cerchiamo di essere serie

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Diciamo basta ai fine-settimana interi buttati via nella pratica del binge watching. Volete sapere perché i poteri forti insieme a big entertainment hanno inventato le serie tv? Ovvio: per farci chiudere in casa nelle belle e brutte giornate a guardare intere serie tv da dieci puntate a stagione per dieci stagioni in una botta sola e impedirci di non scendere in piazza a fare la rivoluzione. Quello dei telefilm è il nuovo oppio dei popoli. C’è una gag nell’Internet da qualche parte di una stand up comedist italiana che ammette di essere terrorizzata dall’uscire e incontrare altre persone perché non sostiene emotivamente i suggerimenti del prossimo circa le nuove serie tv uscite. L’hai vista questa? L’hai vista quest’altra? E tu ti senti in colpa perché nemmeno lo sapevi e ti servirebbero almeno due vite in più per stare al passo con l’industria della fiction.

La serie tv è il nuovo modello di consumo americano supersize e, tanto quanto il resto delle cose a cui ci dedichiamo, ci siamo ancora una volta cascati in pieno. In otto ore di fila – la durata media di una stagione, a stare larghi – ci stanno una corsetta, un paio di scopate, un centinaio di pagine di libro, una telefonata alla mamma lontana, una pizza e una birra e pure un film di lunghezza standard. Che poi, come tutte le altre sovraesposizioni a cui siamo soggetti, oltre al buon senso si perde l’essenza delle cose. La storia che dura otto-dieci episodi dev’essere come minimo la “Divina Commedia”, i “Promessi Sposi”, “Guerra e pace”. Altrimenti lo standard a due tempi da quarantacinque minuti con intervallo è più che sufficiente. Mia moglie ed io, alla sigla di coda dell’ultimo episodio della prima stagione dell’ennesima serie numero uno in Italia su Netflix dal titolo “L’estate in cui imparammo a volare”, iniziata domenica dopo pranzo e terminata alla mezzanotte dello stesso giorno, abbiamo detto basta. Basta serie tv. Almeno fino a domenica prossima.

amici

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Pensavo alla differenza che c’è tra due celebri trasmissioni televisive che hanno lo stesso nome ma uno è in inglese e l’altro in italiano. Qualche sera fa ho intravisto una scenografia da incontri ravvicinati del terzo tipo con la realtà che ci circonda, facendo zapping, e ho scoperto che si trattava della finale di “Amici”, così ho cambiato subito canale. Poco prima invece mi ero sparato con mia figlia una salubre maratona Netflix di diversi episodi in sequenza della prima serie di “Friends”, ve lo ricordate? Alla base della differenza, facilmente appurabile, ci sono due narrazioni antitetiche: la finta amicizia nella reale finzione (nell’accezione di fiction) perché definita da una sceneggiatura dichiarata, e la finta amicizia nella finta realtà ancora definita da una sceneggiatura ma che, nel berlus-talent, non è dichiarata (anche se è il segreto di Pulcinella). Lo so, fa venire mal di testa pure a me. Abbassiamo allora i toni. “Friends”, pur con tutti i suoi aspetti anacronistici e superati, resta comunque un programma molto divertente. Ha tempi inimmaginabili per il pubblico delle serie tv di oggi e, talvolta, tratta argomenti spinosi in modi che oggi risulterebbero inammissibili, ma il divertimento è assicurato. Prova ne è che anche mia figlia ride di gusto. “Friends” mi piace anche perché lo seguivo alla tv quando mi ero appena trasferito a Genova e, addirittura, ne programmavo la registrazione delle puntate sulle vhs. Oggi ha la stessa funzione dei musicarelli che trasmettevano senza vergogna di continuo in estate e qualcuno, senza vergogna, me lo sono visto pure io. Ma quelli sono anni 60 o, al massimo 70. Invece “Friends” è una delle cose più anni 90 che mi vengano in mente quando devo portare come esempio qualcosa di anni 90, non so se mi seguite. Certo, dà una visione un po’ distorta del modo di rendersi indipendenti in quell’anticamera della vita che sono i vent’anni e rotti ma va bene, a chi non piacerebbe avere come vicine di casa e, soprattutto, come amiche Jennifer Aniston e Courteney Cox?

quello che può succedere ad aver visto troppe volte “Fuori orario”

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Ciao, mi chiamo Roberto e ho l’ossessione del labiale. L’ossessione del labiale è una patologia che induce le persone come me che vi sono soggette a osservare le labbra (quelle della bocca, nel senso che è bello osservare anche le altre e anche quella può diventare un’ossessione ma in quel caso il concetto di labiale necessita di ben altro genere di definizione) dicevo a osservare le labbra trovando il piacere della massima comprensione nell’associare i suoni emessi durante la fonazione al movimento esercitato dalla componente più esterna dell’apparato preposto a ciò. Che significa che tu parli e a me, anziché guardarti negli occhi, mi viene da osservarti la bocca.

Vivo nella convinzione che seguire questa pratica consenta di comprendere meglio le parole e il loro significato, prova ne è che al telefono devo concentrarmi il doppio e basta un niente che mi perdo ampi passaggi della conversazione. Non solo: all’università cercavo sempre di prendere i posti più vicini agli insegnanti quando seguivo le lezioni, adducendo la scusa di problemi di udito per poter usufruire di quel meraviglioso rinforzo comunicativo che è la bocca intenta a esprimersi, cosa che permette una doppia ricezione dei significati. Quello della parola, che passa attraverso le orecchie e arriva al cervello, e quello dei movimenti di labbra, denti e lingua che ti anticipano la sequenza dei suoni che seguirà nei successivi millesimi di secondo consentendoti di cogliere prima la parola pronunciata di lì a momenti e conseguentemente un back up con un ritardo impercettibile ma fondamentale, che raddoppia il messaggio in arrivo e ne moltiplica l’assimilazione. Il vantaggio è che sembra di sentire due volte ogni termine, ogni frase, ogni passaggio e questo ne consente una migliore comprensione.

Ma a parte sembrare un po’ spostati o affetti da una sorta di strabismo verticale, l’ossessione per il labiale comporta un ulteriore effetto collaterale. Provate infatti a seguire un film straniero doppiato in italiano e le vostre abitudini allo studio della bocca altrui termineranno schiacciate dall’istinto di sopravvivenza o, per lo meno, da quello stato d’animo per cui, se avete pagato il biglietto del cinema, per una volta potete anche dimenticare le vostre assurde fissazioni. Senza contare che esistono anche molti film e telefilm in italiano in cui l’audio non viene registrato in presa diretta ma aggiunto con la stessa tecnica, per cui l’impressione della non perfetta corrispondenza tra lettere e movimenti dei muscoli della bocca induce a forti traumi psicologici. L’ossessione del labiale è utile anche a individuare se non c’è perfetta sincronizzazione tra una ripresa video e la sua traccia audio, ci sono scene su dispositivi digitali in cui per motivi di velocità del processore la codifica delle immagini rispetto a quella del suono non è perfettamente allineata, così uno può accorgersi subito se c’è qualcosa che non va.

Comunque se soffrite di ossessione del labiale dovreste fare come me e trattenervi. Almeno nella vita reale, a meno di casi soprannaturali o in presenza di persone possedute, difficilmente assisterete a fenomeni di enricoghezzismo, quindi sforzatevi di guardare altrove se non ricambiando lo sguardo di chi si sta rivolgendo a voi, eviterete inoltre l’inutile imbarazzo di chi non si sente molto a suo agio con la propria dentatura, autentica, fittizia o approssimativa, in pubblico.

sti cazzo di minion

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A me il fatto che ci siano persone adulte che discorrono con i coetanei e fanno le stesse cose di mia figlia con i suoi compagni di classe mi turba ancora, non so magari poi è normale che ci sia gente che a trent’anni ancora si trastulla con i videogiochi. Ho conosciuto per lavoro un giornalista grande e grosso – anche un bel ragazzo, per giunta – che di mestiere recensisce console e giochi e conduce pure un programma tv dedicato, e la cosa mi lascia perplesso ma probabilmente è un mio limite, concepisco ancora un netto distinguo per esempio anche tra la letteratura per ragazzi – dove ci sta bene il fantasy, per dire – da quella per grandi, dove maghi elfi e vampiri boh. Voglio dire che fare le cose da bambini insieme a loro è edificante, dedicarvici anche da soli sa un po’ di problematicità. Stesso discorso per i passatempi, ma qui vi confesso che se avessi in casa il Subbuteo (come si diceva qualche post fa) o l’autopista o il meccano farei discorsi meno da ipocrita. Se date un’occhiata a tutti gli spippolatori di smartcosi che vedete concentrati sui mezzi pubblici scoprirete che nascondono sempre uccelli che lanciano maiali, gelatine da distruggere o l’arte orientale della frutta da affettare al volo. E questo è niente in confronto ai giochi per dispositivi touchscreen pubblicati a corollario del secondo episodio di “Cattivissimo me”, un film assolutamente geniale e imperdibile se avete dei figli, ma che si sta trasformando in un’ossessione. Mi sento infatti circondato. Mia figlia proprio in questo momento è intenta a far volare quei mostrini gialli su panorami inventati, ma vedo che non è la sola perché è un’esperienza che mi capita sempre più e molto spesso con estranei di età superiore alla scuola primaria. Riconosco le vocine e i versi dei celebri aiutanti del protagonista ovunque ci sia del tempo da perdere o qualcosa da aspettare. Soprattutto da quando è comparso uno di quei nanerottoli monoculari in casa mia. Lo sgigotti e lui fa gnè gnè gnè. Gnè gnè gnè. Non si capisce nemmeno se siano maschi, femmine, transgender. Qualche giorno fa in due (umani adulti maschi) sono andati avanti un intero viaggio in metro a scambiarsi trucchi sui modi per portare i Minion alla vittoria. E la cosa mi ha fatto riflettere perché pure mia figlia, dopo qualche partita, si annoia e si mette a fare altro.

nel dubbio allora è meglio prenderla

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Non vale rivangare cose da un passato così remoto perché stai attento, ché ho memoria da elefante sul lungo periodo anche se a malapena ricordo com’ero vestito ieri. Scherzo, lo so, ero vestito esattamente come oggi, come domani, come tre giorni fa. L’episodio a cui ti riferisci invece mi vede protagonista, anzi, comparsa con una giacca blu da marinaio acquistata al mercato ma al mercato di trent’anni fa, che tutti dicono fosse diverso dalle bancarelle dei cinesi di oggi. Boh, non ho un’opinione e questo è un dettaglio che invece mi sfugge. Comunque sto controllando nella tasca della giacca che non mi siano cadute le chiavi dato che cappotti e giubbotti sono stati messi uno sull’altro senza tanti complimenti, gettati sulla catasta di sedie inutilizzate nell’angolo in fondo della sala dove si sta svolgendo la festa. Anzi, dove quel raduno di ragazzini riuniti all’insegna degli ormoni in agitazione volge al termine. Tu hai portato da casa quella specie di armadio di tuo padre che è il riproduttore di cassette con tanto di diffusori per la musica. Una festa senza disc jokey ma qualche nastro preparato ad arte in anticipo. Pochi veloci e molti lenti, con l’obiettivo di stringersi tra maschi e femmine. Omosessualità latente e comunque non pervenuta in ambiente di oratorio parrocchiale. Hai allestito l’impianto e ora, mentre tutti ci avviamo a fine sabato pomeriggio verso le nostre abitazioni, lo stai smantellando e noto che c’è fibrillazione. La ragazzina a cui ti sei dichiarato alla fine prendendola per sfinimento dopo averle monopolizzato le danze sta chiedendo pareri alle amiche del cuore sulla risposta da darti che, manco a dirlo, sarà un bel no con l’accento. Ti capisco, sai quante volte ci sono passato anch’io. Come biasimarla, non fa parte del gruppo delle già sviluppate, quelle di là con il seno e l’aria da grandi; è ancora di qua tra quelle non ancora sbocciate. Malgrado sia consapevole della naturalità dei rapporti sentimentali, di te ma come di chiunque altro, non sa che farsene. E se non mi sbaglio credo di aver pensato proprio così mentre ti aspettavo per aiutarti nel trasporto dell’hi-fi ma tu tergiversavi con cavi e spinotti per allontanare il momento del verdetto. Che poi non è un grosso problema. Non sei come quello alto alto e imbranato che lo ho osservato tutto il giorno a stringere in maniera folle una ragazza ballando tanto da farle male, e lo ho osservato solo perché al suo poso avrei voluto esserci io. Ma nemmeno come il nostro comune amico biondo con i boccoli, quello che in ogni occasione coglie il meglio sulla piazza come se fosse un fatto dovuto che la più bella scelga sempre il più bello, e il più bello è lui. Se n’è andato via poco fa con quella che indossava il maxipull attillato sulle curve, quella sì che è già oltre il confine della vita, quello a cui aspiriamo tutti. Ma forse non sai che invece la ragazzina che ti si è rifiutata, me la ricordo bene completamente sviluppata molti anni dopo che faceva le smorfie in un contesto simile – un party di carnevale per universitari o giù di lì – perché non gradiva pogare su “Me and the farmer” degli Housemartins, reputandolo un brano da donnicciole inglesi e che avrebbe preferito come minimo quei tamarri dei Gun’s, sapendo persino scimmiottare le mosse del cantante con la bandana in testa aggrappato all’asta del microfono. Veri uomini. E sì, lei è proprio la stessa che, qualche giorno fa, ha postato sul suo profilo Facebook la stessa canzone della band del futuro Fatboy Slim dicendo che in passato era stata la colonna sonora di amene sgigottate con amici nella sua utilitaria. Nulla di più falso, ci metterei la mano sul fuoco. Per questo non ha senso rivangare cose da un passato così remoto perché c’è una cosa che non cambia mai e che puoi dare per scontato: allora, ai tempi delle mele, come oggi, in pieni Social Network, comprendere certi comportamenti femminili è una cosa fuori dalla portata di gente come noi, di quell’altro sesso.

non c’è più religione

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A pochi passi dal mio nuovo ufficio c’è un esteso complesso scolastico di diversi gradi che comprende un oratorio parrocchiale, il che la dice lunga sulla proprietà dell’intero stabile grande quanto un quartiere a sé. Si tratta di un edificio dei primi del novecento il cui perimetro, frammentato da cortili delimitati da cancellate, a percorrerlo a piedi consente di smaltire un pranzo medio da giornata lavorativa.

La mattina è tutto un brulicare di genitori che accompagnano bambini, mamme e papà non più giovanissimi malgrado i figli in tenera età a cui si alternano analoghi quadretti di stranieri strutturati già più come l’opinione comune vorrebbe fosse composta una famiglia da un punto di vista della connotazione generazionale. Il che non vuol dire un cazzo, per carità, è solo che gli ultraquarantenni come me costretti nella postura da scudo protettivo verso l’esuberanza della progenie si caratterizzano per l’innaturalezza dei gesti di chi, con i capelli quasi bianchi, dovrebbe dare pacche sulla spalla a figli laureati o giù di lì e invece siamo ancora al livello delle gite al Museo Egizio di Torino. Ma – e chiudo questa parentesi da sociologia da tanto al mucchio – è evidente che un quartiere così come questo è abitato da gente che ha fatto carriera (per quelli come me che sono come loro ma non l’hanno fatta una qualunque indagine sarebbe banale) e dal relativo personale preposto all’aiuto famigliare. Tate, badanti, colf, portinai, tuttofare di evidente provenienza intercontinentale.

Verso le diciotto, invece, è tutto deserto tranne l’ingresso dell’oratorio, davanti al quale stanzia un gruppo di ragazzini sui quattordici o quindici anni, forse qualcosina in più. Notavo però le facce, l’abbigliamento e il comportamento di questo insieme piuttosto omogeneo che, a quanto sembra, frequenta il ritrovo parrocchiale o, almeno, sembra usufruire dei servizi di aggregazione. Un tempo i ragazzi dell’oratorio erano una categoria ben definita. Avete presente, no? Dicevi “quello è un ragazzo dell’oratorio” se intendevi uno un po’ babbionello, con il k-way chiuso e legato in vita come un’escrescenza corporea, gli occhiali con le lenti spesse e i brufoli, un taglio di capelli ordinario e una manifesta propensione alla conduzione di un’esistenza di fede e rigore. Nulla di negativo, anzi, vuoi mettere uno così con uno che da grande diventa come Pino Scotto o, peggio, Capezzone?

Ecco, i ragazzi che si ritrovano nei pressi dell’oratorio ubicato a un isolato dal mio ufficio, nel tardo pomeriggio, non sono così. Ascoltano Fabri Fibra con lo smartphone, sfoggiano creste e sputano, mentre le ragazzine vestono succintamente e molto attillato, discutono animatamente di tematiche tutt’altro che riconducibili alle Sacre Scritture e non invitano al contatto intergenerazionale. Anzi, diciamo che cambio il marciapiede proprio per non passare in mezzo a loro, per evitare di prendermi una pallonata, uno sputo sui pantaloni, qualche sfottò vista la mia appartenenza anagrafica. Insomma, tutto fa pensare a una categoria di giovinastri più affine a quelli che definiremmo teppisti di strada. Ed è strano, vista l’utenza del mattino. Nulla che richiami a una provenienza di buona famiglia o a un’estrazione di un certo livello. Chiaro che questa mia esposizione ottocentesca di una scena piuttosto comune a qualsiasi latitudine della nostra penisola è voluta e paradossale. I ricchi non mandano certo più in giro i propri rampolli adolescenti con i completi di lana e i papillon, e l’intamarrimento generale della nostra società è riuscito a superare le differenze tra le classi sociali più di ogni altro tentativo politico o culturale dei decenni passati. Più dell’associativismo, dei dopolavori, dei concerti di Pollini nelle fabbriche e delle gite sui campi da sci a prezzi popolari. Il problema è che tutto è omologato verso il basso, e questo sì, lo ammetto, è un giudizio morale.

adulti da almeno quattro generazioni

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Federico ha un fratello di trentasei anni. Non ci sarebbe nulla di strano in un’affermazione di questo tipo, se Federico non fosse un compagno di classe di mia figlia ed entrambi di anni ne hanno quasi nove. Poi so chi è suo papà, è di poco più giovane di me per cui è da scartare anche solo l’ipotesi che una volta sposato abbia adottato un ragazzo di sei o sette anni in meno di lui. Perché se così fosse, correrei a farmi adottare da qualche magnate del petrolio o da un miliardario prossimo a tirare le cuoia, in modo da godermi l’eredità per i miei secondi quarant’anni. Ma tutto questo per dire che quando ti sembra che i tuoi figli siano già così cresciuti, ti spiazzano con uscite del genere che ti fanno capire che di strada ne devono fare ancora tanta.

Questo non mi ha impedito – già che eravamo a cena lei ed io da soli e sembrava particolarmente propensa al dialogo – di riportare la conversazione su binari meno ionescani e maggiormente contestualizzati agli argomenti più caldi del momento, giusto per tornare sul tema. Che cosa avrà chiesto Federico a Babbo Natale, tanto per cominciare. Mi interessano di più le sue richieste di quelle del presunto fratello trentaseienne, che posso immaginare che tipo di desideri possa esprimere visto che il padre ha già regalato a Federico un iPhone dopo che lui si è concesso il modello nuovo, quello che costa un occhio della testa. Ma i dubbi sulla statura morale degli adulti nascono anche se ti capita di ascoltare le conversazioni in cui tra genitori ci si svelano trucchi come quello di darsi da fare all’alba dei giorni di festa con l’aspirapolvere a palla solo per impedire che il proprio figlio prolunghi la sua permanenza nel letto, a dormire fino a tardi.

Perché è vero che c’è una bella differenza tra lo svegliarsi alle 6:30 del mattino e uscire nel freddo per recarsi a scuola o al lavoro piuttosto che rispettare gli stessi orari ma per svolgere attività più soddisfacenti. Un hobby, una passione, uno sport. Ciò non toglie che venire a conoscenza di strategie a conferma di una dietrologia tendente all’ossessione manda in vacca tutto un percorso di costruzione di attendibilità e autorevolezza basato proprio sullo spessore etico. Tanto vale spalancare porte e finestre, aprire l’aria viziata dei figli viziati al gelo e ai gas di scarico nel senso di emissioni vere, quelle delle auto, e imporre un regime da caserma? Con che faccia vi presenterete la prossima volta in cui chiederete loro di seguirvi come esempio?

Del resto gli episodi in cui la credibilità dei vertici famigliari viene messa a dura sono all’ordine del giorno e vanno oltre gli adolescenti che trovano confezioni di preservativi nel cassetto del comodino di papà. Padri che broccolano sui social network ignari del resto del mondo che li mette alla berlina sfruttando quel panopticon virtuale il cui pannello di gestione della privacy è sconosciuto ai più. Madri che si conciano che è meglio lasciar perdere. I pargoli che oggi smanettano coi più evoluti dispositivi hi-tech senza nessun filtro sui contenuti sono gli stessi che qualche decennio fa giocavano a strip poker con le amiche nelle capanne costruite sugli alberi. Quindi stiamo calmi che lo spettacolo che offriamo non è certo dei migliori.

Ebbro di una divagazione così tossica che già mi sento la febbre, ecco un altro appiglio per tornare nel mondo delle fiabe. Papo, mi chiede la piccola ora, ma Babbo Natale come fa ad avere quattro virgola cinque miliardi di chiavi per aprire tutte le porte del mondo? Cara, le rispondo, vuoi che uno che riesce a consegnare quattro virgola cinque miliardi di pacchi in una notte non abbia una chiave universale in grado di aprire qualunque serratura? Però ricordati, aggiunge lei, ricordati che Livio è musulmano, da lui non va Babbo Natale ma una specie di suo aiutante.

supergulp

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Sono contrario, e lo dichiaro qui, alla deriva “teen” che hanno preso le sceneggiature degli episodi delle nuove serie di Scooby Doo, o Scubidut, come lo pronunciava mia figlia da piccola. Era il caso di intrecciare le trame horror barra poliziesche della “Misteri & Affini” con le schermaglie sentimentali tra Fred e Daphne, da una parte, e Shaggy e Velma dall’altra? Tutte quelle smancerie e tira e molla, che non sai mai come va a finire e cioè se poi nell’intimità del furgone qualche avance se la fanno, per non parlare della presunta possessività di Velma che vede come principale ostacolo alla sua serenità di coppia la fedeltà di Scooby al suo padrone. Meglio cambiare canale. Stasera, su Rai Yoyo e Rai Gulp, c’è stata un’infilata di disegni animati mica male. Il professor Baltazhar e il suo ingegno da guerra fredda. Poi l’ottimo Nat e il segreto di Eleonora e la sua fantasia un po’ retro e a due dimensioni, fino a una delle produzioni migliori di Hayao Miyazaki, Il castello errante di Howl. Insomma, se i soliti cartoni non vi soddisfano più, a voi e ai vostri piccini, al sabato non mancano alternative valide, così da non rimpiangere Scacciapensieri.

l’ora di applicazioni tecniche

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Tre bambini, tre giovani promesse della scienza e dell’invenzione. Il primo sogna di brevettare una pellicola trasparente protettiva in PVC, una specie di domopack con cui avvolgere completamente il proprio corpo a formare uno strato privo di imperfezioni tale da risultare invisibile. Lo scopo non è quello di conservarsi in frigo, ma proteggersi da schiaffi, pugni e calci. Si tratta infatti di una seconda pelle artificiale che rende imbattibili e consente di affrontare con coraggio i bulli e vincerli solo con la resistenza alle loro angherie violente. Il secondo, un po’ più già sentito, anela all’invisibilità ma non per spiare le donne che si spogliano come farebbe chiunque. Lui si limiterebbe all’assaggio di gelati per stilare una classifica dei prodotti più genuini. Per rendere più efficace il suo sistema troverebbe anche il modo di estendere l’invisibilità persino alla materia appena sfiorata dal corpo già invisibile, questo per non far scorgere a terzi le cucchiaiate di gelato levarsi dai contenitori nei pozzetti e scivolare giù, dalla lingua al palato fino all’esofago. Il terzo è il mio preferito. Un sistema per scrivere sulla parte posteriore delle palpebre in modo da leggere a occhi chiusi. Lo scenario tipico è la scuola. I ragazzini che non è che hanno così tanta voglia di studiare possono incidere le risposte con un inchiostro particolare sulla membrana interna, quella a contatto con le pupille, così chiudendo gli occhi sarà possibile trovare le risposte alle inique domande degli insegnanti. Sarà sufficiente un impercettibile battito di ciglia trattenuto qualche secondo in più per avere sempre pronta la risposta giusta e non rischiare brutte figure e voti negativi alle interrogazioni. Il rischio è prenderci gusto, trattenere le palpebre chiuse sempre più a lungo, leggere il testo scritto sotto più volte sino ad addormentarsi, e per questo ognuno è pronto a giurare che trovare un antidoto è impossibile.

qualcosa di te

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Aprire una busta o un pacco e trovare dentro un brandello umano è stato uno dei miei peggiori incubi durante l’infanzia. Chi è cresciuto negli anni settanta non ha avuto certo di che annoiarsi in quanto a paure suscitate dai fatti di attualità, e l’idea di quella macabra corrispondenza in transito sopra le nostre teste o mescolata alle comuni cartoline delle vacanze nei vagoni postali mi faceva rabbrividire. C’era anche il terrore che qualcuno mettesse una bomba nel portone, o di trovarsi coinvolti in una rapina a mano armata. Tutto merito del telegiornale all’ora di cena che è stato per almeno quindici anni un bollettino di guerra e che ci faceva vedere facce poco rassicuranti di ricercati, terroristi e delinquenti comuni che rilasciavano dichiarazioni ai giornalisti o dalle sbarre delle gabbie durante i processi, il che dava l’impressione che comunque la cosa non finiva lì. Poi gli animi più sensibili si portavano quelli come ultimi ricordi prima di addormentarsi, quindi potete immaginare che cosa il subconscio infantile era in grado di sceneggiare una volta spenta la luce.

Ma quella dei pezzi tagliati ai rapiti per dimostrare la veridicità del gesto mi aveva impressionato quasi più dello sguardo cinico di gente del calibro di Mario Tuti o Guido Giannettini. Il sequestro di persona è stata un’attività criminale che ha avuto una diffusione molto ampia in quel periodo, ora non ho dati alla mano ma per quello che mi ricordo tra il banditismo, i gruppi terroristici e la delinquenza organizzata era un continuo rapire persone a scopo di estorsione. Oltre a De Andrè, uno degli episodi più noti è stato quello di Paul Getty, o meglio John Paul Getty III, il nipote dell’omonimo petroliere americano rapito dalla ‘ndrangheta nel 1973. Come ricorderete, per spingere la famiglia a pagare l’oneroso riscatto, i sequestratori mozzarono un orecchio all’ostaggio e lo fecero pervenire alla famiglia, una pratica oltremodo barbara che, alla luce poi di molti altri cruenti episodi accaduti, non fu nemmeno una delle cose più crudeli perpetrate all’opinione pubblica, oltreché alle persone coinvolte.

Ma quello che mi sconvolse di più fu la foto di Paul Getty dopo la liberazione, mostrata con indifferenza alle otto di sera a grandi e piccini. Il profilo menomato dell’uomo trasferiva tutto il senso della libertà individuale interrotta con la violenza e la costrizione, il che potrebbe suonare strano tra notizie assai più forti come la guerra in Vietnam, le stragi, i conflitti tra stato e gruppi armati. Ma i bambini più semplici, come potevo essere io, non hanno quella sensibilità globale di pensare così in grande. Il perimetro domestico è lo spazio da difendere, l’internazionalismo e la solidarietà collettiva sono concetti troppo evoluti per una coscienza immatura. Confessai questa fobia a mia mamma, le dissi anche che avevo una giustificata convinzione di poter temere il mio rapimento. Lei mi rassicurò sul fatto che le persone poco abbienti come noi non avevano nulla da temere. Nessuno rapisce qualcuno se non c’è la possibilità di ottenere miliardi, mi disse, noi siamo fuori pericolo, non ti devi preoccupare. Che fortuna essere poveri, pensai. Ed ecco, vorrei sbagliarmi, ma quella è stata, credo, l’unica volta.