più di due anni di lavoro

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È appena terminato un programma mattutino su Rai Uno dedicato alle automobili, una vetrina patinata delle prove su strada, virtù, confort e optional delle vetture attualmente in commercio con tanto di analisi comparata. Tralascio il motivo per cui il vostro sia stato sottoposto alla visione e perché mi trovassi in presenza di un apparecchio televisivo acceso alle 8:30 del mattino, non vogliatemene, non sono a casa mia. In realtà l’escamotage per lasciar passare in secondo piano quello che mi ha spinto a una riflessione terra a terra, quelle che ti vengono appena sveglio e confuso dal metterti in moto – è proprio il caso di dirlo – per la nuova giornata anche se è un giorno festivo, dicevo l’escamotage pensato dagli autori del programma è mostrare borghi e paesi incantevoli, oggi eravamo in Toscana, lungo lei cui strade e vie i conduttori al volante ci espongono la loro recensione. Potete immaginare l’oggetto della mia riflessione terra a terra, ovvero il costo della Fiat Freelander, della Range Rover o dell’Audi e non ricordo l’auto oggetto del test, prezzi a partire da 30 mila o 35 mila euro ma che per il modello utilizzato per la trasmissione, con tutti i crismi e gli accessori del calibro del filtro anti-polline, arrivano a 50 mila euro. La conduttrice snocciola le cifre da listino come se fosse una cosa normale, e magari poi lo è, ditemi voi, e addirittura pronunciando 50 mila euro mi ha fatto pure l’occhiolino, ne sono sicuro. No, perché poi passi dalle immagini del programma alla splendida cornice, quella che contiene le immagini e cioè la tv, oltre la quale ci sono ambienti modesti e persone con stipendi normali, allarghi il quadro e passi al dettaglio della prima pagina di un quotidiano sul tavolo che dice che un italiano su tre taglia le vacanze. Continuiamo questo gioco di immaginarci con una telecamera in mano, e zoomiano fino a fuori di qui, e riprendiamo edifici più o meno popolari abitati da famiglie con figli già grandi e impiegati in questo o quello stage a quattro o cinquecento euro al mese. Mentre dentro la splendida cornice, sempre quella della tv, siamo riusciti a catturare un fermo immagine, quello in cui una cifra, 50 mila euro, campeggia su un’automobile di lusso lanciata lungo le strade della campagna toscana. Ora va bene che uno accende la tv proprio per allontanarsi il più possibile dalla vita di tutti i giorni, che poi non è vero perché ci sono quelli che usano il mezzo per avere maggiore contatto con quello che succede, ma mi sembra che il distacco dalla realtà ora sia davvero incolmabile. Forse è solo perché è Rai Uno, chissà.

Justice – New Lands

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bravo, bis

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Diciamo NO a chi balla fuori tempo ai concerti, muoversi non rispettando il ritmo può essere deleterio e causare scontri involontari con chi invece segue la canzone con gli stessi battiti, questo indipendentemente dalla propria coreografia. Non devi essere Nureyev per non schiacciare i piedi o spalmare il sudore addosso a chi ti sta vicino. Diciamo NO a chi acquista i biglietti ma va solo per accompagnare l’amata/o con il solo scopo di limonare il più possibile, prima dell’inizio, durante il gruppo di supporto e dopo l’inizio vero e proprio. Già il fatto che un gruppo come gli Stadio abbia dedicato una canzone al fare l’amore durante un concerto rock è significativo circa l’inopportunità di tale pratica. Diciamo NO anche ai gruppi di supporto, che a parte i Bloc Party prima degli Interpol non ricordo di aver mai ascoltato con pazienza la band apripista della serata per la quale ho pagato fior fior di quattrini. Soprattutto in ambito locale: se già trovare un concerto di un artista italiano valido è una rarità, figuriamoci se chi apre la serata è all’altezza. Per esempio, ieri sera al concerto di Caparezza a Sesto S. Giovanni, che già pur con il bene che gli voglio si è trattato di un momento artistico di qualità ma comunque sempre molto calato nel nostro metro quadro di italianità, non vi dico l’inutilità dei Rezophonic dei quali pur apprezzando il valore dell’iniziativa, musicalmente sono abbastanza una merda che ti sembrano i gruppetti di cover nei quali hai smesso di suonare a vent’anni. Diciamo NO a quelli che non conoscono i pezzi e che tutto sommato non gliene fotte niente nel concerto, ci vanno perché ci devono andare e assistere a Sting o a Biagio Antonacci è la stessa cosa. Ne parla il web e allora devono presenziare. Poi si mettono fermi come statue e passano il tempo a chiedersi che cosa ci fanno lì e a rispondersi che comunque devono divertirsi. Diciamo NO a quelli che conoscono i pezzi e li cantano ma sbagliano le strofe e le parole, un classico che a trovarseli di fianco ti viene da farti rimborsare il biglietto. Diciamo NO anche a chi ti fuma vicino anche se il concerto è all’aperto, e soprattutto a chi ti fuma vicino e non offre. Diciamo NO ai forzati del pogo, così chiudiamo il cerchio con quelli che ballano male e fuori tempo. Quelli che pogano a ogni bpm, sia che il gruppo sul palco stia suonando un pezzo a media velocità che un brano velocissimo. Il pogo per loro è una forma mentis, esprimere il corpo con il movimento è solo spintonare i presenti nel proprio raggio di azione, complice il tasso alcolico. E diciamo NO ai concerti dopo i 40 anni, va. Che a vedere tutti ‘sti nemmeno ventenni che si divertono senza tanti problemi uno si rovina anche la serata.

la paura nel buio

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Anni dopo è capitato che mi sia servito di quella casa, che nel frattempo era stata parzialmente ristrutturata rispetto all’uso prettamente rurale per cui era stata costruita dai bisnonni, come pied-à-terre di fortuna. Non avevo una abitazione mia e la voglia di intimità totale o di coppia era troppa per essere risolta in automobile o altrove. Così mettevo a tacere lo stato di inquietudine che il soggiorno in cima a quella collina mi suscitava e il disagio di restare in una casa così isolata in cui io, in quanto componente maschile e adulta, ero tenuto a ricoprire il ruolo che la cultura diffusa vedeva naturalmente preposto anche alla eventuale difesa degli inquilini e ospiti. Difesa da qualunque tipo di minaccia, dai topi di campagna fino ai serial killer, tutta una gamma di imprevisti mai verificatisi verso i quali comunque non avevo dubbi circa la mia inadeguatezza. E a dir la verità una volta un topo in casa l’ho visto, anche se molto tempo dopo. Mi stavo lavando i denti in bagno e con la coda dell’occhio l’ho notato attraversare il pavimento e nascondersi dietro la colonna del bidet, ed è stato allora in cui ho realizzato che era arrivato il momento in cui avrei dovuto mio malgrado dimostrare la prontezza necessaria a risolvere il problema. A fare la cosa giusta e tempestiva per tenere alla larga la famiglia che nel frattempo mi ero creato dagli elementi estranei all’ambiente interno domestico. Topi e insetti, anche in campagna, devono rimanere fuori. Non sapendo come comportarmi, non ho dato previsioni e ipotesi campate in aria e ho aspettato il giorno successivo. Mio padre ci avrebbe raggiunto per prendersi cura del suo orto e avrebbe preso in mano il problema.

Mia moglie ed io tenemmo la porta del bagno chiusa fino al suo arrivo trentasei ore dopo. Mio padre era capace a venire a capo delle cose solo a modo suo, in quell’occasione posizionò una trappola con un po’ di formaggio e la mattina successiva trovammo il topo schiacciato dalla molla e io mi convinsi ancora una volta che tra un topo vivo e un topo morto è meglio avere a che fare con un topo vivo. Io non avrei saputo fare di meglio. Quello è stato il maggior pericolo a cui mi è capitato di rimanere esposto con qualcuno nella cascina di famiglia. Ma in precedenza, mi riferisco ad almeno quindici anni prima, nel corso di soggiorni per usi diciamo più promiscui, provavo quella miscellanea di sensazioni che va dalla consapevolezza del fatto che di più non mi sarei potuto permettere e l’espletamento di un dovere, quello di fornire un rifugio a un rapporto sentimentale che altrimenti si sarebbe spento prima o poi, come la batteria di un’automobile lasciata ferma di notte con i fari accesi e lo sconforto che subentra la mattina seguente alla presa in atto del danno, quando non è possibile fare più quello che si era pianificato.

Ma l’inquietudine era tale che, giustificandolo come comportamento tipico di chi vive in campagna, lasciavo accesa la lampada sulla porta di ingresso, la stessa che illuminava lo spiazzo antistante e che si usava tenere in funzione come faro di orientamento per chi sceglieva di stare fuori la sera e doveva rientrare al buio. Da quando gli Smiths poi avevano pubblicato “There’s a light that never goes out” non trovavo immagine migliore di quella: io che salivo lungo le pendici della collina per raggiungere quel punto luminoso lassù in cima, che avrei trovato preso d’assalto da falene e vari insetti notturni. Ma restare a letto con le luci spente dentro e una luce accesa fuori è snervante per chi non può fare a meno dell’oscurità per addormentarsi, così alla fine facevo finta che non serviva più e contavo sulle condizioni atmosferiche, cielo più o meno sereno, e sulla fase lunare per garantire un minimo di chiarore in stanza. Una notte avvenne che dalla camera adiacente a quella in cui la mia fidanzata di allora ed io giacevamo notammo provenire una luce anomala, ma nessuno dei due formulò alcuna ipotesi all’altro un po’ per non inserire ulteriore irrazionalità e un po’ per non sentirci poi costretti a verificare di persona di cosa si trattasse. Era la camera dei bisnonni, morti entrambi da più di mezzo secolo. Quella notte passò indenne, e l’alba giunse come d’abitudine. Il vantaggio di quella casa era che le stanze da letto erano numerose, così come se si trattasse di una decisione presa di comune accordo anche se in realtà nessuno dei due vi aveva fatto il minimo accenno, decidemmo di trasferirci al piano inferiore, non c’era certo problema di posto e la luce accesa, quella fuori, sarebbe stata ancora più confortante.

clima africano?

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Ecco un po’ di musica che si adatta alle condizioni atmosferiche. Da Pitchfork via Soundcloud (dove trovate anche la tracklist) un nastrone mixato fresco fresco, anzi caldo caldo da tUnE-yArDs con una infilata di brani world che più world non si può. Se la temperatura vi toglie il sonno, che almeno la notte vi faccia scoprire cose nuove.

chef express

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Chiamo ancora una volta a raccolta tutti i/le bloggerz che trattano tematiche inerenti le angosce dei pendolari per condividere con loro l’idea di una start up, cavalcando l’onda dell’imprenditoria naif che tanto va di moda in questo periodo di flessione del mercato. In effetti non si tratta di un progetto originalissimo quello di fornire servizi a pagamento a individui o gruppi costretti a spostarsi per decine di chilometri ogni giorno all’andata e altrettanti al ritorno. In aggiunta a ciò potrebbe sorgere il senso di colpa dovuto al rischio di infierire ulteriormente su chi già si accolla di un costo aggiuntivo di cui farebbe magari anche a meno – quello del trasporto pubblico per raggiungere il posto di lavoro – oltre al tempo perso che i più trascorrono ammirando sé stessi nel vetro del finestrino.

Ecco, invece penso sia un bene superare questo senso di colpa. Se già si tratta di un peggioramento della qualità della vita quello di misurare la propria temperanza con ritardi e disservizi vari, perché non mettere a frutto quelle lunghe pause della nostra vita in cui sospendiamo ogni attività e decliniamo ogni nostra responsabilità a una commodity che è meglio non dare mai per scontato? Anni fa, almeno venti, per farvi un esempio, esisteva una scuola di inglese che organizzava lezioni sui vagoni ferroviari tenute da un distinto englishman con tanto di bombetta e ombrello (giuro), moduli tagliati su misura a seconda della lunghezza del viaggio, libri per impratichirsi e conversazioni. Mica male.

È facile prevedere i limiti e i contro di questo modello di business (tralascio i pro che sono invece piuttosto intuitivi). Intanto risulta costoso – ammesso che sia attuabile – farsi riservare carrozze solo per chi acquista questo tipo di training on the road, e immagino l’ira funesta dei pendolari nelle ore di punta contro chi impedisce l’accesso a posti liberi mentre il resto del treno è stracolmo di gente. Si verificherebbe cioè la compresenza nella stessa carrozza di chi paga e di chi segue a sbafo i corsi, e questo non è giusto. Meglio allora puntare su servizi one-to-one o a conversazioni con il vicino di sedile.

E ho pensato a tutto questo pochi giorni fa quando ho avuto la mia idea imprenditoriale. Sentite qui. Uno degli argomenti più dibattuti sui treni, non ho percentuali a supporto ma vi assicuro che mi capita di sovente, è “che cosa prepari stasera a tuo marito”. Un dato che ha differenti chiavi di lettura, a partire dal fatto che tra donne si passa il tempo chiacchierando, mentre i viaggiatori di sesso maschile utilizzano in silenzio tutti i gadget elettronici possibili e immaginabili per poi fare il solitario, ma di questo ne abbiamo già ampiamente dibattuto.

Quel giorno una signora, a proposito dei piani culinari per la cena, mostrava alle sue compagne di viaggio tutta una serie di foto sul suo smartphone di piatti preparati da lei, e per ognuno descriveva ingredienti e modalità di preparazione con dovizia di particolari. Prova a fare questo, diceva alle colleghe, ci metti 10 minuti ed è squisito. Poi una ditata sul touchscreen e via con il piatto successivo, il secondo e il dolce. Converrete con me che il pour parler sulle ricette è un classico del disimpegno mattutino, ma mi ha colpito la variante tecnologica, ovvero l’uso del telefono come supporto multimediale.

Così ho pensato a questa tipologia di live food blogging itinerante, un punto di informazione on demand basato sulla relazione interpersonale e dedicato alla gastronomia day by day. Dimmi cosa hai nel frigo, lasciami consultare il mio database e senti come stupire chi sarà con te a tavola, stasera. Il costo delle ricette può dipendere dalla complessità, o si può decidere una tariffa standard. Non c’è nulla di differente rispetto a una ricerca gratuita su Google, sia chiaro, se non che quel non-tempo trascorso in viaggio su vagoni privi di wifi a volte proprio non passa mai. E poi vuoi mettere la forza del contatto diretto. Non mi resta che augurarvi buon appetito, la prossima stazione è la vostra.

come una calamita

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Allora è andata diritta da lui e glielo ha detto in faccia. Senti mi dà fastidio, gli ha detto proprio così, mi dà molto fastidio che tu mi guardi in quel modo quando mi incontri per strada, quindi sei pregato di smetterla. Addirittura gli aveva mandato a dire tramite conoscenze di conoscenze comuni che si sentiva persino spiata in casa solo per il fatto che lui le abitava di fronte. E so per certo che questo non era possibile perché i condomini erano sì uno davanti all’altro e gli stessi piani coincidevano, ma dalle finestre dell’appartamento di lui si vedeva solo di sbieco l’appartamento di lei e solo una stanza, che in casa di lui era della nonna e di lei non so perché non sono mai entrato in casa sua e anzi lei non l’ho proprio mai conosciuta, si trovava proprio dirimpetto, quindi nemmeno impegnandosi con un sistema di specchi sarebbe stato possibile spiare oltre tapparelle e tende. Questo era escluso.

Invece che lui la guardava in quel modo era vero. Che poi in che modo volete che la guardasse. Ci sono quelli che hanno il vizio di scrutare negli occhi le persone che si incrociano a spasso, anche a me capita di tanto in tanto senza velleità alcuna, non so voi. Probabilmente lei era bella e desiderata, lui la vedeva bella e la desiderava, così non si era nemmeno posto il problema che catturare il ricordo di lei per poi farne quello che voleva a casa sua potesse essere considerato un furto di qualcosa di personale. Voglio dire, se ti senti a disagio con il prossimo perché fa uso dei propri sensi nel modo che ritiene opportuno – modi leciti, naturalmente – è meglio che ti rintani nella tua stanza, e il fatto che anche lì ti senti vittima di un occhio curioso che ti spia (cit.) forse è indice che c’è qualcosa che non va.

Così alla prima occasione che si è manifestata, tutti sulla fortezza per la Festa dell’Unità divisi in gruppi e compagnie, lei si era staccata dalle sue amiche e aveva pensato di farla finita con quello che riteneva un molestatore. Ed è stato utile, anche se dirgli una cosa di quel genere di fronte a tutti non gli ha fatto certo guadagnare in stima e popolarità pubblica, che già lui era uno di quelli che preferiva stare per i fatti suoi e non certo a spiare ragazze alla finestra. Semplicemente non riusciva a staccare gli occhi da quel modo che aveva di farsi la coda con i capelli lunghissimi legati indietro così forte che sembravano tirarle la pelle della faccia aumentandone la superficie e – questo lo ricordo anche io – bilanciando l’armonia dei lineamenti. Poi d’estate, con l’abbronzatura e le efelidi, non era davvero male. Quando lui mi ha raccontato quello che era successo gli ho detto di non darle retta, non aveva nessun diritto e poi poteva anche essere che era lei un po’ mitomane. No, mi aveva risposto lui, è vero, è che la guardo negli occhi e non riesco a non farlo, aveva aggiunto. Da quel momento per evitare equivoci aveva persino cercato di non farsi vedere più alla finestra, e la vista dal suo appartamento così in alto non era male, o almeno per un po’ di tempo per lasciare correre le acque.

Anni dopo, ma nemmeno tanti, forse giusto il tempo per arrivare alla maggiore età, un sabato mattina aveva sentito qualche colpo di clacson sotto e così si era affacciato. Lei era uscita di casa tutta vestita di bianco e con una acconciatura molto simile a come se la ricordava lui, c’era una cabriolet d’epoca che la aspettava per condurla all’altare, suo padre e sua madre e qualche decina di parenti e amici, le mani di tutti traboccanti di fiori e di felicità. E prima di accomodarsi dietro l’autista, mentre il nonno le teneva la portiera aperta, lei aveva alzato lo sguardo su per vedere se c’era qualcuno che la osservava e forse lo aveva anche visto.

variazioni altimetriche urbane: un’infografica

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in un lampo

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Ognuno sembra attendere a suo modo il temporale estivo e la città che già è semideserta si svuota, restano solo quelli che non li aspetta nessuno altrove e stanno con il naso all’insù tanto mica devono tornare anche se è quasi ora di cena. Di certo sta per succedere qualcosa perché nel giro di qualche minuto il sole che era lì è sparito. E chi viene da posti con le montagne alle spalle e il mare davanti si stupisce della varietà dei cieli in pianura, fino alla via taldeitali c’è sereno e da lì in poi ci sono gli strati più scuri di nuvole gonfie e in fondo si vede che piove già mentre di là ci sono ancora squarci di azzurro. Meglio decidere la destinazione a seconda della propria indole, cioè se hai voglia di bagnarti tanto è estate e male non fa e magari si riesce anche a vedere una striscia di arcobaleno vai incontro alla perturbazione, altrimenti puoi prendere una scorciatoia e scongiurare il peggioramento delle condizioni atmosferiche. Se sei a piedi non ti preoccupare troppo delle infradito, non è come nei vicoli che scendono e l’acqua sembra un torrente e chissà cosa si porta dietro. Qui è tutto dritto e basta fare attenzione.

Quelli seduti soli nei dehors dei bar tavola calda con cucina cinese e giapponese tirano tardi con la Peroni da 66cl davanti e per sicurezza scrutano sopra e si avvicinano verso il centro dell’ombrellone, uno per ogni tavolino e ognuno che commenta da solo con la sua lingua diversa dalle altre. Il temporale però profuma allo stesso modo ovunque, se c’è l’asfalto caldo e oggi è rovente, e l’odore che si impara a condividere è sempre quello. Passa lì a fianco una coppia in fase di scoperta reciproca, ciascuno con il proprio cane al guinzaglio. Due razze così diverse che tirano agli opposti come se volessero separare i loro padroni, dicono che gli animali hanno il senso per i terremoti e magari si intendono anche di compatibilità umana in proiezione. Ma i ragazzi vogliono comunque approfondire o forse sono in cerca di avventura e rimettono i cani in riga.

Si sente una donna impegnata in una telefonata di lavoro, anche lei osserva lo scenario che sta allestendo l’imminente rovescio preoccupata, ma continua nella sua relazione e usa termini che non ho mai pronunciato in vita mia, mi accorgo di invidiare il lessico di chi lavora ai vertici della pubblica amministrazione, e vorrei segnarmeli tutti e arricchire il mio vocabolario ma sono di fretta e così cerco di memorizzarne più che posso. Dice “capofila nel procedimento di negoziazione” e mi chiedo quando mi capiterà di scriverlo, perché a proposito di un temporale e della sua attesa non è molto attinente. La supero mentre parla e vedo che si rintana sotto il portico della libreria anche se non piove ancora, è palese che la sua trance linguistica le fa perdere il contatto con la realtà.

Io invece sono di corsa e il momento è di quelli così gravidi di attese che inizio a pensare a tutto quello che un temporale estivo imminente riesce a ispirare, quanti poeti e scrittori e artisti e musicisti hanno trovato un collegamento esistenziale con una situazione come questa, ma poi dentro di me la butto in caciara perché prevale solo il ricordo di un pezzo che parla proprio di acqua a catinelle scritto da gruppo di urlatori pugliesi e fatto in comunella con un cantante che si è messo di traverso in quella canzone con una coda di parlato che ci azzecca proprio, e se non fosse che un po’ mi vergogno a dire che magari quel brano lì lo sentirei proprio mentre aspetto il temporale a modo mio la potrei anche postare qui sotto. Ma no, meglio di no, tanto poi non è scesa nemmeno una goccia.

se ami qualcuno lascialo libero (almeno così dicono)

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Avete presente quando due si lasciano, e voi siete uno dei due, diciamo quello che è stato scaricato ma non necessariamente. E più del fatto di essere stati abbandonati non vi capacitate che il vostro ex partner si sia messo immediatamente dopo, o anche trascorso un periodo di tempo variabile, con una persona completamente diversa da voi. A me è successo e la prima naturale cosa che ho pensato e che pensano tutti è che l’ex partner non ne potesse davvero più di me per mettersi con uno agli antipodi. E agli antipodi di me, come potete immaginare, ci sono quei tipi rozzi e ignoranti che leggono Libero, guidano Smart o gipponi o le mini modello olgettina, praticano sport estremi e si ricordano a memoria le battute de “Il signore degli Anelli”. Fermo restando che ci vorrebbe una legge a tutela della dignità dell’essere umano tale che gli ex, terminata l’esperienza che li ha resi ex di qualcuno, non instaurino nessun rapporto successivo con nessuno altro per qualche decade, proprio per non ferire l’altrui ego con inutili comparazioni. Ma questa è un’altra storia, perché quello che succede è che analoghe dinamiche si sviluppano anche negli ambienti dei gruppi musicali.

Vi faccio un esempio. Corteggi per qualche anno un bassista che guida una vespa con un adesivo dei Joy Division. Avete letto bene. Un bassista che non te la mena con Jaco Pastorius o con Sting o con Tony Levin e i suoi bassi assurdi a tre corde da suonare con le bacchette ma che strattona quel meraviglioso strumento sufficientemente da cani e con il plettro per poter accompagnare una band aspirante post-punk. Il colpo di fulmine è inevitabile. Trascorri qualche anno nell’idillio sonoro e poi le cose finiscono come da copione. C’è il cantante che vuole fare il solista, il batterista che tra i suoi quindici gruppi in cui milita decide che per te non ha più tempo perché occupi la sedicesima posizione, il chitarrista ritmico che ruba la fidanzata al chitarrista solista eccetera eccetera, insomma i cliché dello scioglimento di un gruppo. Vi faccio solo notare che dei tastieristi non si può dire nulla, da sempre sono le persone più serie e vi sfido a trovare un addetto alla macchine elettroniche testa di cazzo.

Comunque la fine della band in questione è segnata e il bassista rimane così traumatizzato che entra in una formazione di gente che fa cover dei Doors e dei Deep Purple e gira con le Harley Davidson tarocche. E si fa crescere pure i capelli. Poi ti chiama perché nel gruppo in questione nessuno è in grado di metter per iscritto una nota su un pentagramma ma ha bisogno di depositare una manciata di pezzi originali alla SIAE e tu in virtù degli antichi fasti ti offri di occupartene. Ti metti al lavoro a trascrivere le canzoni e ti rendi conto che non si può fare, non hai mai sentito una musica così di merda.

Non so, è come se – tornando alla metafora della storia d’amore – incontri la tua ex dopo un anno e la trovi dipendente da una droga potentissima e in pericolo di vita e così pensi che è un segno del destino e devi salvarla. Devi rapirla e portarla in un luogo sicuro e farla tornare pulita come prima. Così decidi di mettere in salvo il tuo ex bassista, che nel frattempo si è messo anche a studiare sodo per diventare uno che te la mena con Jaco Pastorius e Sting e Tony Levin, e ti presenti al concerto del suo nuovo gruppo mescolato tra la folla. Ed ecco cosa succede. Intanto c’è la folla, che ai vostri concerti post-punk non c’era mai. Poi l’abbondanza di pubblico femminile non depresso, idem come sopra. Non ti è chiaro quale sia il vero bene per lui, e pensi sia meglio prendere una birra e pensarci su. Magari dopo aver fatto quattro salti su Roadhouse Blues.