vetrine in Via Luccoli, ora è tanto che non vado e non so se la crisi degli esercizi commerciali ha sostituito anche lì le insegne storiche con le cineserie che si vedono da queste parti, fare la spesa negozio per negozio a seconda di quello che vuoi preparare per cena. “Vado a fare un giro”, si dice così e poi si prende la porta e via. Questo per dire che c’è la volontà da parte degli abitanti di occupare parti della giornata in questo modo e che, dall’altra parte, c’è una – diciamo – struttura ricettiva dei desideri delle persone piuttosto all’altezza, ovvero spazi comuni destinati anche all’uso efficace dell’ozio, sempre inteso alla latina.

Poi un giorno ti sposti a Milano per una serie di motivi che potete immaginare. Qui è diverso, perché mi sento spesso dire che “esco a fare due passi” non fa parte degli hobby di nessuno, tanto meno dei bighelloni solitari. A nessuno viene in mente di andarsi a fare un giro. Ora non so se sia così per chi vive in centro. Di fatto, qui in periferia sfido chiunque a volersi rilassare in questo modo. Gli spazi comuni sono adibiti a un uso principalmente di spostamento finalizzato: da casa all’ufficio, dall’ufficio all’Esselunga, dall’Esselunga a casa. Perché, a dirla tutta, non è che qui ci siano scorci tali da invogliare alla passeggiata. Forse perché non ci sono punti più alti rispetto ad altri, e la pianura è monotona per chi cerca la contemplazione dei panorami. E poi l’urbanizzazione delle periferie è quasi  tutta a misura di mezzi di trasporto privati e commerciali, al massimo le piste ciclabili, ma per chi cammina c’è ben poco. Gli unici che incontri a piedi che non vanno da nessuna parte sono quelli che corrono per fare un po’ di sport, quindi in realtà stanno andando da qualche parte. Cercano di superare loro stessi per poi ritornare a casa. Quelli che invece incontri e stanno camminando rimani meravigliato di vederli lì su un cavalcavia della tangenziale, in bilico su un marciapiede che non usa più nessuno e nessuno, di conseguenza, lo aggiusterà mai. E se hanno detto a qualcuno “vado a fare due passi”, potrebbe anche esserci sotto un motivo serio. Lo dicessero a me mi preoccuperei.

shazzan!

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Sarebbe interessante allestire un Facebook ombra raccogliendo e organizzando le parti tagliate delle foto dei profili degli iscritti. Avete presente vero quelli che non trovano di meglio che prendere una foto scattata in compagnia al mare, durante una cena, in ufficio o – le peggiori – stretti al proprio partner e riciclarla come immagine individuale dopo aver ritagliato il quadrato in cui inscrivere il proprio faccione gaudente incuranti dei particolari che lasciano dedurre la presenza di qualcun altro lì vicino? Una porzione di viso, un arto, i capelli. E spesso non si tratta nemmeno di placeholder temporanei, perché restano lì per mesi e anni e ci sarebbe da chiedersi che fine hanno fatto i rimasugli della versione originale della foto, che è vero che stiamo parlando di byte e non di carta fotografica, ma allo stesso modo del formato materico estromettere da uno spazio pur privato uno o più comproprietari di un bene come un istante di vita comune immortalato da una macchina digitale suona come una mancanza di rispetto. La prima cosa a cui penso quando mi imbatto in questi trattamenti sommari e spesso eseguiti con pressapochismo è che l’autore che si ritaglia – è proprio il caso di dirlo – il ruolo da protagonista unico ha volontariamente commesso un atto di disprezzo nei confronti di un ex, amici con cui ha litigato, famigliari che rivede solo in tribunale rappresentati da legali avversari. E credo che se capitasse a me di riconoscere qualche mio particolare anatomico sullo sfondo di un primo piano sorridente chiederei l’immediato intervento di rimozione tramite fotoritocco qualora l’interessato non volesse per nessun motivo far rientrare anche me nella sua pagina utente. Perché, che diamine, possibile che hai solo quella foto lì? Piuttosto metti una foto in controluce, con delle automobili sullo sfondo, o scattata da lontano così non si capisce né chi sei tu e né di che paesaggio si tratta quello che hai voluto a tutti costi che i visitatori del tuo profilo associassero alla tua persona. Ma, dato che da cosa nasce cosa, ho avuto un’idea. Un concorso. Ricordate quel cartone animato di quei due fratelli ognuno dei quali indossava la metà di un anello, la cui unione evocava una specie di genio della lampada di nome Shazzan? Ecco, quando troviamo una foto palesemente tagliata, e se si tratta di due persone guancia a guancia in cui la scissione risulta ancor più dolorosa e non solo per la parte mancante, sguinzagliamoci come segugi nei social network per trovare la porzione complementare. Ricomponiamo la foto e inviamola ai relativi proprietari, qualcosa di magico sono certo che succederà.

schiaccianti verità

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Sapete, vero, quello che si dice su noi uomini e cioè che il multi-tasking non è un asset per un modello entry-level di cervello come quello di cui siamo stati dotati. D’altronde fare l’upgrade in questo caso equivale a un cambiamento di genere: si dovrà pur creare uno slot da qualche parte per le schede dedicate alle nuove funzionalità, no? Quindi mettiamoci il cuore in pace, rimarremo esseri senza troppe pretese tanto che gestire situazioni complesse resterà sempre un’esclusiva femminile. Non a caso nelle situazioni di panico meniamo le mani, abbandoniamo la scena, pestiamo i piedi o scendiamo nel garage adducendo una scusa qualsiasi così da avere una giustificazione per inventarci, senza troppi sensi di colpa, qualche passatempo in cui immergerci in solitudine come il modellismo, i videogame, l’apicoltura, la corsa o il bricolage. Ben altra cosa è risolvere le situazioni nell’immediato. E di fronte a fattori multipli subentrano altri meccanismi di autodifesa, perché non è che non abbiamo proprio nulla, almeno l’istinto di sopravvivenza che è un comando di bassissimo livello è lì pronto a reagire con una gamma di operazioni che contemplano spesso il suicidio temporaneo, meglio noto come crash del sistema operativo, sempre che naturalmente ci si ricordi a memoria la sintassi corretta.

Parla per te, mi diranno i maschi più permalosetti. Noi siamo in grado di mettere il parquet in casa, e non quello a incastro, mentre seguiamo i nostri figli durante lo svolgimento dei compiti assistendo alla finale di coppa del Milan su Sky e nostra moglie che ci spiega la nuova organizzazione degli spazi della cucina. Be’, beati voi. Perché io invece vado in confusione in frangenti molto più elementari. Ecco, mi vedete ora mentre sto interloquendo con due adulti in un parchetto all’uscita di una tensostruttura sportiva? Bene, sappiate che si tratta di una situazione solo apparentemente ordinaria ma che nasconde tutta una serie di difficoltà facilmente riportabili. In ordine più o meno cronologico:

a) i due al mio cospetto sono papà di compagne di classe di mia figlia e come me sono lì in attesa che le bimbe finiscano l’allenamento di volley, occorre fare del proprio meglio per essere recepito come un adulto altrettanto adulto e autorevole

b) entrambi fumano, a turno si accendono la sigaretta e, senza interruzione, il fumo dell’uno o dell’altro arriva dritto alle mie narici; il fumo passivo e nemmeno mediato mi causa un curioso blocco respiratorio, quindi metto in atto una strategia di allontanamento difficilmente applicabile se chi fuma comunque tende ad avvicinarsi

c) entrambi operano nel settore dell’edilizia, carpenteria uno e impianti elettrici l’altro, e l’attenzione da focalizzare sui temi in discussione richiede il massimo sforzo per i non addetti ai lavori, anche un singolo grugnito di approvazione dev’essere ponderato e collocato al momento opportuno per non stimolare la reciprocità della richiesta di approfondimento

d) mia figlia esce in pantaloncini e maglietta con in mano lo zaino della scuola, lo zaino dello sport vuoto, tra le braccia la maglia, la felpa, il grembiule e la bottiglia d’acqua e mi mette tra le mani lo zaino della scuola, lo zaino dello sport vuoto, la maglia, la felpa, il grembiule e la bottiglia d’acqua che vanno a sommarsi alla mia borsa e all’ombrello perché quella mattina ha piovuto e sono appena rientrato dal lavoro

e) mi rendo conto che mancano all’appello i jeans e mia figlia mi confessa di non averli trovati più al rientro dalla palestra negli spogliatoi, le chiedo se ne è sicura e alla sua risposta si mischiano le chiacchiere delle sue compagne di classe e di squadra ai papà di cui sopra

d) tenendo in equilibrio la maglia, la felpa, il grembiule e la bottiglia d’acqua mi sincero che i jeans non siano stati riposti nello zaino della scuola o nello zaino dello sport e avuta la conferma mi congedo dagli altri papà uno dei quali nel frattempo mi chiede se davvero il prossimo giovedì c’è una riunione dei genitori e sembra stupito della mia risposta poco esaustiva

e) accompagnato da mia figlia torno nello spogliatoio dove mi faccio un po’ di problemi a entrare perché nel frattempo la squadra delle bambine ha lasciato il posto a quella delle ragazzine e così chiedo il supporto del custode che invece entra senza tanti problemi e mi invita a fare altrettanto per assicurarmi che effettivamente anche lì i jeans non ci sono

f) le ragazzine mentre si cambiano fomentano i miei timori sul fatto che qualcuno li abbia rubati i jeans di mia figlia, perché dicono che sono cose già successe, così riesco a condurre fuori di lì il custode lamentandomi di quel fatto e lui mi consola dicendo che può anche essere che qualche bambina li abbia presi per sbaglio ma ormai in me si sta radicando la tesi più cruenta

g) torno fuori, sempre con tutta quella roba in mano perché mia figlia vuole giocare con le sue compagne di squadra e non ne vuole sapere di avere le mani impegnate, e una delle mamma che fa da coordinatrice mi chiede se mia figlia ha già fatto la visita con il medico sportivo e io non lo so perché solitamente va mia moglie a prenderla all’uscita, e poi le dico che a mia figlia sono stati rubati i pantaloni e ora deve tornare a casa con i pantaloncini da volley e meno male che è fine estate o giù di lì, ma la mamma che fa da coordinatrice, che è donna, sorride e con parole sagaci mi conferma la tesi dello scambio di abbigliamento per errore e chiede a mia figlia chi era seduta nei posti vicino a lei nello spogliatoio. Le due bambine che possono essere all’origine di tutta quella confusione sono ancora lì, insieme ai loro papà che lavorano nell’edilizia ai quali ora si sono aggiunte le mogli e tutti in cerchio si stanno salutando

h) ed ecco l’epilogo scontato: i pantaloni erano nello zaino di una delle compagne di squadra che erano sedute negli spogliatoi al fianco di mia figlia, il che mi riempie di vergogna per aver pensato che qualcuno avesse potuto rubare un paio di jeans di sottomarca e per non aver gestito la situazione con la calma adeguata.

Così mi allontano per mettere ordine a me, alle cose che ho in mano e alla mia vita stessa. I vestiti nello zaino dello sport, il grembiule nello zaino della scuola, la bottiglia d’acqua è quasi vuota, due sorsi e si può buttare nel cestino. Mia figlia mi parla perché vuole raccontarmi della giornata e dell’allenamento ma io rivedo in sequenza tutte le fasi, dalla a all’h, e mi chiedo retoricamente che cosa mi manca per comportarmi come una vera donna.

prestare attenzione ai monitor informativi

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Fatemi una cortesia, perché capisco e apprezzo il vostro impegno e gli investimenti che effettuate nel tentativo di intrattenermi, ma davvero, non è il caso e ne farei volentieri a meno. E non è difficile riconoscere chi stanzia in spazi pubblici infastidito dalle voci in scatoletta, dalle musiche hollywoodiane e dai colori sgargianti che fanno a cazzotti con il retrogusto dei cornetti ripieni di conservanti riscaldati a cazzo nei microonde dei bar dei cinesi. Perché tutti siamo lì a guardarci intorno e scovare tracce di piacere individuale pronti a tacciare di faciloneria questo o quella solo perché reagisce alla pioggia con gli stivali di gomma o contribuisce a spremere intere popolazioni nordiche con una compulsiva domanda di algide storie noir rischiando il tracollo da sovraproduzione o, peggio, l’esaurimento di ogni vena commerciale. Poi li vedi gli unici due sui quali la teoria delle affinità elettive potrebbe essere applicata con successo, un giovinastro vestito tutto di nero che segue incuriosito un suo idolo di serie B incontrato per caso, ugualmente monocromatico malgrado i segni dell’età sulla calotta cranica e sulle guance canute. E l’aspetto paradossale è che solo loro che potrebbero salvarsi vicendevolmente si guardano intimoriti, il giovane per lo sbigottimento e la sorpresa, il vecchio per il fastidio di essere riconosciuto e l’imbarazzo del dover spiegare al resto della gente la sua notorietà di nicchia, il suo essere stato una stella dell’underground di venticinque anni prima, la sua rabbia che non ha mai trovato bersagli se non dentro di sé. Non preoccupatevi per me, mi verrebbe da dire a quei bellimbusti inespressivi reclutati in un palinsesto pensato in economia per un target disattento, lasciatemi in pace, ché io non mi sono mai annoiato in vita mia, tantomeno da solo.

da cosa nasce cosa

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A vedere bene come le stanno le cose c’è solo un dettaglio che stona tra i partecipanti alla riunione. Il dettaglio sono io perché sono l’unico che tra tutti non ha la cravatta. E meno male che sono lì seduto al tavolo già da un po’ e da prima che arrivassero gli altri, io sono uno di quelli che si presenta con abbondanti quarti d’ora di anticipo senza contare che sono anche quello che guadagna meno – questo in tutti i contesti professionali a cui sono stato invitato a partecipare per fornire il mio apporto – e che ha un’importanza come si suol dire meno business critical o strategica, fatto sta che gli altri che sono professionisti che contano arrivano alle riunioni quando cazzo pare a loro. Ma con la cravatta.

Dicevo che meno male per tutti questi motivi che ero seduto al tavolo quando sono entrati tutti gli altri perché altrimenti si sarebbero notati i miei pantaloni di una marca non-marca acquistati al supermercato e le snickers non-snickers, quelle sì di marca ma che dimostrano tutte le cinque o sei doppie stagioni che hanno trascorso ai miei piedi deformi. Essendo scarpe né troppo calde né troppo fredde rendono il loro onesto servizio nei periodi intermedi, prima dell’estate e prima dell’inverno, quindi in due occasioni per un totale di un paio di mesi l’anno come minimo. Quella che una volta veniva chiamata mezza stagione e che oggi, e non sono l’unico a sostenerlo, non esiste più. Nemmeno qui dove una volta era tutta campagna.

E in quell’ambiente di lavoro che è irrimediabilmente maschile perché dall’amministratore delegato all’ultimo dei commerciali si perpetua una tradizione che vuole nell’ICT quello un po’ babbione, molto b2b e per nulla consumer ma fatto di gestionali e business intelligence soltanto vertici virili e donne relegate al centralino, alla reception, al segretariato e al supporto marketing che è addirittura più segretariato di quello che prevede la prenotazione di voli e alberghi per la trasferta e l’acquisto dei regali di anniversario di nozze per le mogli dei manager. In quel meeting di poteri trasversali il fatto che ci sia un fornitore per giunta vestito da sfigato come me crea una funzionale valvola di sfogo dalla quale far defluire le tensioni in cui si manifestano le prove di forza tra colleghi, la versione incravattata di una rissa da angiporto dove al posto delle testate sul naso ci si colpisce a dati di fatturato per settore aziendale. E meno male che quello che poi io dovrò trasmettere all’esterno in belle parole di quel ginnasio di competizioni è che la società con il nuovo corso è una. Anzi, uan, come dicono loro agli investitori.

Ecco, questo è il quadro ed è descritto così apposta per far sì che le vostre simpatie vadano per l’unico senza cravatta (la camicia però ce l’ho, sia chiaro, in cotone fair trade della Coop comprata al cinquanta per cento nei saldi e pagata dodici euro e rotti) la cui partecipazione al consesso in oggetto è a dir poco superflua. E cioè me. Il vostro beniamino. Ma mentre sono lì e nessuno sembra dare molto peso alla mia casualfridayness penso a come starei conciato così, così come quelli per l’ascolto dei quali percepisco uno stipendio, perché non riesco proprio a trovare tra tutti quelli che vedo lì raccolti uno stile a cui potrei adattarmi. Con il mio fisico poi.

Quello meno peggio – secondo i miei canoni fermi al parka, jeans e anfibi – è seduto di fronte a me, ha uno spezzato con pantalone grigio scuro, giacca di una trama grigio chiaro-bordeaux, cravatta bordeaux su camicia classica azzurra e francesine testa di moro. Ecco, penso, domani vado dove so io e mi compro un abito così, di sicuro non sfigurerei in un ambiente come questo. Perché una volta era così. Da ragazzi ci si vestiva in un modo, da adulti in altro e non c’erano punti in comune e quando c’erano era perché c’era qualcosa che non andava. Ora non è più così, almeno nei posti come questi in cui non c’è nessuno che me lo fa notare.

Poi la riunione finalmente si conclude, e si interrompono le sfide subdole tra chi vuole mantenere il proprio spazio e le provvigioni a cui ha fatto presto ad abituarsi. Tutti si involano perché il loro tempo è più prezioso del mio, la sala resta vuota e posso alzarmi senza vergognarmi di quel campionario del mio guardaroba perché sono rimasto solo. Raccolgo quelle poche cose che ho usato per far finta che le posizioni che gli altri sostenevano erano di mio interesse, mi faccio restituire il documento di identità dalla receptionist e già varcata la porta di uscita capisco che acquistando uno spezzato come quello che ho visto prima non risolverei nulla, perché dovrei averne almeno due, avere un ricambio per quando uno è da portare in tintoria. Già, la tintoria.