e comunque Gilbert Blythe è un figo vero

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Le trasposizioni sul piccolo o grande schermo di storie popolari e note hanno il forte limite della presenza di un macroscopico spoiler insito nella trama stessa e la sfida è apprestarsi alla loro visione già sapendo cosa succede e, soprattutto, come va a finire. Pensate a Titanic. Pensate alla Bibbia. Pensate a un film su Aldo Moro. Per fortuna ci sono modi e modi per godersi uno spettacolo, e l’ossessione o il semplice anelito per il coup de théâtre, anche se diffuso, non sono gli unici. Vedreste mai, per esempio, una serie TV sulla storia di “Anna dai capelli rossi”? Se ponete a me questa domanda la risposta è un SI grande come una casa, anzi come la stessa casa dal tetto verde in cui Anna Shirley Cuthbert viene adottata. Quindi, cari amici sottoscrittori di Netflix, mollate tutto quello che state seguendo e dedicatevi a “Chiamatemi Anna” anche se come vanno le cose nelle comunità di Avonlea e Charlottetown lo sappiamo benissimo, avendo seguito tutti quanti da bambini più o meno cresciuti il celeberrimo cartone giapponese. C’è ben poco da dire sulla trama che non sia già noto se non che è difficile, come potete immaginare, trattenere le lacrime. Il combo orfanella – genitori adottivi anziani – pregiudizi – società bigotta di fine ottocento/primi del novecento – rivalsa sociale della piccola fiammiferaia – flirt tra i primi della classe è più che vincente, e all’interno del claustrofobico palinsesto netflixiano, dal punto di vista dei sentimenti, intendo, i sette episodi della prima serie hanno lo stesso effetto di spalancare le finestre in una mattinata di maggio con il sole e un po’ di venticello in una stanza in cui si è dormito in cinque persone e almeno due gatti. Dimenticatevi quindi per qualche tempo lo spaccio di metanfetamina, le adolescenti suicide, le carcerate americane e fate spazio nella vostra vita a un po’ di sano romanticume e buoni sentimenti d’antan. I personaggi rispecchiano fedelmente la personalità che sappiamo, tenete conto che non ho letto il libro da cui la storia è tratta (come credo tutti voi) ma gli unici riferimenti che ho derivano dal anime (comunque sarete d’accordo con me che Anna Shirley > Heidi). Recitato da dio e doppiato ottimamente, “Chiamatemi Anna” è la classica produzione che se non esistesse qualunque forma di web tv ma fossimo ancora ai tempi del duopolio catodico avrebbe percentuali di share da festival di Sanremo o da finale dei mondiali. E se avete un occhio tecnico come il mio (dai questa concedetemela) resterete davvero piacevolmente sorpresi anche dalla sigla. Quella delle sigle bellissime è un po’ la caratteristica di tutte le produzioni Netflix e non solo, ma qui veramente si supera ogni record di perfezione tra immagini, effetti e musica, e viene naturale tentare un confronto con quella del cartone animato che abbiamo visto tutti. Certo, altri tempi, altra tecnologia e altra musica. Però nessuno mi ha mai spiegato che bisogno c’era di scomodare in una versione in italiano il noto motivetto “Rivers of Babylon”, la canzone spiritual dei Melodians portata al successo però dai Boney M. Non ho mai capito, infatti, la relazione tra una storia canadese del secolo scorso, una produzione giapponese anni 70 e un l’adattamento in musica di un salmo della Bibbia.

avete visto che cosa succede a non dire ti amo in tempo?

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****Attenzione: contiene spoiler sulla serie “13 Reasons Why”.

Qualche giorno fa non mi ricordo quale mio contatto su Facebook ha scritto una cosa tipo “Tredici è la serie che avrei voluto vedere ai miei sedici anni”. Lì per lì non mi ero ancora fatto un’idea ben definita perché mi mancavano diverse puntate e quindi non mi sono sbilanciato nella discussione. Diciamo che il trasporto per le tematiche trattate si era già innescato, per non parlare della vicinanza emotiva tra me e la serie con i numerosi richiami all’estetica di quando avevamo sedici anni noi che oggi ne abbiamo cinquanta e qualcosa, e parlo delle cassette Maxell, del walkman della Sony, dei poster di Unknown Pleasures, della gioventù tout-court.

Poi però è subentrato un fattore che ha reso secondario tutto il resto, persino le versioni rimodernate di “The Killing Moon” degli Echo & The Bunnymen e di “Only you” degli Yazoo, per non parlare dell’uso di “Vienna” degli Ultravox in un momento piuttosto decisivo (e, a proposito, qui trovate la lista completa della colonna sonora, episodio per episodio). La forte incomprensione che si è verificata tra i due protagonisti Hannah e Clay e il susseguirsi di cose non dette, cose dette ma a sproposito, cose da dirsi ma che si potevano dire in altro modo ha fatto un bel casino e se non è la causa principale di quello che è successo possiamo comunque affermare che si sono verificate conseguenze piuttosto gravi nell’economia della storia.

Alla fine sembra quasi che la colpa di tutto sia dei timidi, un tema piuttosto originale all’interno di una narrazione di questo tipo. Cose che succedono all’interno di una storia non per scelte sbagliate ma per decisioni non prese del tutto. L’aver paura di agire perché un altro ti dice il contrario di quello che vorrebbe che tu facessi e che è quello che tu vorresti fare ma l’altro ti urla di fare il contrario. Che, visto in TV e per di più con i capelli bianchi, non è certo la fine del mondo perché occasioni, nel corso della vita, ne capitano a iosa. Ma lì no, te ne vai e fai un vero casino, perché quello che succede dopo non ammette purtroppo ripensamenti, è definitivo, malgrado avvenga in una serie TV e quindi finto per antonomasia.

La colpa è veramente dei timidi e del fatto che non si danno una mossa a dire ti amo in tempo utile. Nella vita vera, quella dei sedicenni di un tempo in carne ed ossa, in realtà succedeva ben poco perché se eri timido e non dicevi ti amo in tempo utile il destinatario dell’attenzione omessa non ci badava nemmeno perché non era quasi mai di suo interesse, non si poneva il problema, non pensava nemmeno di essere nel mirino di qualche timido che non sa farsi avanti. Nelle serie TV può invece capitare l’impossibile, e cioè che a non dire ti amo in tempo utile a una che se l’aspetta questa può stare malissimo e poi, be’ arrivate alla tredicesima puntata e ne riparliamo.

pagherete poco, pagherete tutti: qualche riflessione dopo il primo mese gratis di Netflix

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Tra qualche giorno scade il mio primo mese di fruizione gratuita di Netflix. Da quando c’è Netflix la dinamica, in famiglia, più o meno è che ci mettiamo in tre sul divano, accendiamo Netflix, un’operazione semplicissima perché il telecomando del mio smart TV (un Sony Bravia) ha in bella vista un bel pulsantone invitante con su scritto Netflix, e poi passiamo una mezz’ora buona a scorrere l’infinito menu con tutte le proposte comprese nell’offerta. Le serie, i film ordinati per categorie, le novità, le liste che ciascuno di noi tre ha accumulato sul suo profilo personale. A volte succede che il tempo che ci siamo concessi per un po’ di relax davanti alla TV va via tutto nella scelta di cosa guardare, un po’ perché l’offerta è monumentale, un po’ per trovare qualcosa che soddisfi tutti e tre o che sia adatta ad adulti e adolescenti. Così, dopo aver passato in rassegna tutti quei titolo, ciascuno di noi torna alle sue faccende con le pive nel sacco. Oppure è capitato anche che, frustrati dall’indecisione, abbiamo premuto al contrario il pulsantone Netflix per tornare al circo della programmazione del digitale terrestre, che tolti i canali Rai e qualche eccezione è mediamente una merda ma in cui, per lo meno, c’è qualcuno che sceglie per noi. Lo so cosa state pensando, ma se ho spento il cervello per annullarmi davanti alla TV doverlo riaccendere per un’analisi comparata di centinaia di titoli e di sinossi a volte mi costa fatica. Per questo è efficace, con Netflix, adottare l’approccio dell’informazione preventiva. Chiedo suggerimenti agli amici o ai colleghi di cui so potermi fidare per affinità di gusto così, mentre ancora sullo schermo campeggia logo Netflix su fondo nero, evocativo di esperienze di visione di prossima generazione, abbiamo già un’idea di cosa guardare.

Io poi mi sono accorto, in questo primo mese di fruizione gratuita di Netflix, di non avere una particolare forma mentis per le serie, che forse di Netflix sono la morte sua. Negli ultimi anni ho seguito qualcosa su altri canali e anche con grandi soddisfazioni: The Newsroom, Fargo 1 e 2, Stranger Things. Mi sono messo allora in questo mese in modalità Netflix, per fare come i miei amici e colleghi che non parlano d’altro che delle serie che guardano. Ho visto anche cose piuttosto belle, a partire da due o tre puntate di Black Mirror, qualcosa di Sense8 e Pablo Escobar, ma l’impressione è che sia un tipo di fruizione che richieda troppo investimento in tempo. È vero che la formula a puntate ti consente di smettere e continuare quando vuoi, tra l’altro Netflix è bravissimo e se interrompi qualcosa sulla TV si ricorda il punto esatto dove riprendere anche sul portatile, però poi a me la curiosità di vedere cosa succede dopo scema non poco. Le serie che ho portato a termine (Fargo 1 e 2 e Stranger Things) le ho viste tutte di un botto e la full immersion tutto sommato non è male. Credo quindi sia questo, lo specifico Neflixiano: spararsi un episodio dopo l’altro compulsivamente fino allo sfinimento, il tutto in una giornata, un fine settimana o una notte, come succede ai miei amici e colleghi.

Poi ci sono anche tantissimi film vecchi e nuovi e qui mi trovo più a mio agio. Ci sono un’infinità di titoli e quelli interessanti non sono pochi, anzi. A me è poi successa una cosa singolare: malgrado la quantità e la qualità dell’offerta mi è venuta voglia di rivedere cose già viste (per esempio Lost in translation, Broken Flowers e Schindler’s List). Avrete capito, quindi, che il problema sono io e non Netflix. Nonostante questo, ho deciso di confermare la scelta e da febbraio pagherò i 10 euro al mese per l’abbonamento. D’altronde la formula è vincente: così pochi soldi per così tanti contenuti. Come si fa a dire di no? Se c’è qualcuno di voi che, alla scadenza dei trenta giorni free, ha deciso di non proseguire si faccia riconoscere perché è raro trovare chi non accetta un modello che sembra essere alla base di tutta l’economia del mondo mondiale. Paghi poco per volta come le rate e ti puoi permettere cose lussuosissime, come millemila film e serie TV di cui godere quando e come vuoi. Noi, in famiglia, siamo però abituati a considerare le spese differentemente. Dieci euro al mese sono una sciocchezza, centoventi euro l’anno inizi a rifletterci su perché, sommati a questo o quell’altro servizio, alla fine sono soldi e pure tanti. Ma per Netflix ho deciso che farò un’eccezione, vediamo se riesco ad adattarmi.

fuoriRoma dalla politica

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Una bella sorpresa alla tv pubblica, finalmente. Se siete stufi di cuochi, di cantanti e soprattutto della politica centrale che ripete sempre se stessa a sinistra, a destra e alle stelle, urlata nei talk tutti uguali, c’è una nuova trasmissione in onda dal 12 settembre su Rai Tre, ogni giorno alle 20.10, condotta da Concita De Gregorio. Il titolo, FuoriRoma, incarna perfettamente la vision, ovvero uscire dai soliti palazzi che occupano la cronaca politica – forse mai così disarmante come di questi tempi – e trovare rifugio nella provincia italiana, nelle sedi dell’amministrazione locale che, a differenza della politica parolaia, deve necessariamente occuparsi di fatti e cose concrete, sporcarsi le mani con i soldi – quelli che ci sono e quelli che mancano per mandare avanti la macchina organizzativa -, dare risposte di persona alla gente che ti incontra per strada o, quando è urgente, ti viene a stanare sin nelle stanze dei bottoni. Concita si incontra con i sindaci delle piccole città e costruisce con loro uno storytelling nuovo per la tv ma già consolidato nella realtà che non si vede al telegiornale. Come si vive dopo le elezioni amministrative al di là delle città metropolitane? Come si fa nei centri in cui la visibilità è nel quotidiano a mantenere le promesse con cui ci si è conquistati una credibilità sugli elettori? A Pesaro, Carbonia, Lecce, Latina, c’è spazio per i macro-temi che fiaccano grillisti e PD di questi tempi, o crisi economica, tagli, sanità e patto di stabilità necessariamente spostano l’agenda delle discussioni su altre urgenze terra terra? FuoriRoma è costruito molto bene, Concita è perfetta per le conduzione intelligente che un format del genere necessita, e davvero, l’ho scoperto per caso ma trovo sia una boccata d’aria fresca nell’inutilità dei millemila programmi della tv digitale. Domani (domenica 18) dalle 14:40 si potranno rivedere tutte le puntate già andate in onda, mentre a partire dalla prossima settimana FuoriRoma andrà in onda solo il lunedì, sempre alle 20:10 e sempre su RaiTre.

più che partita a me sembra essere tornata

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La prima legge della concorrenza nel settore dell’entertainment televisivo più o meno impone che quando alla tv c’è la nazionale impegnata in una competizione agonistica come gli Europei o i mondiali è inutile trasmettere programmi di un certo valore perché tanto non ne vale la pena. Ora non so quanti siamo in Italia che il calcio non ce lo inculiamo di pezza (cit.) e lo so che ai tempi delle smart tv e di Internet le serate immolate allo zapping non hanno nessun senso, però non vedo perché noi agnostici del pallone non possiamo godere di diritti civili come tutti gli altri, come poterci svaccare con il caldo di fronte a po’ di sana evasione intellettuale.

Comunque non è che non ci fosse proprio nulla da vedere, ieri sera, al posto di Italia Spagna. Ma nell’ordine ho notato “Point Break” che è un gran film ma diamine, lo so a memoria rientrando tra i miei 20 preferiti. Altrove c’era “La leggenda di Al, John e Jack” che, per dire, è il 2016 e non sono stati ancora sconfitti i berluscomici. Per rimanere in tema, ho assistito a qualche minuto dello spettacolo del calcio preso in giro a modo loro dalla Gialappa’s con i gollonzi e i rumori degli scontri sotto ai tackle robusti del gioco maschio degli ottavi di finale che è sempre così uguale a se stesso da sempre e mi chiedo intanto se diverta ancora qualcuno e poi se e quando finirà. A qualche programma di distanza ha fatto capolino persino il Gabibbo in una delle sue missioni di rivalsa verso i soprusi perpetrati alla povera gente, siamo ancora messi così, per finire con un giovane Robin Williams accompagnato da una ancor più giovane Julia Roberts nei panni di Trilly campanellino e di Hook, nientepopodimeno.

In tutto questo salto quantico nel passato (tra parentesi ho visto che da qualche parte ma di pomeriggio fanno le repliche di Quantum Leaps) così presente se davvero, può essere una coincidenza dovuta all’unico fenomeno, una partita della nazionale, che è allo stesso tempo religione e oppio dei popoli, dicevo in questo balzo nel tempo in fondo sentire cantare ancora “Seven Nation Army” nella versione corale da stadio è stato il frammento più recente di un insieme di rimasugli tutti da dimenticare. Vediamo allora cosa avrete da offrirmi ai quarti di finale.

volersi bene ai tempi dei talent show

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Ieri sera il giudice di uno degli ennemila talent show che ci tengono compagnia in una delle frequenti sessioni di proiezione delle nostre velleità di rivalsa sulla finzione della vita e del successo che si rappresentano in TV è scattato di corsa verso il palco per abbracciare un candidato appena promosso dalla giuria alle fasi finali del gioco. Non possiamo sapere che cosa in realtà sia successo dietro le quinte. Possiamo cioè ipotizzare che sia tutto una farsa, che giudici e giudicati entrino in contatto prima dell’esibizione stessa, che ci sia una sceneggiatura ad hoc per creare lo storytelling che poi ci viene proposto, che sia un complotto massonico o dei poteri forti solo per farci credere che le cose vanno tutto sommato bene.

Ma se ci limitiamo all’esperienza che ne abbiamo tratto da fruitori del montaggio della puntata, abbiamo assistito a una manifestazione estrema di coinvolgimento tra due sconosciuti a seguito di una prestazione artistica dell’uno che ha stravolto le corde emotive dell’altro, e lasciate stare che un giudice dovrebbe essere tenuto a esercitare il proprio ruolo con il massimo distacco. Lasciate stare perché il format in questione è invece l’opposto del rigore con cui certe iniziative a sfondo competitivo dovrebbero essere portate a termine. Ma se così fosse, se cioè le quattro star dello spettacolo, dalla loro postazione con il pubblico alle spalle, seguissero lo stile di un signor no alla Rischiatutto (quello vero), ai tempi dell’etica e dell’estetica di Maria De Filippi, questo genere di programmi cadrebbe nel dimenticatoio e l’Italia perderebbe l’occasione di venire a conoscenza di tutti i suoi talenti.

Così, quando ieri sera il giudice ha dato un abbraccio a un concorrente in teoria sconosciuto in un tripudio di coriandoli e luci, di fronte a centinaia di persone plaudenti per non parlare dei milioni di telespettatori, io mi sono chiesto il senso di dare un abbraccio a uno sconosciuto. Non mi sono dato una risposta, ma mi sono ricordato all’istante di quanto oggi ci piace giocare a scriverci le cose forti sui social, a spingere di brutto sulla verbalizzazione dei sentimenti che mica corrispondono a stati d’animo presenti in natura. Io non conosco nessuno così espansivo con me dal vivo, e sta a voi farmi notare se è un problema mio, di come vengo percepito dalle persone che mi conoscono in carne e ossa, oppure se anche per voi è così. A parole scritte amiamo cani e porci, al di qua di Internet e della tv a malapena ci salutiamo.

che cosa stiamo rischiando

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Se avete avuto la pazienza di fermarvi a seguire le pillole di “Rischiatutto” che Raitre trasmette – credo ogni sera – verso l’ora di cena avrete constatato, come ho fatto io, che tutto sommato può trattarsi di un’operazione di successo o almeno attirare il pubblico boccalone come me. La formula del casting dei concorrenti in puro stile talent show ma in una scenografia da Telecapodistria negli anni di Tito è in perfetta linea con i nostalgici delle istituzioni ai tempi del bianco e nero, per non parlare del principio fondamentale del quiz stesso. I partecipanti si presentano, come saprete, con una materia a loro scelta il che è encomiabile nella babele delle conoscenze povere dei programmi a domanda e risposta multipla a cui siamo abituati. È inevitabile infatti la comparazione tra la miseria nozionistica di chi canna persino il ruolo del presidente del consiglio e gente che arriva alle selezioni super-specializzata in un argomento verticale e non si lascia fregare. La letteratura italiana medievale. L’arte paleocristiana. Moira Orfei. Io queste persone le invidio moltissimo perché anche a me piacerebbe sapere tutto di qualcosa e non solo perché così mi sarei anche offerto volontario per le selezioni davanti a Fabio Fazio che tra l’altro è mio concittadino e sono certo che si ricordi di me. Saper sviscerare un argomento nella sua completezza. Conoscere qualcosa dall’inizio alla fine.

Esistono certe materie di cui ho una certa competenza, non lo metto in dubbio, ma si tratta di un sapere parziale e limitato a certi dettagli che ho tratto per portare con me. Per dire, non potrei sottopormi a una batteria di domande sui The Cure ma solo dalle origini fino a “Wish”, l’album del 92, per intenderci. Rischiatutto è così, prendere o lasciare. Io lo conosco bene perché avevo anche il gioco in scatola con il tabellone arancio con i buchi in cui si inserivano le schede, e la preziosissima riproduzione della inconfondibile montatura degli occhiali di Mike Bongiorno negli anni 70.

Vedete? Alla fine a Fazio questo genere di cose è ciò che gli riesce meglio. Non ha mordente come intervistatore ma ha il culto degli anni della nostra comune infanzia, aspetto che già avevamo constatato ai tempi di quel programma che si chiamava “Anima Mia”. Sono certo che poi la trasmissione sarà un successo nell’Italia democristiana di ritorno di oggi, piena di somiglianze con quella di Gui e Tanassi anche se quest’ultimo era socialdemocratico, e i fenomeni che ora si avvicendano nella fase di selezione dei concorrenti passeranno alla storia come l’x-factorista di turno ma grazie a certe attitudini che oggi non apprezziamo più nella gente. Sapere tutto di qualcosa, che sia Chopin o Cristina D’Avena, è una qualità che non serve più, e lo sapete anche voi che la causa va individuata un po’ nell’impoverimento a cui ci siamo votati – quindi in noi – e in parte negli strumenti che ci hanno impoverito, in cui tv e Internet la fanno da padroni. Per un attimo, comunque, vedendo i futuri campioni del Rischiatutto di Fazio esercitarsi a schiacciare il pulsante, ho pensato che in realtà c’è un argomento in cui sono ferratissimo e che è me stesso. Con tutta l’attenzione che mi dedico potrei ripetermi a memoria come un canto della Divina Commeda.

la conduttrice del grande fratello #ionondimentico

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Uno non fa tempo a gioire del fatto che i grillisti si dimostrano i mentecatti che sono con la faccenda delle unioni civili che subito sul fronte dei renzisti ne arriva un’altra che ti fa davvero passare la voglia alle prossime elezioni, qualunque esse siano, di stare a casa a vedersi la seconda serie di Fargo dal primo all’ultimo episodio di fila. Ora io cerco di non farne una questione di lottizzazione anche se forse si dovrebbe. La piaggeria con cui Daria Bignardi ha ospitato il nostro presidente del consiglio più volte parla da sé. Non ne faccio nemmeno una questione di competenze nel settore, è comunque una professionista della tv – dal mio punto di vista della tv spazzatura tanto quanto le De Filippi, Perego, Marcuzzi o D’urso, giusto per rimanere nelle quote rosa ma di maschi ancora peggio ce ne sono a tonnellate – quindi un nesso tra la sua carriera passata di soubrette e quella futura di direttore di RaiTre se proprio vogliamo lo si trova. Tanto meno il suo essere moglie o compagna di, che poi passo per un becero maschilista e infatti questo non lo penso nemmeno. Luca Sofri, che peraltro ha gusti musicali discutibili, possiamo ammettere che non c’entri. E se siamo ancora qui nel 2016 a parlare di una cosa successa sedici anni fa è davvero la cartina tornasole che in Italia veramente la storia non ci insegna nulla.

Daria Bignardi, attuale neo-nominata direttore di RaiTre, è stata la conduttrice della prima edizione del Grande Fratello, quello che tiriamo in ballo nelle discussioni quando ci serve un termine di paragone per identificare il peggio del peggio che si sia mai visto in tv. La prima edizione, quella del 2000 e presentata appunto da Daria Bignardi, ce la ricordiamo perché, oltre al fatto di avere dato il la a tutta la caterva di merda televisiva prodotta da allora, come se non fosse bastata quella che già c’era prima, ha portato alla ribalta gente del calibro di Pietro Taricone e Rocco Casalino, attuale responsabile comunicazione dei grillisti e il cerchio potrebbe chiudersi qui. Ci sono certe cose che hanno contribuito a farci diventare le bestie che siamo, e tra queste c’è sicuramente anche il Grande Fratello. Non so se Daria Bignardi si sia pentita o meno di quell’esperienza. Ma sono certo che sapesse perfettamente di cosa si trattava, di che tipo di programma fosse, delle conseguenze che guarda un po’ paventavano tutti e che infatti si sono avverate e non so dirvi in che percentuale la causa sia il Grande Fratello. Ritengo quindi Daria Bignardi un po’ responsabile di tutto ciò, essendosi prestata al successo dell’iniziativa. Alcuni sostengono che da allora ad oggi ha fatto ennemila cose, ma io l’ho sempre vista farle con lo stesso approccio da conduttrice del Grande Fratello.

Sono convinto che nessuno di noi avrebbe mai offerto a Daria Bignardi la carica di direttore di RaiTre se non altro per un fattore simbolico. Che messaggio dai se metti in mano a un individuo che ha contribuito a farci diventare le bestie che siamo quello che è sempre stato un elemento di cui una certa fetta di italiani – che in parte votano pure il partito di Renzi – possono vantarsi almeno un pochino? Oppure RaiTre è già diventata una merda come le reti Mediaset che hanno lanciato Daria Bignardi e il Grande Fratello? Non so voi, ma lottizzazione a parte a me sembra più una provocazione bella e buona, come quelle che faceva Berlusconi ai tempi, vi ricordate? Vi ricordate Berlusconi, almeno?

l’isola della tentazione di tifare per la fine del mondo

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Mediamente Sky mi chiama ogni sera, più o meno all’ora di cena, per propormi qualche offerta. In casa abbiamo deciso la linea del confronto, nel senso che ci siamo imposti di non essere sgarbati con gli operatori dei call center: rompono i maroni ma stanno lavorando, già fanno un mestiere di merda e infierire non ci sembra giusto. Ho collegato così l’aumento delle telefonate dei commerciali di Sky con l’imminente arrivo di Netflix in Italia, o forse la concorrenza tra i due brand è un film che mi sono fatto io. Ma la musica non cambia: siamo tra quelli che guardano pochissima tv, non so dirvi se con Sky o con Netflix passeremmo più tempo davanti allo schermo e se quindi le nostre abitudini sono una conseguenza dell’offerta mediocre dei canali del digitale terrestre. Che poi non è vero, ho già elogiato LaEffe e i nuovi canali Rai più volte e ci tengo a sottolineare che la mia avversione alla tv non è il solito snobismo degli intellettuali di sinistra anche se fino a quando c’è stata la tv analogica il mio apparecchio televisivo saltava con disinvoltura da RaiTre a La7 (o come si chiamava prima) bypassando le emittenti dell’odiato pagliaccio di Arcore.

La tentazione di abbandonare questo tetro mondo dei canali commerciali gratuiti per contenuti per lo meno più vari se non più intelligenti però ogni tanto mi passa per la testa. Mi è accaduto ieri sera quando, per caso, mia moglie ed io ci siano imbattuti nell’ennesimo sfregio al genere umano sotto forma di reality show di Maria De Filippi chiamato “Temptation Island”. Un format abominevole in cui un tot di coppie vengono soggette a tentazioni amorose mettendo i loro componenti a contatto con single, con le telecamere che osservano e trasmettono i risultati dell’esperimento. E con abominevole non intendo certo un giudizio morale, però intanto le coppie sembrano piuttosto finte e create ad hoc mettendo insieme alcune delle ennemila comparse che infestano gli studi televisivi in cerca di inquadrature di risulta, ma soprattutto sembrano scelte appositamente tra un underground umano che ha dell’incredibile. Uno non scommetterebbe un centesimo sulla continuazione della nostra specie se pensasse che la nostra società è composta solo da gente così, con sentimenti, background, cose da dire e personalità in genere così povere. Ma forse anche questo è un segno della crisi: la miseria di una civiltà si vede anche da segnali come questo, e cioè che oggi anche per il trash televisivo come “Temptation Island” il meglio che il nostro paese possa offrire è un campionario di squallore di questo tipo.

Un’ultima considerazione. Non conoscendo il programma ho fatto una ricerca in Internet e, come pensavo, mi sono imbattuto nella relativa pagina di Wikipedia. Ora, si sa, la popolare enciclopedia del web ha reso obsoleta e inutile ogni altro analogo strumento tradizionale, avete presente quei monumentali tomi che occupavano ampie metrature quadrate di case e biblioteche in ogni dove. Ecco, sono sicuro però che una enciclopedia cartacea non avrebbe mai sprecato carta e inchiostro per contenere una voce e una definizione di una cosa come “Temptation Island”, come di milioni di altre cose che il nostro pianeta dovrebbe lasciar cadere nell’oblio della storia. Una volta c’erano i comitati di esperti che decidevano i termini da inserire e quelli da scartare, oggi siamo diventati di bocca buona e persino un reality popolato da sub-umani ha dignità di essere spiegato a chi non sa cos’è. Ecco, cari commerciali di Sky, come vedete sono pronto: provate a stupirmi con un’offerta allettante e vediamo cosa succede.

ai registi del nostro destino va il più caro dei saluti

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Ieri sera si è consumato il dramma dell’anno, ovvero il decesso del dottor Derek Shepherd vittima della strada, come tanti del resto. Ho scritto ieri perché a casa mia Grey’s Anatomy si vede con un giorno in differita, di martedì, facile immaginare il motivo. Comunque ieri è mancato anche il papà di un’amica di mia figlia, un uomo di una manciata di anni più vecchio di me colpito da un infarto. Una duplice e parallela elaborazione del lutto, quello reale e quello della fiction (se non si tratta di un lutto di per un famigliare ma di un semplice conoscente di qui e di là dello schermo, intendo) è in grado di generare un corto circuito emotivo soprattutto se siete schiavi del vostro stato d’animo fino al punto da lasciarlo trasformare dallo stato gassoso dell’anima a quello liquido delle lacrime. La metafora di Shonda Rhimes – o di qualunque sceneggiatore di telefilm, nel suo piccolo volendo anche quello di “Un posto al sole”, per dire – come creatore di mondi abitati da esseri umani sui quali esercitare il diritto di vita e di morte fa al caso nostro. L’attore che impersona il bel chirurgo si stufa, l’altra attrice litiga con la produzione, quella che invece vuol tentare il salto di qualità e accetta un’altra scrittura, nell’industria dell’entertainment sono tutte cause di condanne capitali e irreparabili quanto un licenziamento in tronco. Sappiamo che dietro l’incidente di questo o il brutto male di quella ci sono solo beceri accordi commerciali o problemi di cattiva gestione delle risorse umane, eppure anche di là dal 47 pollici ci arriva dritto in pancia il dolore degli altri che poi, quando ne hai uno di qua personale e in contemporanea, non puoi non farti delle domande ed esigere delle risposte. Non è vero, quindi, che siamo immuni quando i fatti sono la finzione e la tv è la realtà, semmai il contrario. Abbiamo fatto un minestrone di cose vere e cose che da qualche parte, in un universo che non conosciamo ancora, sono vere ugualmente. Questo coso qui dentro il quale mi state leggendo potrebbe essere il punto di contatto tra le due dimensioni, se è vero che un po’ all’Internet, come messia di una conoscenza finalmente liberatrice perché più immediata e semplificata, ci credete davvero. (p.s. nascosta in questo post c’è una citazione di un noto quartetto rock irlandese, chi la trova vince una giornata con il suo blogger preferito)