parlare d’amore

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Parlare d’amore non è difficile come parlare di musica. La prova è che nessuno tira mai in ballo quell’aforisma di Frank Zappa sul fatto che parlare d’amore sia difficile quanto ballare di architettura o cose di questo tipo, il che è curioso perché, come la musica, l’amore si fa e quello è, tra l’altro, uno degli aspetti più piacevoli dell’amore in sé. La musica si suona e l’amore si canta, per dire. Oppure durante l’amore si fanno certi versi che solo l’amore induce a fare mentre siamo impegnati a fare l’amore, e la prova è che la storia dell’uomo è piena di versi d’amore che probabilmente sono gli stessi versi che poi, chi ci sa fare bene con le parole, mette in bella copia. Non stiamo a fare qui un trattato di storia della poesia, ci vorrebbe ben più di un blog. Basta che ciascuno di noi tenga a mente un pezzettino di qualche strofa che celebra l’amore e tutti insieme potremmo ricoprire il mondo di amore scritto. Ve lo immaginate? In questo rincorrersi di bellezza, mi piacerebbe portare il mio bigliettino con una piccola frase per parlare d’amore e scriverei quel verso che dice che l’amore che strappa i capelli è perduto, ormai. Lo so, sembra una cosa un po’ triste ma dell’amore bisogna parlarne non solo durante ma anche dopo, perché è come se ci fossero delle onde che produciamo quando amiamo e siamo amati che sono differenti da quelle sonore delle canzoni. Restano in eterno e so che ve ne siete accorti anche voi. Corrono lungo frequenze diverse perché il canale che identifichiamo con il cuore trasmette attraverso una modulazione più evoluta, per usare la metafora della radio e per banalizzare sempre l’amore con il cuore. Un binomio penalizzato dalla rima che da sempre ci trasciniamo ma che ci volete fare, i versi sono così e le canzoni nascono per essere volatili, ma poi succede che restano per sempre, come quella che vi ho portato di esempio, e per parlare d’amore, se finiscono le parole, possiamo attingere da lì e far finta che siano le nostre.

allo scoglio

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Non c’è una frase come “Ora, a freddo, posso anche dirtelo. Sai perché non mi è piaciuto?” asserita in tono perentorio che riesca a interrompermi dalla lettura, anche se la storia è intrigante a livelli che non potete nemmeno immaginare. E non è solo la sicurezza ostentata da chi l’ha pronunciata, una ragazza molto bella e in tiro che ha aspettato a intervenire nella discussione con i suoi compagni di viaggio sul treno solo una volta premuto invio di qualcosa sul suo smartphone. È anche la curiosità circa il tema sul quale la ragazza vuole esprimersi in modo così autorevole. Sarà che siamo nel pieno dei dibattiti post elettorali, quali scenari si aprono a Bruxelles con la vittoria del PD. Oppure c’è Cannes o il Papa in Terra Santa, al limite. Così distolgo l’attenzione dal mio libro per conoscere il parere di questa opinion leader anche se non so su cosa, e come me i suoi due interlocutori si zittiscono immediatamente dal loro dialogo così sommesso che, fino a quel punto, non avevo per nulla notato. “Sai perché non mi è piaciuto?”, dice. “Non mi è piaciuto perché c’erano il tonno e i gamberetti”. Che doccia fredda. Tutta questa determinatezza per parlare di cibo, e così l’idillio platonico e intellettuale tra me e lei si interrompe brutalmente come se qualcuno avesse tolto la corrente a un elettrodomestico. Ne segue l’argomentazione, perché se un ristorante ti presenta il pesce sul tavolo poi non può cadere in errori di accostamento come quelli. Uno dei suoi interlocutori osserva però che i gamberi erano vivi, al che non so davvero cosa pensare, se sia meglio cioè che si tratti di un’iperbole o se ha davvero provato l’esperienza di crostacei che muovono zampe e chele nel piatto, avvinghiati in un intreccio di spaghetti. L’altro, che si muove come se fosse in intimità con la ragazza, sdrammatizza con una boutade, sostenendo che non le è piaciuto perché c’era il pomodoro, ma la ragazza è ormai su un altro piano della conversazione che prevede aneddoti di cucina ittica accaduti nel corso di una vacanza in Kenya. Io non so nemmeno se ci sia il mare, in Kenya, ma forse sì, e se davvero si mangino i migliori piatti di pesce del mondo. Un viaggio in Africa come qualsiasi gita fuori porta in Liguria ad ammazzarsi di fritto misto fatto con totani surgelati. Non so se sia peggio la globalizzazione turistica o il fatto che la gente si sfondi di programmi tv di cucina e che il cibo sia uno degli argomenti di discussione più diffusi. Non a caso il racconto vira su un parallelo piuttosto improbabile con il piatto di pasta oggetto della conversazione. Qualcuno poi alla fine rivela il perché non le è piaciuto. Non le è piaciuto perché non ha potuto fare la scarpetta. Capite il dramma?

se proprio ci tenete a saperlo, ecco come è andata

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Non potete immaginare la mia sorpresa quando noto le pantofole spuntare dalla borsa di plastica. Quel modello di calzature da casa che non vedevo da anni, ne possedevo un paio identico che consideravo preziosissimo perché erano chiuse dietro, avevano una suola anti-scivolo e mi consentivano quindi non solo di giocare interminabili sfide calcistiche da solo in casa, ma anche di auto-convincermi nella consapevolezza di riuscire a emulare i tiri di punizione a foglia morta di Mario Corso, già abbondantemente al termine di una gloriosa carriera sportiva, con una pallina da tennis. Erano pantofole blu con dei ghirigori rossi sulla punta in materiale invernale adatto agli appartamenti di una volta, in cui se non ti coprivi avevi freddo, e sono certo di averne patito la fine del loro ciclo di vita quando il mio piede si è prolungato al numero successivo rispetto a quello e, vuoi il cambio di stagione, vuoi i gusti in evoluzione a quell’età e in quegli anni, non sono state più confermate.

Così la meraviglia nel rivederle è difficile da descrivere e mi distrae proprio mentre mi chino a scrivere i miei dati sul modulo di registrazione che mi viene fornito alla reception. La borsa di plastica, con quelle pantofole e tutta una serie di indumenti che si direbbero usati e oggetti vari, è proprio a fianco del banco dell’accettazione, ma l’aspetto sorprendente è che non appena sottoscrivo con la mia firma uno di quei fogli stampati in corpo sei pieno di norme sulla privacy e articoli e commi che nessuno legge mai, l’hostess la afferra e me la consegna con un sorriso fin troppo fuori luogo ma probabilmente direttamente proporzionale al suo cachet orario in quel ruolo da freelance.

Cerco di appartarmi dopo essermi sottratto al resto della coda che dietro di me si accinge a fornire a sua volta le proprie generalità. Trovo due cataste di sedie impilabili che mi ricordano quelle dell’oratorio delle prime feste e dei primi tormenti ormonali e, provato dalla temperatura eccessiva per la stagione, mi libero della giacca del completo business che qualcuno ha scelto per me – forse perché l’unico mai posseduto – e indago sul contenuto di quel gadget senza dubbio originale. Dopo anni di eventi di lavoro in cui ho accumulato block notes, cartelline, penne e chiavi USB, per la prima volta trovo indumenti e oggetti curiosamente familiari.

Sotto le pantofole da casa dei tempi delle elementari trovo il mio vecchio chiodo, quello molto più tardo, compagno di notti trascorse su giacigli improvvisati in rumorosi centri sociali, momenti di gaio pogo sotto il palco di cover band sconosciute, donato infine a qualcuno in cambio di una promessa poi mai mantenuta. Sotto il datato giubbotto di pelle consumata ecco invece un raccoglitore in plastica di foto. Nella prima ci sono io con un ciuffo che oggi farebbe ridere chiunque in mezzo a una classe quasi interamente femminile, poi una serie di istantanee di una vacanza a Bologna, a casa di un tipo che viveva in una specie di sottoscala in un campanile, senza elettricità.

In fondo alla borsa trovo addirittura un volume Garzanti economico di un poeta italiano del cinquecento, e il frangente in cui ricordo di averlo acquistato – una libreria sul lungomare e una persona che si lamentava del modo in cui spendevo i miei risparmi, senza considerare il fatto che il libro era in offerta – mi permette di comprendere il nesso. Rimetto tutto nella borsa di plastica e mi trovo a sorridere perché immagino così anche il momento in cui ci si rende conto di essere in un posto oltre la vita, in cui non solo ti ridanno il tuo corpo nella migliore condizione in cui risulta essere stato in base a un archivio di dati raccolti nel corso degli anni, ma ti restituiscono pure tutte le tue cose.

Al momento del rilascio del consenso te ne consegnano qualcuna, giusto per sincerarsi che sia davvero roba tua. Poi ti forniscono un vero e proprio magazzino come quei posti dove puoi lasciare i tuoi mobili quando ti trasferisci ma non hai ancora una sistemazione definitiva e ti occorre uno spazio in cui depositarli prima di prendere possesso della nuova casa che magari non è ancora pronta.

E infatti nella seconda di copertina della brochure di cui la ragazza alla reception poco prima mi ha fatto omaggio trovo una tessera plastificata come quelle che negli alberghi ti fanno entrare e uscire dalla camera. Leggo un numero, una data che è quella della mia nascita e un’altra che non riesco a collegare a nulla di importante. Poi noto uno striscione pubblicitario appeso alla parete di fronte, è della società sponsor che si occupa di ritirare attrezzature da fallimenti e di rivenderle a privati e aziende a prezzi vantaggiosissimi. Cerco di memorizzarne l’indirizzo, sono certo che potrei trovare qualcosa di interessante.

facile a dirsi

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Ora non dico che non dovremmo essere complicati. Credo però che quello che poi esprimiamo a parole sia una banalizzazione in eccesso di quello che teniamo al calduccio sotto la corroborante trapunta delle nostre riflessioni. Io me le immagino come una matassa tutta aggrovigliata di pensieri scritti come usa adesso, quelle tag cloud per le quali ci sono anche i tool in internet per generarle. Ci sono termini scritti in font giganteschi ed altri percettibili a malapena, questo dipende dalla ricorrenza dei concetti nelle nostre elucubrazioni e se un’idea marginale a un certo punto diventa una vera e propria ossessione, in ogni istante della nostra vita cosciente la vediamo lì stampata con il suo carattere bello ciccione che sovrasta tutto il resto. Ma in questo ordito delle nostre divagazioni succede che poi non facciamo mai ordine e alla fine peschiamo la risposta più evidente come in quel gioco dell’indovina che cos’è, quando si deve mettere la mano nel sacchetto e scegliere un oggetto estraiamo quello dalla forma più ergonomica, perché già c’è il mistero della pesca al buio, così se qualcosa si lascia impugnare più agevolmente ci consente di avere almeno la meglio sull’ignoto.

In pratica, quanto siamo più complessi e difficile dentro poi nessuno se ne accorge fuori, a meno di non trattarsi di un compagno di vita, di un parente stretto, un partner confermato o un collega da posto fisso che devi conoscerlo bene per sapere quando stargli vicino o evitarlo. Se poi siete abituati a leggere molto, quando vi trovate di fronte a una differenza così evidente tra quello che la gente si dice nei libri e come le persone si rivolgono dal vivo, ogni dubbio anche minimo viene fugato. Non dobbiamo aver paura. Quei dialoghi scritti che a volte non riusciamo a seguire e ci perdiamo addirittura tra botta e risposta tanto che dobbiamo tornare indietro nella pagina fino all’inizio del confronto – almeno io faccio così – e contare uno e due, uno e due per arrivare sino al punto in cui non siamo più riusciti a capire chi stesse dicendo a chi e che cosa, ecco a una situazione di questo genere tra persone in carne e ossa non vi capiterà mai di assistere. Poi c’è chi ci prova e non è assolutamente un problema di lessico più o meno forbito o desueto, anzi le persone complicate ci comunicano cose talmente elementari che finisce che escano sottovalutate dal confronto. Il problema è distinguere una semplicità apparente da una di risulta. Per questo le conversazioni più superficiali dovrebbero essere bandite, non c’è spazio per niente, e a quel punto è meglio starsene in silenzio o anzi, meglio, scrivere una bella lettera di accompagnamento alle proprie intenzioni così c’è sempre l’alibi della comprensione del testo. Un po’ come quando dovete leggere cose come questa qui.

aiutatemi: che giorno è il 27 gennaio?

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Non è vero che con l’approssimarsi del Giorno della Memoria si moltiplicano gli speciali in tv dedicati all’iniziativa, il mio è una sorta di negazionismo e sostengo questa posizione anche ora, appena dopo aver seguito fino alla fine un documentario su Dachau che, prima di coricarsi, non è propriamente uno spettacolo che ti rimette in pace con il mondo. O meglio sì, sotto un certo punto di vista, ma non voglio rovinare il finale di questo post.

Non è vero, e torno all’incipit qui sopra, ed è facile provarlo perché basta sintonizzarsi su Rai Storia a qualunque ora in qualunque periodo dell’anno. La percentuale di possibilità di trovare un programma sulla Seconda Guerra Mondiale o affini è elevata, d’altronde a volte uno si chiede se ci sia da parlare d’altro trattandosi della madre di tutti i conflitti e, già che siamo in tema, di tutte le campagne elettorali. L’alfa e l’omega di ogni discussione, quello oltre il quale non si può rilanciare e chi lo fa, statene certi, ha simpatie nazifasciste e, come tale, dovrebbe risultare agli antipodi delle vostre frequentazioni. L’argomento che supera in gravità qualunque altra cosa, i film di Tarantino, i saldi, gli zarri come Corona. Provate a inserirvi in una conversazione altrui, per esempio se avete un ufficio dotato di cucina dove in pausa pranzo è facile far parte di crocchi ai tavoli mentre si consuma tutti insieme il panino o la schiscetta. Provate a inserirvi e a dire la vostra sui cadaveri che avete visto la sera prima in tv, che ogni anno con l’approssimarsi del Giorno della Memoria capita che vi cambino l’umore, vi diano il senso delle priorità e ridimensionino alcuni fenomeni di attualità, come la crisi economica, a una gita a Gardaland (cit.), al confronto. Provate a sottolineare il contesto in cui sono stati presentati quei cadaveri, ovvero l’ammasso di cadaveri. Cadaveri caricati a mucchi su pale e depositati in fosse comuni, cadaveri mescolati che non si capisce dove inizi l’uno e finisca l’altro. Ora, a parte essere un tema inappropriato per una situazione conviviale, state certi che nessuno poserà il panino o riporrà la forchetta e si addentrerà con voi in questa riflessione. Anzi, è facile che da quella pausa pranzo in poi i colleghi cerchino di evitarvi.

Possiamo così ammettere che con l’approssimarsi del giorno della memoria su quello che poi alla fine è il mio canale Rai preferito si vedono un po’ meno mascelloni autoritari e traditori in camicia nera della loro gente – che poi la nostalgia successiva ne ha edulcorato la portata creando il mito, anche in questo caso si tratta del mito di un cadavere – e più cadaveri che così cadaveri non li avete mai visti, nemmeno a CSI. Vero? I cadaveri dei campi di sterminio come Dachau che si vedono nei documentari sono più morti degli altri. Così magri, così vilipesi, così omologati e indistinguibili. Così morti. Per questo vorrei rivedere il concetto di iperrealtà, perché non c’è più iperrealtà che la morte ma non la morte normale, bensì la morte che dà vita – per modo di dire – a cadaveri di quel tipo. Ecco, l’ipermorte e i suoi ipercadaveri che sono talmente oltre l’ordinarietà della tragedia che non ce l’immaginiamo nemmeno. E magari quei burloni dei negazionisti e dei nostalgici vogliono forse dirci questo, che si tratta di un punto così sopraffino della crudeltà che non è immaginabile e non attribuibile ad alcuna follia umana, nemmeno quella le cui vestigia oggi troviamo venerate in numerosi gruppuscoli di neonazifascisti che, peraltro, si arrogano la libertà di presentarsi persino alle elezioni e la cui frequentazione e amicizia vi invito ancora una volta a negar loro.

C’è solo un modo, e ve lo suggerisco qualora una di queste sere vi trovaste a seguire come ho appena fatto io un documentario su Dachau, un solo modo per riprendere le fila della storia, capire perché malgrado a molte cose non sia mai stata data la giustizia che meritavano siamo comunque arrivati sino qui, a discutere dei film di Tarantino, della crisi economica o di quello zarro di Corona anziché di ipercadaveri morti in un modo che probabilmente non possiamo nemmeno immaginare, e a permettere a organizzazioni neonazifasciste di fare quello che fanno (hanno persino formazioni musicali atroci, che forse è uno dei crimini peggiori per i quali dovrebbero essere messe alla berlina).

L’unico modo è seguire quei documentari fino alla fine, perché solitamente vengono concentrate per tutta la loro durata le immagini di mucchi di ipercadaveri morti chissà come e la voce di testimonianze dirette, donne e uomini scampati alla ipermorte e che hanno vissuto la loro ipervita fino ai tempi di quello zarro di Corona, e chissà ancora per quanto e quanti ne rimangono. Perché alla fine ci lasciano sempre con parole di speranza, sostenendo che cose come quelle che hanno subito loro non dovrebbero accadere più. Malgrado aver trasportato carrette colme di ipercadaveri verso i forni crematori sono proprio loro ad assicurarci che c’è una speranza. La stessa che si sono inventati per sopravvivere in prigionia e anche dopo, che se avete seguito la logica strampalata di queste mie considerazioni, a questo punto potremmo definire ipersperanza. Quella talmente impossibile da avverarsi che poi succede e vale più di tutto il resto.

credits

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Quante volte lo diciamo e lo sentiamo dire, è una delle prime parole che impariamo forse la terza dopo mamma e papà perché ogni cosa che chiedevamo o che ricevevamo in dono spontaneamente da altri la domanda di rito era “come si dice?”. Da lì il prematuro “azie” è diventato “grazie” una volta acquisita la pronuncia delle consonanti appiccicate, troppo strette per un palato sdentato. Ed è giusto così, l’educazione è il fattore vincente nella vita attraverso il quale sei rispettato e rispetti il prossimo. Poi però è come se la garbata accortezza del restituire una cortesia si trasformasse in una risposta automatica senz’anima e non ci facciamo più caso. Perché lo ripetiamo come una eco anche alle cose che ci sono dovute, per ostentare cordialità quando vorremmo cambiare i connotati altrui, al telefono quando le leggi delle conversazioni vocali impongono di tenere sempre il sorriso sulle labbra, pare che dall’altra parte faccia la differenza ma non chiedete a me se è vero, non lo so e non me ne accorgo ma prometto di provarci la prossima volta. Non parliamo poi dei dialoghi virtuali, è un tutto un grazie e prego via e-mail che poi non la finiresti più giusto per sfizio, perché non è il caso, non siamo uno di fronte all’altro, per me se mi mandi un messaggio di posta elettronica anche se c’è su il tuo nome potresti essere chiunque, anche un’entità dal mondo dei morti o un software che spedisce ringraziamenti a caso. Il cerchio si chiude quando la conversazione è imbevuta di formalità professionale, e quando rivolgi un ringraziamento dovuto il destinatario ti risponde con un “no, grazie a te” e tu rimani lì stupito perché pensi che cosa hai fatto per ritorcerti contro quella catena di smancerie superflue quando ci sono dinamiche e riporti a smascherarne l’inutilità. Ma questo è il gioco dei rimpalli, l’eterna partita a lanciarsi dall’uno o l’altro campo il primato della correttezza e l’allegato fattore svilente che questo comporta, uno strascico di convenzioni che ne annulla la portata rivoluzionaria. Liberarsi di un fardello. Restituire la fatica di ammettere la necessità altrui che ricerchiamo, pesante come una palla medica. Grazie per l’attenzione.

grazie a dio è venerdì

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– Mamma, ho paura delle mestruazioni.
– Non preoccuparti amore, hai 8 anni, devi crescere fino all’età di tua cugina per averle e puoi stare tranquilla ancora per un po’.
– Ma fanno male?
– No, solo un po’ di mal di pancia il primo giorno.
– E quanto durano?
– Dipende, più o meno cinque giorni.
– Allora finiscono per il fine settimana?

prima di addormentarci

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Papà, ma come si fa capire se parlando un inglese dice “ma” o dice “pipistrello”? Bella domanda, rispondo io, è come se un inglese non capisse se un italiano gli ha risposto affermativamente o intende la settima nota della scala di do. E il do come si fa a distinguere da dò nel senso di ti dò un regalo? Mi chiede ancora e poi ride perché ha capito che si può rosicchiare ancora qualche minuto prima del bacio della buonanotte. Come si fa? Fa o fa? Si e fa? E cerca di cantarmi proprio le note, ma le prende a caso e non pretendo l’orecchio assoluto a otto anni. Spegniamo la luce, dai. Anche se ormai non dormirò così faciilmente, perché il gioco può continuare all’infinito e chissà dove arriveremo, io nella mia testa e lei nella sua, fino a domattina.

il mestiere di tua madre

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Anna ha diciott’anni e si sente tanto sola, in realtà ne ha di più di anni ma si sente sola lo stesso perché è vittima fresca di giornata degli insulti di un energumene di cui non immaginava l’esistenza fino a stamane quando lo spazio intorno a quello immeritatamente occupato dall’omaccione si è ristretto a causa dell’overbooking di un treno locale. Ma l’omaccione non ha ridotto di un millesimo di millimetro la propria porzione di cubatura e nemmeno si è spostato, attirando le ire di Anna che faceva di tutto per non perdere la prima ora di lezione al Politecnico.

Anna ha fatto notare a quell’ammasso di muscoli che gli sarebbe stato sufficiente spostarsi di un passo per consentire ad altri di salire a bordo, lo ha fatto notare gentilmente, poi ha calcato sulla necessità dell’esercizio del buon senso per permettere a tutti di prendere il treno, poi ha infilato nella preghiera qualche parolaccia, un’escalation determinata dalla scarsa propensione della bestia antropomorfa a lasciar spazio a terzi. Allora Anna si è visibilmente scaldata, e alla preghiera e a qualche parolaccia ha aggiunto un solenne vaffanculo che è stato scorto come un palloncino pieno d’acqua passare sopra le teste delle decine e decine di passeggeri pressati che separavano lei, aggrappata ai sostegni ma ancora con i piedi fuori dalla vettura, dal voluminoso destinatario all’altro lato del vagone, fino a schiantarsi sulla faccia incredula sovrastante quel groviglio semovente di carne dopata.

Il quale, nella palese impossibilità di un confronto vis-a-vis, l’ha insultata dandole della zoccola, mimando il gesto della circonduzione del polso con borsetta che la semiotica popolare associa all’attività di soddisfazione di piaceri sessuali a pagamento, con l’aggiunta di allusioni verbali sul tipo di prestazione in superfluo spirito didascalico. Che un uomo dotato di cervello e volontà possa utilizzare quel tipo di insulti completamente decontestualizzati come arma di offesa avvalendosi della sua prestanza fisica e della soggezione che genera negli altri è inconcepibile, a un vaffanculo si risponde con un vaffanculo e non dicendo tu sei una puttana torna al posto di lavoro ammesso che qualcuno voglia pagarti.

Le porte del convoglio si sono chiuse e Anna si è seduta a piangere accanto a una signora ucraina che non capiva il motivo dello sconforto, chissà come si insulta una ragazza nella sua lingua, chissà se a Kiev o nei sobborghi limitrofi qualcuno avrebbe reagito lanciando l’inutile zavorra vivente – e relativa capacità di apporto costruttivo alla crescita del genere umano – giù dal treno in corsa per abbandonarla al destino che si merita. Purtroppo non ho assistito alla scena, questo aneddoto mi è stato raccontato, se fossi stato lì sicuramente gliela avrei fatta vedere io.

più di là che di qua

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Si passava da una festa all’altra, a quanto pare c’era sempre qualche cosa da festeggiare. Un compleanno o una laurea, il vernissage di una nuova casa o la dismissione di quella precedente, la festa d’addio di qualcuno. Eventi organizzati da privati che poi alla fine diventavano pubblici tanto che in certi appartamenti c’era paura che il pavimento crollasse, case antiche i cui costruttori non avevano minimamente pensato alla portata massima in peso, con l’aggravante del ballo che non so se peggiori la situazione, ma suppongo di sì. Una sera proprio per una casualiltà di questo tipo aveva avuto origine una sorta di leggenda metropolitana, il piano su cui si affacciavano i due appartamenti i cui proprietari avevano unito gli sforzi organizzativi si era crepato, stiamo parlando di una abitazione medioevale che forse aveva resistito ai saraceni ma non al centinaio di giovani adulti ospiti dell’artista tedesco e della sua vicina.

Ma il bello di quella trovata era che si poteva passare da una casa all’altra. Da una parte c’era la musica, l’appartamento A comprendeva una sala abbastanza grande per un party danzante, e malgrado la penombra riconoscevi le solite facce, quello altissimo biondo amico di non ricordo chi, l’architetta con i capelli corti e gli occhiali da nerd che si metteva a piedi nudi per ballare quando era ubriaca, ma non pensate a balli sfrenati o a chissà cosa. La musica era molto sofisticata, da club, poco rock e più sul versante dub e elettronico, fino alla lounge che era per palati fini.

Dall’altra, l’appartamento B, si poteva mangiare e bere, i meno danzerecci restavano in pianta stabile lì a spettegolare su tutto, danzerecci compresi. Immancabili i due proprietari del negozio di abbigliamento femminile del centro, oramai con i capelli bianchi ma elegantissimi nei loro dolcevita attillati, due molto raffinati che malgrado le vite sentimentali disastrose non avevano mai ammesso la loro attrazione reciproca o forse si ma la cosa non era di dominio pubblico. Stazionavano nei pressi di un catino pieno di un cocktail colorato che sconsigliavano apostrofandolo come sciacquatura di coglioni. Poco invitante, decisamente.

Poi così come ci si sentiva straordinariamente a proprio agio e pervasi da un divertimento mai provato sino ad allora, così a un certo punto ci si ritrovava fuori, in più di quelli con cui la serata era cominciata, e pronti a tirar tardi in un locale o in un’altra festa. Non era facile per gli outsider venirne a conoscenza, si trattava di un ambiente piuttosto esclusivo e ristretto, ma gli inserti di nuova linfa umana, quasi sempre maschile, erano tuttavia percepiti come un segnale positivo.

E non era nemmeno il caso di portare nulla, in caso di invito, chi metteva a disposizione la propria casa aveva tutto e un gesto di cortesia, un paio di bottiglie o una torta salata, sarebbe passato inosservato. Gente come il gemello insopportabile della coppia di omozigoti praticamente indistinguibili a malapena si accorgeva della tua presenza in casa sua, quel gigantesco labirinto strappato a un prezzo di affitto irrisorio alla curia con cui aveva forti agganci di famiglia. Portare un vino pregiato significava versarlo direttamente nel cesso, troppa superficialità. E anche quando te ne andavi oramai erano tutti troppo sbronzi per notarlo, non aveva senso nemmeno ringraziare il padrone di casa. Fare conversazione era comunque estremamente semplice, era sufficiente non lesinare in complimenti a chiunque ti rivolgesse la parola. A meno che non si decidesse di sparlare su qualcosa o qualcuno, ma occorreva aver ben chiaro chi fosse in buoni rapporti con chi.

Poi, e probabilmente è successo nell’ultima festa di quella stagione di spensieratezza, ci smascherammo a vicenda, eravamo entrambi così stremati dalla vita professionale che lasciavamo con serenità che nel weekend ci fosse qualcuno – il nostro partner di allora – che guidasse per noi. Ci incrociavamo agli stessi orari due volte la settimana, ogni lunedì mattina e ogni venerdì sera, e c’era già abbastanza materiale da unirci in cameratismo. Il fatto che qualcuno mi avesse riconosciuto pur conoscendomi di meno di tanti altri mi fece sorridere amaramente, sapete quel sorrisetto che si fa quando ci si trova a imitare gli attori cool dei film. C’erano un paio di birre nel frigo, forse le ultime ma sarebbe troppo scontato per un finale della storia, tutto da trascorrere giù in strada a progettare di mettere su una agenzia new media a Milano.