quando mancano le figure

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Con i figli l’utilizzo di un minimo di psicologia è un fattore decisivo. Dicono che la facilità con cui si riesce a raggirarli è proverbiale ma mica tanto perché raramente, esplicitando direttamente il proprio obiettivo, li si riesce a convincere con le buone su una determinata cosa. Aggiungo che anche con lo zucchero la pillola non va sempre giù e alla fine, quando ci sembra di aver perso troppo tempo in una modalità di confronto che a noi adulti sembra del tutto irrazionale e a un bambino tutt’altro, si opta per l’imposizione, cose tipo conto fino a tre con la voce grossa. Perché non sempre prendere alla lontana una comunicazione antipatica, indirizzarli verso un loro dovere o semplicemente suggerire loro un qualcosa che, una volta provato, siamo sicuri che gli piacerà è una metodologia che va a buon fine. Ogni bambino, come noi del resto, è irremovibile su qualche aspetto. Ma, a differenza nostra, non credo si tratti di pigrizia mentale, ignoranza o cocciutaggine fine a sé stessa. Mia figlia, per esempio, non ne vuole sapere di uscire di casa, un classico dei fine settimana, e questo indipendentemente da quanto la controproposta sia allettante o meno e comprenda ricompense materiali o no. Questo per dire che a volte anche facendo proposte ricche di divertimento in modo intelligente e subdolo, cioè senza chiedere il suo parere e dando per scontato che la cosa per cui ora ci prepariamo e usciamo si farà e la messa ai voti è fuori discussione, si ottiene un pugno di mosche in cambio e si passa al piano B, più grossolano ma di sicura efficacia anche a discapito dell’umore e dell’armonia del gruppo.

Ma c’è un ambito in cui mia moglie ed io non dobbiamo fare il minimo sforzo per avere il suo consenso, e dico per fortuna perché si tratta di una risorsa impagabile che fa sì che nostra figlia non si annoi mai (non credo di aver mai sentito dire da lei parole come non so cosa fare), e questo è fondamentale, soprattutto essendo figlia unica. Mi riferisco al momento della lettura. Leggere libri e fumetti è una delle sue attività preferite, si muove perfettamente a suo agio in biblioteca e sceglie i titoli e gli autori per l’infanzia che preferisce. Il lato più piacevole di tutto questo è che si fida di noi e dei libri che le proponiamo, difficilmente si rifiuta di iniziare una storia per partito preso e altrettanto raramente le lascia a metà, anche se talvolta è scettica sulle edizioni completamente prive di illustrazioni. I disegni hanno un forte appeal sui bambini, consentono di amplificare la loro fantasia fornendo spunti visuali per le sceneggiature mentali che costruiscono procedendo nelle trame più intricate. Ma anche qui abbiamo a che fare, talvolta, con atteggiamenti del tutto incomprensibili per i genitori. Con mio grande rammarico, non sono ancora riuscito a farle leggere Marcovaldo di Italo Calvino, uno dei testi più divertenti per l’infanzia che ricordi. E questo perché sono in possesso di una edizione economica e solo testo dell’opera, e tutte le volte in cui ho provato a sottoporgliela ho avuto solo ritorni negativi. Ho cercato di descriverle la ricchezza dei racconti e la figura stessa del protagonista, ma senza successo. Nessuna strategia di persuasione ha funzionato, mi sono offerto anche di leggerlo a voce alta ma niente. Un’opportunità guastata da un tascabile da due lire, senza nemmeno un disegno. E qui con la psicologia c’è poco da fare, non c’è strategia che tenga, e non è possibile imporre nulla con l’autorità. Quel libro di sole parole stampate non l’ha mai convinta a priori, e il guaio è che non riesco a recuperare in nessun modo. Un semplice “non sai cosa ti perdi” non è assolutamente sufficiente.

politiche familiari

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Ci sono i dialoghi che si fanno solo al sabato mattina tra moglie e marito quando l’atmosfera è perfetta per lasciarsi crogiolare nella sicurezza del primo giorno festivo, consapevoli che ce n’è ancora uno dopo. Che poi è il ragionamento che facciamo tutti, per illuderci che quei due giorni che l’economia ormai ci ha persuaso essere meri separatori della settimana lavorativa siano tre o quattro. Fuori è tutto grigio, sul piatto (per modo di dire) c’è l’ultimo dei Sigur Ros, la bambina si gode ancora il sonno del primo giorno di vacanza, e entrambi conveniamo che quando si parla di tutela della famiglia, al di là della sua composizione, quando si pensa alle agevolazioni economiche per ogni figlio, quando si dice che è bene incentivare i giovani a rendersi indipendenti e a creare la propria, si sposta il vero nocciolo della questione: uno sceglie con la massima accuratezza la persona con cui passare la propria vita e poi è costretto a trascorrere otto ore al giorno per cinque giorni alla settimana con gente di cui non gliene frega un cazzo. Per non parlare dei contratti del commercio e della babele di turni degli esercizi commerciali, quelli che il sabato e la domenica se la passano dietro una cassa con la pistola RFID in mano. Il fatto è, e credo di interpretare i desideri di molti, che non vogliamo più soldi, non vogliamo incentivi e non vogliamo agevolazioni, tantomeno recuperi. Vogliamo solo più tempo da trascorrere insieme, più mattine da dedicarci, più pomeriggi per giocare con i nostri figli, più serate per vedere film insieme senza l’assillo del doversi svegliare alle sei la mattina seguente per andare in ufficio. E fa sorridere l’enfasi delle iniziative istituzionali dedicate alla cura dei nuclei famigliari, quelli che si chiamano pure “family day” come se il giorno per noi e i nostri cari fosse una sorta di animale in via d’estinzione. Il giorno della famiglia, o della coppia in tutte le sue varianti, il giorno da trascorrere con chi amiamo dovrebbe essere ogni giorno in cui ne abbiamo bisogno. Che la sostenibilità parta da qui, da questo divano, dall’armonia tra noi e i nostri simili. Un programma così vincerebbe qualunque elezione.

donne nude

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È che se ho del tempo libero vado avanti con il libro che sto leggendo, e già mi sento in colpa a penalizzare la saggistica ma il desiderio di un buon romanzo alla fine prevale. Mi piacerebbe e sono certo che mi consentirebbe di imparare qualcosa anziché condividere empaticamente gioie e dolori dei protagonisti di questa o quella storia, ma ogni volta, quando sono a poche pagine dalla conclusione e posso sbizzarrirmi nella scelta un degno sostituto, ho il dovere morale di andare sul sicuro, e “narrativa” è la prima tra le chiavi di ricerca per la selezione del titolo successivo.

Questo per dire che è passato tanto tempo dall’ultima volta in cui ho acquistato una rivista in edicola. Sono anni, ne sono certo. E pensare che per buona parte della mia vita la lettura dei magazine musicali ha costituito la principale fonte di informazione e aggiornamento. Ho investito da ragazzo paghe e paghette in cose tipo Rockerilla, Ciao 2001, Mucchio Selvaggio e Rockstar, nella soffitta della casa dei miei genitori ci sono ancora annate intere di pubblicazioni. Inutile sottolineare che, nel mio caso ma so di non essere l’unico, Internet ha soppiantato anche la consultazione dei periodici di settore. Oddio, la mia passione per la musica per fortuna è diversa dall’idolatria tipica dell’adolescenza, posso dire che si è evoluta e certa letteratura sul pop oggi mi interessa poco o niente (è chiaro che sto mentendo). Ma da quando c’è la rete sappiamo tutti come sono andate le cose.

Stesso discorso per settimanali e mensili di attualità. D’altronde, se non si vuole ricorrere a una emeroteca pubblica fornita e comoda, è anche difficile scegliere tra i prodotti da acquistare in edicola. L’Espresso, Internazionale, Diario per dirne alcuni, il budget è quello che è e poi si ritorna al peccato originale, ovvero il tempo a disposizione da dedicarvi. Non ce la farei a leggere tutto. Occorre fare un discorso a parte per l’editoria tipicamente femminile che comunque mi pare aver ancora un suo perché, almeno da quello che vedo durante i miei percorsi quotidiani in treno. Qualche “pendolaressa” con Vanity Fair o Donna Moderna la incrocio sempre, per non parlare dei periodici dedicati al gossip che sono gli unici a contendere alla cartaccia free press la leadership tra le carrozze.

Questa mattina invece mi è capitato di condividere gli angusti e temporanei spazi di viaggio con un tizio che sfogliava una copia di Max, una pubblicazione che a dirla tutta non pensavo nemmeno fosse ancora in commercio. Una rivista che non stona mentre si è in attesa del proprio turno per lo shampoo nella bottega di un coiffeur e che con altre perle soft-core come GQ svetta su pile di editoria per veri intenditori a coprire altre riviste sotto, dalle copertine e dal contenuto inconfondibile. E sono rimasto colpito dalla concentrazione con cui l’uomo leggeva l’articolo dedicato alla playmate del mese, che non si chiama playmate ma piuttosto maxmate o boh, magari non la chiamano nemmeno tanto l’importante non è certo il naming della rubrica. Dicevo della concentrazione. Riga per riga, assorto in non so cosa il redattore potesse dire a corollario di foto talmente esplicite. Nulla di scabroso, anzi un soggetto oltremodo corroborante da quello che riuscivo a vedere, cercando di non passare per uno che importuna gli altri. Un bel modo di iniziare la giornata.

A quel punto ho pensato che, una volta terminata la parte redazionale, il servizio includesse anche il paginone centrale fatto di tre ante con la foto completa della ragazza di copertina in deshabillé. Questo lo ho solo immaginato, non dovete pensare che io legga cose del genere, nemmeno dal parrucchiere. Ma, quando il tizio ha voltato la pagina, ha sollevato la copia di Max verso di sé orientandola verticalmente con l’obiettivo di avere la vista completa a colpo d’occhio del corpo scoperto che ivi era ritratto (e aggiungo probabilmente, non dovete pensare che io conosca per certo la percentuale di parti del corpo scoperte delle foto di cantanti e attrici e fotomodelle “intervistate” su Max) precludendone così la condivisione con gli astanti che stavano mostrando una palese curiosità, verso i quali per onestà intellettuale mi astengo da ogni tipo di giudizio. Ma il modo con cui il lettore ha alzato le sopracciglia è stato più che esplicito. Tanto che ha bruscamente deciso di interrompere la lettura, ha ricomposto l’ordine delle pagine e ha riposto la pubblicazione in borsa. Evidentemente per oggi ne aveva avuto abbastanza. Lui.

aspetto che si libera

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Credimi, ti capisco. Capisco quanto sia alienante stare seduto tutto il giorno in un ufficio in centro davanti a un Macbook Pro a scrivere cose nelle quali non credi perché fare comunicazione è principalmente una finzione. Lo so, nessuno è convinto che tu abbia interiorizzato così tuoi i prodotti dei quali esalti le caratteristiche, non per questo quando il tuo lavoro che ormai è industrializzato quanto la produzione di un’automobile arriva a destinazione, le persone e le aziende che leggono quello che ti sei inventato decidono grazie a te che compreranno quello che consigli tu ed è questo che conta. Ma tra gli addetti ai lavori è chiaro che il tuo ruolo è pari a quello di un attore che a seconda del copione recita la sua parte. Il che, come dici tu, è oltremodo avvilente. Per questo sono convinto che sia ovvio che dopo tutti questi anni tu sia giunto al capolinea, che i clienti e i loro product manager ti abbiano spremuto a sufficienza. E sempre per questo quando mi dici che basta, che vuoi licenziarti da un impiego a tempo indeterminato per metterti in proprio, io sono orgoglioso di te e non posso che ammettere che tu stia facendo la cosa migliore. Davvero. Avrai facoltà di scelta, avrai pieno controllo della tua vita professionale che per un errore che è tutto nostro coincide sempre più con quella personale, potrai dire si o no a quello che i clienti ti proporranno. Finalmente libero. È giusto che sia così: dai le dimissioni, intraprendi la tua strada, sii artefice del tuo futuro. E avvertimi quando lo farai, così potrò inviare il mio curriculum e candidarmi al tuo posto.

una cosa per volta

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Nell’ordine trovo: una confezione di salviette umidificate, quelle che si usano quando sei in giro e tuo figlio riempie il pannolino e non c’è acqua corrente tantomeno un posto dove cambiarlo, tanto che la prima volta che in Italia ne ho visto uno ed ero all’Ikea ho pensato che esagerazione, si vede che non è un’azienda italiana. Poi, da genitore, ho imparato a coglierne l’assenza. Dopo una decina di metri c’è un ciuccio, che all’inizio quando ti cade lo metti in quarantena affogato nell’amuchina quando non lo getti direttamente via e poi dopo un po’ di mesi, quando vedi che malgrado te i bambini crescono lo stesso, gli dai una sciacquata alla fontana e glielo piazzi in bocca, tanto tuo figlio si è fatto gli anticorpi. Il terzo indizio è una scarpina, altrettanto facile da perdere perché quando sei a spasso con il passeggino e tutto il kit di sopravvivenza agli ambienti esterni non sono poche le cose a cui pensare. Per non parlare di quando spingi il pupo tutto orgoglioso della tua creatura e ti squilla il telefono, una chiamata di lavoro e finisce che qualcosa ti cade e non te ne accorgi.

In questo le mamme sono superiori a noi papà, anzi anticipo le vostre obiezioni scrivendo che le mamme sono superiori ai papà in tutto, ma per tornare al nostro caso specifico, queste creature superorganizzatissime intelligenti e multi-tasking che sono le nostre compagne di vita sono davvero impeccabili e quando ci vedono uscire di casa soli con i nostri figli si dilungano in raccomandazioni suscitando il nostro disappunto per la mancanza di fiducia, che poi si conferma mal riposta. Perché a loro non capita mai di dimenticare qualcosa, uscire senza fazzoletti di carta, smarrire golfini o lasciare i libri della Pimpa sul tavolino della gelateria.

Ma questa volta sono io a sbagliarmi, perché chi torna indietro a raccogliere l’involontaria semina è una donna. Ahi ahi ahi, mi vien da dire, mentre mi chino a raccogliere la scarpina per aiutarla in questa fase di redenzione a ritroso. Nel frattempo mia figlia, che mi segue in bici, ora che siamo entrati nel parco accelera per raggiungere le sue amiche e a quel punto, e almeno per le due ore successive, so già che non la vedrò più. Sono finiti i tempi delle spinte all’altalena e delle rincorse sulla giostra, e un po’ invidio la madre distratta che spinge una bimba che probabilmente cammina a malapena. Ora il mio ruolo qui al parco è solo di fornire supporto on demand, le richieste si riducono di settimana in settimana. Ogni tanto do un’occhiata per vedere che tutto fili liscio, che mia figlia sia nei pressi. Ecco, si è già allontanata. Pazienza.

Così mi metto a leggere il libro che ho portato con me, non prima di notare un altro genitore in erba, il papà di un bimbo che seduto poco più in là sta raccogliendo i pezzi per rientrare, mettendoli alla rinfusa nel vano sottostante il passeggino, uno spazio utile come ripostiglio per palette, secchielli, palline e altri ameni divertimenti per la primissima infanzia. Il bimbo gli sale in braccio e insieme si avviano verso l’uscita del parco, il papà ogni tanto saltella e il piccolo ride, oh come ride. Quanta nostalgia, un tempo anche io ero il mezzo di locomozione preferito di mia figlia. Li intravedo infine laggiù nel parcheggio, il papà apre la portiera e sistema il figlio sul portabebè. Poi sale al posto di guida e parte. Ed ecco la morale della storia. Il passeggino con il vano portagiochi traboccante di plastica colorata resta qui, di fronte a me, dimenticato dal padre premuroso e giocherellone per il quale due cose da ricordare sono già troppe.

la vita in diretta

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Il sistema di consumi che ci persuade circa l’adeguata agenda di acquisti da smarcare, con tanto di priorità relative e assolute e piano di finanziamento, è un modello dinamico che include o espelle per comprovata obsolescenza sempre nuovi elementi. Un carrello comunque costantemente pieno fino all’orlo che oggi comprende cose che vanno da un piano tariffario Internet per smartphone al cardiofrequenzimetro passando per l’automobile ecofuel, l’abbonamento all inclusive a Virgin Active, la web tv, il manuale di istruzioni sulla dieta Dukan, qualche coupon dei brand di acquisto collettivo da lasciar scadere per manifesta impossibilità di utilizzo e le unghie tutte pitturate e intarsiate. Mi chiedo quando per esempio sia caduto in disgrazia il business della videochiamata tramite cellulari e me lo chiedo perché ho riesumato un vecchio dispositivo mobile – vecchio ma in grado di rispondere alle funzioni per le quali è stato progettato ovvero chiamare e inviare sms, ricevere chiamate e sms – la cui (perdonatemi il termine) interfaccia utente mette in bella mostra il pulsante “videochiama”, una caratteristica che fa sorridere oramai che la moda è passata tanto quanto il relativo spot e testimonial annessi. Insomma, telefonare mettendoci la faccia non piace a nessuno, non puoi nemmeno mentire su dove ti trovi o metterti le dite nel naso se l’interlocutore ti annoia. Ma scommetto che c’è un marchio, lo stesso che ha rilanciato alla grande il tablet dopo che la prima ondata di produzione aveva dato profitti disastrosi, che è pronto in qualche modo a farci tornare indispensabile questo mix di comunicazione personale da remoto ma vis a vis, imbellettandola un po’ e facendola passare per una cosa che ci fa sentire ancora più fighi.

interurbana love song

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Solo quando lo apro alla pagina del paese in cui abito e mi appresto a cercare il primo cognome della lista di genitori da avvisare, mi rendo conto delle dimensioni del font con cui è stampato, un corpo che l’ultima volta in cui l’elenco del telefono mi era servito non avevo alcuna difficoltà a leggere e che ora, ad almeno quindici anni di distanza da quel momento, l’età e i suoi riflessi sulla vista me ne rendono la consultazione praticamente inaccessibile. Ma non è una questione di presbiopia o di diottrie. Quindici anni fa, l’ultima volta in cui ho consultato un elenco telefonico per cercare un numero, l’ho fatto perché avevo a diposizione uno strumento indispensabile per trovare informazioni importanti come i numeri telefonici fissi, sistemati in ordine dalla a alla zeta. Gli elenchi telefonici di città come Milano, poi, erano composti da più tomi e si accompagnavano a pagine gialle di altrettanto spessore. E mai avrei pensato di doverne utilizzare uno nel 2012 se non per un’urgenza, quella di attivare una catena tra le famiglie dei compagni di classe di mia figlia per diramare un cambiamento di programma all’ultimo minuto in un giorno festivo. Ma a casa di mia suocera Internet non c’è, e né io né mia moglie abbiamo memorizzato sui nostri cellulari la lista con tutti i contatti che la rappresentante di classe ha distribuito a inizio anno.

Così ecco che ci viene presentata la soluzione sotto forma di Pagine Bianche, ora si chiamano così, l’elenco che nel tempo si è più che  dimezzato sia per la varietà delle compagnie telefoniche sul mercato e la possibilità di scegliere di non rendere pubblico il proprio nominativo, che per il crollo dell’importanza del telefono fisso. E anche se ci fosse un modo per includere i cellulari, la flessibilità con cui le persone cambiano il numero ne farebbe perdere comunque attendibilità.

E infatti su cinque numeri che dobbiamo cercare ne troviamo a malapena uno. È evidente che nel 2012 gli unici a ritirare la loro copia ogni anno siano i nuclei famigliari come questo, persone anziane nate con il disco e i modelli in bachelite e cresciute a doppino e cornetta, che ritengono tuttora la linea fissa una base indispensabile per comunicare con il loro mondo di contatti: figli, nipoti, medico, amici, carabinieri e soccorsi vari per le urgenze. Numeri scritti a penna su agende a fianco del cordless  ma che si ricordano ancora tutti a mente, quante ne conoscete di persone così? E l’elenco telefonico sotto, negli scaffali del mobiletto, per tutti gli altri numeri che non hanno voluto nemmeno memorizzare nelle rubriche dei cellulari a cui si sono dovuti abituare.

Quelli come me, della generazione a cui Google ha reso inutile tutto persino la memoria, non raccolgono nemmeno più le nuove edizioni che qualcuno ogni anno deposita nel portone auspicando in un cambio con quelle passate ma con scarsi risultati. Una sorte ingenerosa per uno dei principali punti di riferimento di un tempo. Quegli scaffali nei bar colmi di dorsi verdi di volumi, uno o più per provincia, in cui era contenuto il patrimonio umano di un’intera nazione, tutti quanti elencati allo stesso modo, al massimo con la propria carica davanti al cognome. E lo so che anche qui, sull’Internet, è lo stesso e nomi e numeri saltano fuori. Ma vederli stampati conferiva una sorta di attestato di esistenza anche all’ultimo dei poveri dotato di telefono privato, e per gli utenti di cotanto censimento il potere di scorrere il dito su nomi e cognomi di ogni città fino a fermarsi sull’abbonato oggetto della ricerca non ha eguali, ancora oggi.

da che guevara a madre teresa

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Di prima mattina mia mamma mi telefona sul cellulare pensando che io sia uno delle migliaia di partecipanti alla messa del Papa organizzata nel campo di volo di Bresso che, in effetti, è a pochissimi chilometri da casa mia e di cui sta seguendo la diretta tv. Ma questo non fa di me un presenzialista degli eventi pop, tantomeno un praticante. E io a spiegarle che no, che non siamo di quella parrocchia lì e, a dirla tutta, di nessuna parrocchia tantomeno sotto il ticket Ratzinger-Bertone. Così spero in un’indulgenza da parte sua, d’altronde il dialogo su questo argomento è impossibile da tempi meno sospetti e mi chiedo in base a quali indizi mia mamma ritenga cambiato il mio rapporto con la chiesa e la religione rispetto all’ultima volta in cui le chiesto l’utilità di seguire i programmi su Tele Padre Pio.

E oltre a questo, tutto intorno è un continuo scampanio che va a completare la già ampia copertura mediatica della giornata delle famiglie come le pensano loro, come a dare per scontato che la nostra società è così, prendere o lasciare, siamo noi che ci dobbiamo adattare. Cioè se siamo italiani siamo cattolici e dobbiamo considerare il Papa la nostra guida spirituale e temporale ed è una cosa di cui da sempre mi sfugge il nesso pur ricordando, ancora a quarant’anni di distanza, molte preghiere a memoria. Fuori c’è poca gente a causa del blocco del traffico, nel parcheggio che il mio comune ha riservato ai pellegrini – così dicevano i cartelli di divieto di sosta – stanziano un paio di camper provenienti dal sud e un pullman in cui l’artista si gode il fresco del parco limitrofo con le porte aperte. Ogni tanto un elicottero passa sopra, il ronzio interrompe il silenzio di una giornata che non ne vuole sapere di sembrare come tutte le altre. Ma la metafora definitiva me la fornisce l’oratorio lì a fianco, con gli adolescenti che si ritrovano sulle panchine a fumare sigarette, flirtare tra di loro e armeggiare con gli smartphone, in fondo non ci sono altri spazi pubblici da utilizzare.

ce l’hai scritto in faccia

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Quella volta in cui ci è venuto l’istinto di rubare per amore, è stato per amore della musica. E l’amor proprio misto all’amore vicendevole ci ha fermato qualche metro prima del crimine ma poi quante volte ci siamo chiesti se l’avremmo fatto sul serio. È che quando suoni hai pochi soldi, se hai pochi soldi non puoi permetterti certe cose che ti fanno salire di livello come strumenti musicali, amplificatori, accessori e studi di registrazione. Se vuoi farti i soldi devi lavorare, e se lavori non hai tempo per suonare, se non suoni non componi musica e la questione finisce lì come per milioni di altri artisti o aspiranti tali al mondo. Così sei tentato dalle scorciatoie, ma non quelle che servono per diventare milionario e scappare su un’isola dei Caraibi. Bastano quei quattro soldi per avere la base sufficiente a esprimerti. Gli strumenti fanno la differenza. E quella volta in cui ci è venuto l’istinto di rubare per amore, ed è stato per amore della musica, è accaduto una serata d’estate durante uno spettacolo all’aperto.

Al parco comunale c’era un evento e non ricordo nemmeno più cosa fosse. L’ospite era Joe Squillo che già non se la filava più nessuno, questo per farvi capire quale fosse il budget degli organizzatori e il livello. Joe Squillo suonava in playback e aveva il suo gruppo che faceva finta come tutti quelli che suonano in playback. Il tastierista si dava da fare dietro a un DX7 nuova serie, quelli splittabili con il floppy disk per caricare e salvare suoni e patch. Faceva ridere perché non era nemmeno collegato, e per gli addetti ai lavori come noi era un’ingenuità imperdonabile. Già il playback è poco serio, almeno cerca di dare una parvenza di impegno nel mistificare la truffa. Insomma che la performance finisce e si sgombera il palco per lasciar posto a una esibizione di body building. Il DX7 viene accantonato sotto le scalette di accesso ai lati del palco. Così, novelli Bonnie e Clyde con la passione per i synth, ci scambiamo un’occhiata di intesa e ci appropinquiamo.

Non siamo due ladri, ma la tentazione ti ci porta, lo dice il proverbio stesso. Il DX7 è in un punto buio, ci sono alberi e la zona è trascurata. Gli addetti al service e il direttore di palco sono tutti su a godersi la carnazza maschile e femminile tutta sberluccicante di olio. Ci avviciniamo e il synth ora è proprio a due passi, basterebbe essere scaltri, rapirlo come se si fosse due roadies e via, la macchina è lì vicino e da domani si suona con il DX7. Ma nessuno dei due vuole fare la prima mossa, così perdiamo l’attimo perfetto e, allontanandoci dalle quinte,ci diciamo con un sospiro che il crimine non paga. Mesi dopo, in un programma di video musicali, notiamo la partecipazione di  un certo Charlie che canta una roba tra la discoteca e il pop demenziale intitolata “Faccia da pirla”. Ed è proprio quella faccia da pirla che riconosciamo, lui è uno di quelli del gruppo il cui  tastierista prendeva a manate il DX7 sul playback dei pezzi di Joe Squillo, e la prima cosa che ci viene da pensare è che uno così il furto di un synth se lo meritava alla grande, magari gli avrebbe giustamente interrotto la carriera in tempo.

stupefatti

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I drogati, con l’accento sulla a, sono stati autentici protagonisti della nostra generazione. Il termine, che poi è stato sostituito da un più politicamente corretto tossicodipendenti tanto che poi ci si aspettava un decisivo “diversamente lucidi”, ricorreva in tutte le raccomandazioni dei nostri genitori. Fa’ attenzione ai drogati. Non andare lì, c’è pieno di drogati. Perché uscivi e li vedevi deambulare in centro mescolati alle persone normali come ombre invisibili ai più ma capaci di fare danni e non solo a loro stessi. Come morti viventi appena usciti dalle loro tombe erano in grado di trasmettere la loro condanna solo con uno sguardo, parlandoti, toccandoti. Questo in tempi non sospetti, almeno dieci anni prima dell’AIDS. La condanna della vita ai margini, sprofondati in un buco nero, anzi in un buco e basta.

E l’odore dei drogati, l’odore della pelle, era inconfondibile. Persino il colore. Li vedevi durante i momenti dedicati alla raccolta dei fondi necessari all’acquisto dei generi, la sostanza della felicità. Era tutto un chiedere cento lire, poi cinquecento, poi mille e poi con l’euro erano già quasi morti quasi tutti, almeno quelli sfuggiti alle comunità di recupero. Quelli più incattiviti dall’astinenza, i casi più disperati, scippavano e rubavano per poi rivendere e mettere insieme il gruzzolo, e qui c’è poco da scherzare perché sapete benissimo che c’erano anche modi più degradanti di tirare su la quota necessaria. C’erano i momenti delle crisi e dello stare male e dell’eroina tagliata grossolanamente, ogni tanto capitava in centro quello che crollava per terra e gli amici scappavano perché le storie erano davvero tese, poi la Polizia e l’ambulanza e cosa gli raccontiamo. In certi momenti non si guarda in faccia nessuno.

Li vedevi nei momenti della catarsi, il massimo effetto di quello che avevano in corpo, fasi in cui i drogati vivevano nella dimensione parallela. Non ti vedevano, ti scontravano camminando, si addormentavano seduti sulle panchine con la sigaretta in bocca che si consumava e la cenere che gli cadeva sulla camicia sudata. Li vedevi sui treni, all’andata al limite della sopportazione, al ritorno fatti e finiti che a volte il controllore doveva svegliarli al capolinea. E li incontravi nei portoni nei pressi delle farmacie di turno, abitualmente, alla stessa ora, con tutto il loro necessaire per affrontare il viaggio. L’acqua, il cucchiaino, l’accendino, la monodose. Facevi anche conoscenza, ciao non ti preoccupare appena ho finito pulisco tutto. Comunque quando scendevamo le scale, nella penombra, era sempre d’obbligo controllare se era vero, se non c’erano chiazze di sangue o aghi lasciati in giro. Poi i drogati si sono avviati all’estinzione, almeno quelli che abbiamo conosciuto noi con i loro riti e il loro desiderio di autodistruzione, di essere kamikaze per lanciarsi carichi di roba buona contro il nemico ed esplodere tra le braccia del futuro, non importa in compagnia di chi.