alla fine della terza stagione si capisce che è Alien

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Riesce difficile spegnere il cervello e abbandonarsi all’oblio a stelle e strisce indotto dalla visione di “Stranger Things”. Le americanate – nell’accezione positiva del termine – bisogna prenderle in toto e solo così si piange, si ride, ci si copre gli occhi per la paura, si sogna, si ricorda, si guardano tutti gli episodi uno dietro l’altro, si paga più che volentieri l’abbonamento a Netflix. Se inizi a sezionare lo spettacolo come al cospetto di un film dei fratelli Dardenne qualunque la poesia va in frantumi. Di certo non è facile mettersi al riparo dalle numerose citazioni riconoscibili nella serie tv di maggior successo di tutti i tempi. Giunti alla terza stagione possiamo quindi considerare “Stranger Things” il più sentito omaggio della televisione aumentata come la conosciamo noi del terzo millennio al cinema degli anni ottanta, un tributo piacevole perché latore di uno spettacolo nello spettacolo (a cui aggiungerei ancora un nello spettacolo perché con i riferimenti a matrioska i fratelli Duffer ci hanno dato dentro). Proviamo a mettere insieme tutto quello che abbiamo visto in “Stranger Things” fino ad oggi: ET, Ritorno al futuro, Karate Kid, Blob, Incontri ravvicinati del terzo tipo, i Goonies, Zombi e tanto tanto Alien. Rispetto alla prima stagione spiace un po’ la perdita dei richiami filologici e, soprattutto, l’assenza di canzoni dell’epoca: l’inizio è stato pesantemente anni ottanta, la seconda stagione un po’ meno, nella terza ritornano i fasti del nostro decennio preferito ma è talmente ingombrante la componente splatter che spalline e pettinature cotonate si perdono nella contrapposizione dell’efferatezza con l’edonismo reaganiano. Vi spoilero soltanto un accorgimento: non spegnete prima dei titoli di coda dell’ultima puntata perché vi perdereste i preamboli di “Stranger Things 4” e non disperatevi per il finale perché nella prossima stagione sicuramente si ricomporranno tutte le separazioni che accadono in questa, compresi i protagonisti apparentemente morti. Il cinema, anzi, la televisione ha il potere di fare questo e altro. Potete starne certi.

fino a nuovo ordine – S1E1

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In un futuro distopico la new wave ha vinto la guerra civile in Italia e i suoi sostenitori hanno occupato tutte le stanze dei bottoni culturali e sociali del paese. La tv in bianco e nero ha preso il sopravvento a scapito di quella a colori e nelle scuole, durante l’ora di musica, si suona l'”Inno alla gioia” con il sintetizzatore. Grazie al suo trionfo a Sanremo 84 con “Radioclima”, Garbo è stato eletto con percentuali bulgare primo ministro per quattro mandati di fila, mentre Franco Battiato – un vero e proprio padre della patria – è una presenza costante nell’iconografia sovranista. “La voce del padrone” è riconosciuto la bibbia del pensiero unico nazionale e il verso “non sopporto i cori russi, la musica finto rock, la new wave italiana” dell’inno “Centro di gravità permanente” è stato oggetto di una campagna di riqualificazione in “non sopporto i cori russi, la musica finto rock-new wave italiana” con l’obiettivo di smascherare i veri nemici della cosa pubblica che occultano generi musicali non ammessi dal regime in canzoni imbellettate da estetica post-punk  dozzinale ma che con il verbo, purtroppo, non c’entrano affatto. Le foto-tessera sui documenti ufficiali sono valide solo se il soggetto è ritratto secondo “Il libro delle pose di Robert Smith” ed è ripreso adorno di monili riconducibili allo storytelling governativo. Musicisti come Diaframma e Litfiba (fino a “17re”) sono considerati gente normale che fa il suo dovere senza infamia e senza lode.

In questo scenario in scala di grigio, Piero Marfi, uno dei più valorosi artefici della rivoluzione sociale, giunto alla terza età, ravvede in sé i nefasti presagi della malattia che resetta la memoria e teme che, una volta raggiunto l’oblio del passato, lasciato nelle grinfie di qualcuno poco avvezzo alle linee guida nazionali, gli vengano sottoposti ascolti inopportuni approfittando del suo stato di squilibrio mentale. Piero sogna da sempre di avere – prima di sparire dalle scene – il tempo sufficiente per ascoltare “Dark entries” dei Bauhaus per un’ultima volta. Un nucleo di terroristi sovversivi, mossi da un impeto situazionista volto a restaurare la canzone italiana come principale status melodico-armonico nella popolazione, si introduce nella dimora di Marfi per sostituire nei punti chiave della sua discografia di una vita alcuni 33 giri di new wave con le hit più intriganti che si sono sviluppate, di nascosto, nell’underground cospirativo. Con questo obiettivo, riescono a corrompere la sorella della colf di Marfi per convincerla a tradire la causa e passare nelle fila dei sovversivi.

il nome della rossa

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Si chiama Antonia Fotaras ed è la tipa di Adso da Melk nel remake de “Il nome della rosa”, la mendicante con i capelli rossi che al momento non si è visto nulla ma si sa già che poi, a un certo punto della storia, finiscono a letto, anzi per terra, il tutto ampiamente previsto dal sagace Guglielmo da Baskerville. Comunque, se proprio volete una veloce recensione, c’è poco da dire se non che mi sono addormentato a tre quarti della prima puntata ma credo sia un mio problema. Turturro tutto sommato regge l’eredità di Sean Connery, a mia moglie non era nemmeno piaciuto il libro ai tempi in cui si gridava al best seller e mia figlia, essendo troppo tardi, non l’ha nemmeno visto. Ora la cerco su RaiPlay, provo a seguire il primo episodio con maggior attenzione, e poi vi dico. Ci tenevo però a farvi ridere con il titolo di questo post. Io ho riso molto e non so se, a provare piacere dalle cose che uno scrive, si commetta un peccato. Nel dubbio, mi faccio un bel penitenziagite.

a scuola di maleducazione

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Un po’ mi spiace che “Il collegio” sia trasmesso dalla RAI e non dalle reti Mediaset perché la consuetudine vuole che tutta la merda televisiva provenga dal ventre del Biscione. Invece “Il collegio”, in quanto a portatore malato di offese per l’intelligenza media del genere umano, non è secondo a programmi trash come “Amici”, “Uomini e donne” e “L’isola dei famosi”. L’aspetto peggiorativo, qui, è che il reality è tutto in differita, che ci sono attori nel ruolo di insegnanti che si mescolano alla povera gente che interpreta il ruolo degli alunni, che la povera gente che partecipa è co-partecipe della finzione e che, di conseguenza, chi si appassiona alle vicende è doppiamente imputabile di mancanza di riguardo per le proprie facoltà intellettive e, allo stesso tempo, di inadempienza alla normativa naturale che impone gli standard minimi di dignità di permanenza sullo stesso pianeta con le persone normo-dotate.

Con una differenza: i ragazzini e i loro mandanti adulti che si calano nel simulacro della realtà didattico-repressiva precedente alla rivoluzione del sessantotto sanno a cosa vanno incontro ma, come se non bastasse, si sorprendono pure delle conseguenze che può causare il comportamento rispetto alle dinamiche del programma. Ma la responsabilità in questo gioco al ribasso è spartita equamente con il pubblico. Consapevoli della montatura, gli spettatori talmente bisognosi di emozioni forti seguono le vicende imposte dalle direttive della sceneggiatura con una passione nemmeno si trattasse di un “Grande Fratello” spontaneo e veritiero.

Senza contare che l’aspetto che colpisce di più è l’assenza totale di deferenza con cui i giovani partecipanti alla farsa instaurano relazioni con gli adulti del finto reality. Gli insegnanti-attori urlano e alla povera gente-studenti scappa da ridere perché nella scuola dell’inclusione nessuno è più abituato alle sfuriate e alla disciplina. Un fattore di una gravità enorme, se si pensa invece al terrore con cui gli aspiranti vincitori di programmi come “Masterchef” o “X-Factor” o “Amici” accusano i verdetti delle starlette chiamate a ricoprire il ruolo di giudici. Un fattore che probabilmente deriva dalla portata dei premi in palio che separa la finalità delle trasmissioni, a dimostrazione che il successo nello spettacolo appartiene a un livello ben differente dall’importanza che riconosciamo alla buona – se non discreta – educazione.

a proposito, che mi dici del momento storico che stiamo vivendo?

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La fiction italiana ha dei seri problemi quando narra le storie ambientate nel passato recente. Quando ci sono di mezzo gli anni settanta, poi, si cade spesso nel ridicolo. I limiti della nostra cinematografia sono spesso riconducibili intanto alle facce degli attori italiani di oggi che, anche quando sono truccate da italiani di ieri, risultano poco credibili. Si calca spesso troppo la mano sugli stereotipi estetici e, se provate a prendere qualche foto dei vostri nonni o dei vostri genitori all’epoca (oppure se avete la mia età o siete più vecchi vi basta ricordare come eravamo) non troverete nessuno così messo male. C’è anche un fattore di evoluzione del nostro aspetto, passatemi il termine. Ai tempi le dentature perfette erano rare come certe bellezze evidentemente frutto di una fase genetica (spero si dica così) determinata da un generale miglioramento delle condizioni economiche e sociali degli italiani. E, ancora, i fisici maschili non erano così pompati e curati come quelli degli attori di oggi tanto che la moda stessa, così attillata, era pensata su taglie e proporzioni nettamente diverse. Sarebbe bello approfondire questo tema, magari da gente meno cialtrona di me.

Un altro tema che contribuisce a marcare la differenza abissale con la fiction USA in costume sono i dialoghi. Le nostre sceneggiature sono spesso riempite di battute impossibili in natura. Questo per un difetto di base: la fiction italiana sugli anni settanta deve per forza inquadrare al massimo gli avvenimenti nel contesto politico dei tempi. Non che questo aspetto sia secondario, tutt’altro. Ma gli autori potrebbero fare uno sforzo per mantenerlo centrale nella storia in modi meno artificiali.

Per farvi capire cosa intendo, ho visto una parte di “Mia”, il film tv dedicato a Mia Martini. C’è un punto in cui Mia Martini si incontra con Franco Califano per prendere accordi sul pezzo che lui dovrà scrivere per lei, che poi sarà “Minuetto”, uno dei più grandi successi della cantante. Nella scena successiva, Mia Martini è a casa con la sorella Loredana Bertè e, di mattina, arriva un mazzo di fiori con allegato il testo della canzone fresca fresca di scrittura. Il campanello suona, Loredana apre la porta e ritira la consegna. Mia si sveglia e va vedere all’ingresso che succede. Potete seguire la scena qui, più o meno a 00:39:48.
Ecco cosa si dicono le due protagoniste:

Mia: -Chi era?
Loredana: -Questi (fiori) sono per te. E anche questa (la lettera con il testo di “Minuetto”)
Mia: -Ma che vizio che c’hai di prendere la roba mia… anche quella camicia!
Loredana: -Guarda che questa qui l’ho presa a Londra, al concerto di Crosby, Stills, Nash & Young, micaaa… (come a dire: facciamo canzonette solo perché ce lo impone l’industria musicale, se dipendesse da me saremmo folksinger impegnate)
Mia: -Eh appunto, ti ricordo che c’ero anch’io a quel concerto e quella camicia è mia.
Loredana: -Guarda che siamo sorelle io te, non lo so. Dovremmo dividerci tutto e stai lì attaccata alle cose tipo polipo. Scusa, maaaa… l’abolizione della proprietà privata che cos’è, un concetto astratto? E pure il femminismo, Mimì, te lo dico, eh. No, se sei messa come dice ‘sto pezzo… ciao! (ecco qui i temi portanti del dibattito dell’epoca sintetizzati in una battuta di conversazione. Quindi fatemi capire: negli anni settanta le persone si svegliavano e prima di colazione e sentivano già il bisogno di ricordarsi reciprocamente quali erano le rimostranze dei movimenti dell’epoca?)
Mia: -Ti ho preparato la mousse di cioccolato, è in cucina, così magari ti addolcisci un po’ (attenzione: ma allora c’è una parte della società italiana che auspica nel disimpegno. Ecco la maggioranza silenziosa. Ecco i nemici del popolo.)
Loredana: -Guarda che qui succede un casino! Stragi, attentati, colpi di stato. E questi scrivono ancora ‘sta roba! (ma c’era bisogno di uno spiegone come se Mia non sapesse quello che stava succedendo? Risulta palese che Loredana la ragguaglia solo per mettere al corrente chi sta guardando la tele nel 2019 che invece è il 1973)

In questo passaggio manca la naturalezza, si percepisce in eccesso l’espediente narrativo finalizzato a sensibilizzare il pubblico sul contesto, rendendo surreale la scena e togliendo ogni volontà di proseguire la visione allo spettatore mediamente intelligente.

i cigni sono in buona compagnia

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Nella mia idea di inferno ci sono solo due canali televisivi in cui sul primo passano ininterrottamente solo episodi di Grey’s Anatomy e sul secondo c’è una fiction italiana che è una specie di Whiplash de noantri ma, chiaramente, essendo italiana il focus non è certo sul jazz ma sulla musica classica o anzi sull’idea che gli italiani hanno della musica classica perché comunque bisogna adattarsi al target (un po’ come la storia del concerto di capodanno in versione Discoring come tentativo di fare un dispetto agli austro-ungarici e alla loro marcia della conquista a botte di autarchia melodica), con tanto di direttore d’orchestra dispotico ma il punto è che in quanto fiction italiana non si capisce una parola dei dialoghi perché gli attori ça va sans dire non hanno molta dimestichezza con la recitazione, nemmeno quelli che di mestiere fanno i musicisti in gruppi di cabaret in auge e che sul palco sono pure simpatici ma che, chissà perché, si fanno tirare dentro a fare gli attori con risultati discutibili e che, e poi arrivo al punto nel senso di mettere il punto a questo periodo lunghissimo, comunque nell’insieme in questa fiction italiana sono il meno peggio. E sempre in questa fiction italiana è tutto il peggio di tutto dal punto di vista proprio della recitazione. Non si capisce una parola di quello che gli attori dicono e il fatto che non si comprendano i dialoghi poi alla fine è difficile dire se sia un bene o un male e la conferma viene anche quando i protagonisti abbandonano temporaneamente la loro interpretazione di giovani musicisti classici in erba per il ruolo di cantanti pop-rock, aspetto che colloca la fiction in questione persino nella categoria dei musical, con canzoni a partire da “Creep” dei Radiohead, ai cui autori già non gli bastava concedere la possibilità a Vasco Rossi di farne una discutibile cover ma poi ne hanno permesso l’uso in questa specie di musicarello trasmesso in prima serata e realizzato in una specie di lingua straniera perché non ditemi che quello è italiano perché quello è italiano tanto l’idioma di Pingu. Per questo esiste un canale Youtube dedicato a Pingu sottotitolato e, allo stesso modo, ci vorrebbe un canale Youtube dedicato a cose come “La compagnia del cigno” sottotitolate ma io ci metterei anche “L’amica geniale” e comunque, per chiudere, come dice un mio amico di Facebook, non capisco per quale motivo non doppiare le fiction italiane: abbiamo i peggiori attori dell’occidente e i migliori doppiatori del mondo, solo io ci vedo un’opportunità?

quando la tv generalista generalizza

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Una tradizione dell’estate italiana è la RAI che si tinge dei colori della nostalgia, o, meglio, dei non-colori considerando che le tinte in questione vanno dal bianco e nero ai primi esperimenti di modernità sbiadita. Quasi contemporaneamente, intorno all’ora di cena, la tv pubblica ci accerchia con una doppia proposta di cose del passato, trasmettendo “Techetechetè” sul primo canale e “Vox populi” sul terzo. Lo spettacolo per la gente da una parte e lo spettacolo della gente dall’altra: la trasmissione su RaiUno ripropone infatti cantanti, attori, comici e soubrette professionisti, quella su RaiTre persone normali – come dice il titolo stesso – intervistate sugli argomenti più vari.

Facile intuire che i target sono differenti, considerando gli spezzoni di programmi d’epoca riesumati: da una parte i soliti Mina, Ricchi e Poveri, Gino Bramieri e compagnia bella, dall’altra emeriti sconosciuti intercettati per indagini su costume e fenomeni sociali, oppure stralci da trasmissioni più o meno intelligenti messi in sequenza secondo un tema e con una proposta per decennio di appartenenza. Inutile dire che io propendo per questo format, anche se ieri sera, su “Techetechetè”, ho visto una sfilza di complessi italiani dal beat ai Lunapop, passando per PFM, Banco e Nomadi. Potrei lasciarmi andare a una delle solite critiche sui grandi assenti che avrebbero dovuto essere citati (il programma dura comunque una buona mezz’ora) ma, trattandosi di un’eccezione, vorrei portare la vostra attenzione su “Vox Populi” perché, a distanza di pochi episodi, si è parlato ben due volte di punk in Italia.

La prima occasione è stata all’interno di una puntata sulla trasgressione, almeno io l’ho intesa così. Dei punk di fine anni settanta hanno riproposto il gruppo di quindicenni truccati e conciati come Anna Oxa a Sanremo, quindi un aspetto piuttosto light e di costume: ragazzini delle medie eccentrici presentati come gioventù annoiata alla ricerca di qualcosa di nuovo. Il registro è cambiato con il decennio successivo, in cui sono stati confusi i punk con i punkabbestia che, ricordiamolo, in confronto a loro i cosiddetti barboni sono baronetti della regina, per non parlare del punk degli anni 90 rappresentato da un ex tossicodipendente poi redento e restituito alla società produttiva. Spero che negli archivi RAI ci siano contenuti un po’ più autorevoli da rintracciare per esporre un tema così complesso. Capisco che la tv è generalista, ma le generalizzazioni sono l’anticamera dell’ignoranza e della confusione. Il secondo episodio di “Vox Populi” a cui mi riferisco è andato in onda ieri. Ancora a fine anni 70, un fotografo truccava e vestiva due modelle da punk per delle foto di moda, quindi un fenomeno popolare che diventa un pretesto commerciale per comunicare a un pubblico ben preciso.

Insomma, sono rimasto un po’ deluso da tutto questo pressapochismo. Il punk in Italia è stato anche molto altro, sia ai tempi in cui si è diffuso tra i giovani (probabilmente all’inizio del ceto medio-alto) sia quando è tornato in auge nel corso dei decenni successivi, anche in forme diverse. In ogni caso, credo che il lavoro più bello del mondo sia quello di mettere mano agli archivi RAI e rivedere tutto quello che c’è. Anzi, vi giuro che pagherei pure per poterlo fare.

duel

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Se volete togliervi la voglia di western vi consiglio la visione di “Godless”, la serie tv disponibile su Netflix che ho terminato proprio ieri sera e, spoiler a parte, vi assicuro che l’ultima puntata è una specie di apoteosi del genere quindi, se vi piacciono le storie sui cowboy, correte subito ad accendere la tv. Vi risparmio lo spiegone con tutti i dettagli sulla serie che potete facilmente guglare, inutile ripetere cose che gente più informata di me ha già scritto e riscritto. Mi limito ad alcune considerazioni e spero che i più volenterosi tra di voi le possano ricondurre nell’insieme a una sorta di recensione.

E allora, dato che sono un inguaribile ottimista, partiamo dal voto che per me è un bel dieci e lode. Vi dico solo che tra gli ideatori risalta il nome di Steven Soderbergh e che tra i protagonisti c’è Jeff Daniels che, dopo aver seguito “The Newsroom”, è balzato nella top ten dei miei attori americani preferiti. E sappiate che nessuno, in rete, vi racconterà le citazioni più evidenti (ovvero quello che un incompetente in ambito cinematografico come me è riuscito a malapena a recepire) presenti nelle ultime puntate.

La prima è a opera di Roy Goode, interpretato da Jack O’Connell, che racconta di aver trovato la tomba di suo padre morto più giovane dell’età che ha Roy al momento della scena. Come non ricordare il racconto di Paul Benjamin nel film “Smoke”, alias William Hurt, il cui protagonista si imbatte nel corpo intrappolato in perfette condizioni nei ghiacci del padre, scomparso quando il protagonista era ancora bambino, e riflette sul fatto di vedere sé riflesso nel genitore morto più giovane?

La seconda citazione riguarda “La ferrovia sotterranea”, la “rete informale di itinerari segreti e luoghi sicuri utilizzati dal XIX secolo dagli schiavi neri negli Stati Uniti per fuggire negli stati liberi e in Canada con l’aiuto degli abolizionisti che erano solidali con la loro causa” (ho fatto copiaincolla da Wikipedia Italia, grazie per essere tornato online). Non vi rivelo il momento per non rovinarvi la sorpresa, comunque se siete freschi di lettura dell’omonimo libro di Colson Whitehead vi andranno gli ormoni della cultura (ammesso che esistano) a mille.

Infine il finale, perdonate il gioco di parole, che tra la megasparatoria e il duello sembra proprio un tributo al cinema di Tarantino. Quindi niente, sbrigatevi a vedere “Godless” e a tornare qui per parlarne insieme.

la prova definitiva che i prof sono meglio dei supplenti

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Si chiama proprio “Il supplente” ed è la nuova trasmissione in onda il mercoledì sera alle 21:45 circa su Rai Due. La formula è intrigante: un personaggio famoso va a sostituire un professore delle superiori per qualche ora di lezione. La classe è all’oscuro di chi salirà in cattedra. Sanno che quel giorno verranno effettuate delle riprese ma sono convinti che dovranno sottoporsi a una lezione ordinaria. Poi la mattina stessa un commesso avvisa che il prof non ci sarà e che, di lì a breve, arriverà un sostituto.

Al momento, siamo solo alla seconda puntata, si sono susseguiti alcuni volti noti della tv: Roberto Saviano, Mara Maionchi, J-Ax ed Enrico Mentana. Le classi a cui sono stati assegnati sono abbastanza pertinenti: a Saviano un liceo classico di Maddaloni, Mentana in una quinta del Virgilio di Roma, Mara Maionchi e J-Ax invece a istituti – per dirla alla Michele Serra – più proletari, rispettivamente un linguistico e un tecnico informatico milanesi. Stesso discorso per gli argomenti delle lezioni: Saviano e Mentana storia, Maionchi inglese e J-Ax informatica. I supplenti irrompono in classe tra la sorpresa dei ragazzi dopo un brief di partenza con il docente che descrive gli alunni che si troveranno di fronte.

Appena entrati, i supplenti fanno l’appello e familiarizzano con la classe, quindi ne interrogano un paio per poi sviluppare, attraverso una lezione collaborativa, un tema interdisciplinare tra la materia in questione, le esperienze dirette dei ragazzi e quelle del supplente, il tutto attraverso contenuti di vario genere. Saviano si è soffermato sulla liberalizzazione delle droghe leggere, Maionchi sul talento, J-Ax ha riportato la sua esperienza diretta sul bullismo e Mentana ha cercato di tirare fuori le passioni dei ragazzi.

L’esperimento restituisce una visione di classe capovolta, nel senso che i veri protagonisti sono gli alunni. A loro va infatti il merito di completare i temi delle lezioni con curiosità ed entusiasmo, di scardinare i luoghi comuni con cui ci immaginiamo possano interagire con il vip in cattedra e di restituire un quadro delle nuove generazioni molto differente da come le cronache e la nostra esperienza diretta contribuiscono a dipingere. Un aspetto che ovviamente va preso con le dovute distanze, considerando gli effetti del montaggio e del fatto che, a priori, la selezione delle classi da coinvolgere sarà stata fatta meticolosamente ai fini della riuscita del programma.

Una seconda considerazione riguarda i vip. Il programma, al momento, ci sta mostrando che non sempre l’essere un personaggio conosciuto permette di gestire una classe allo stesso modo in cui, nei rispettivi programmi tv, i vip gestiscono il pubblico, i tempi televisivi e hanno il polso della situazione. Nella prima puntata abbiamo notato l’ottimo feeling tra Saviano e i suoi alunni e l’autorevolezza di Mara Maionchi grazie al modo in cui è rimasta se stessa e tale e quale la vediamo in tv. Nell’episodio di ieri, invece, J-Ax è stato più volte colto dalla camera a leggere quel che doveva dire sul finto registro che si portano in classe e, in alcuni casi, ha sopravvalutato la sua fama che, probabilmente, nelle generazioni più giovani – che hanno spostato il loro focus dal rap alla trap – è ormai diminuita.

Anche la lezione di Mentana al Virgilio (uno dei licei classici più blasonati della capitale) non è stata particolarmente fluida, un po’ a causa dell’approccio presuntuoso dei ragazzi (perfettamente in linea con i loro nomi altisonanti), un po’ di Mentana stesso, a tratti troppo ingessato e sulle sue e, soprattutto, di un prof positivamente ingombrante, di quelli che non si fanno oscurare nemmeno da una star dell’informazione come il direttore del tg de La7.

E benché ci siano principalmente i ragazzi al centro de “Il supplente”, anche se a volte durante la visione è facile cogliere la finta realtà televisiva, quella che si manifesta quando si cerca di rendere forzosamente reale una finzione, fino ad ora gli insegnanti sono stati le vere star del programma. Sempre preparatissimi, adorati dagli studenti, poco propensi a farsi schiacciare dalla visibilità dell’ospite di turno pur stando al gioco con la massima umiltà e, soprattutto, controparte in carne ed ossa di un mondo fatto di immagine, autoreferenzialità, ego inutilmente smisurati, parole digitalizzate, post-produzione televisiva, canzonette da una botta e via e tutto quello che, da sempre, siamo abituati a considerare la componente principale e condivisa delle nostre esistenze.

morti di fame

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I medici dicono che quella percentuale di massa in eccesso sull’addome che dovremmo smaltire deriva non tanto da quello che mangiamo pur non avendo più fame bensì dalla quantità di programmi tv dedicati al cibo che seguiamo. Non so voi ma io non ne posso più e rivoglio indietro i soldi della smart tv. Ah già, c’è Netflix. Comunque il peggio di tutti è quella trasmissione in cui lo chef di turno mette uno contro l’altro quattro ristoratori con l’obiettivo di individuare il locale migliore della stessa zona. Si tratta di un format presente da qualche anno e devo ammettere che nelle più vecchie puntate che mi è capitato di seguire tutto sommato traspariva un certo fair play tra i concorrenti. Ultimamente invece ho assistito a veri e proprio combattimenti efferati in cui i quattro ristoratori se ne danno di santa ragione. L’obiettivo infatti è abbassare la media dei voti con cui passano al vaglio il locale e la cucina degli avversari in modo da primeggiare e vincere la puntata. Un vero tutti contro tutti in cui però non esce un vero vincitore perché anzi di fronte a tanta scorrettezza vi invito a prender nota dei nomi dei locali volta per volta in modo da evitarli come la peste, così la prossima volta imparano a gareggiare a suon colpi bassi. Che poi, voglio dire, la posta in palio è da morti di fame. Il ristoratore con il punteggio più alto a fine puntata si aggiudica 5mila euro da investire nel proprio esercizio, una cifra che locali di quel tipo, con quel genere di menu e con i prezzi che hanno se li guadagnano in un paio di serate. Quindi, ricapitolando: soldi pochi, brand awareness scarsa a causa della figura da stronzi che fanno in tv, visibilità relativa perché dubito ci sia qualcuno così intraprendente da raccogliere tutti i partecipanti in una guida ad hoc da sfruttare quando è in viaggio, quindi ancora una volta l’ennesimo talent-qualcosa in differita utile solo a coprire la domanda dell’immediato di un popolo di telespettatori che si accontenta delle briciole. Voto: inqualificabile.