questa casa non è un parcheggio

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Il signor C. è lo stesso che una volta ha lasciato il fornello acceso e stava per far saltare in aria un intero condominio. Tutti ci siamo chiesti da dove venisse quella puzza di gas che aumentava sulle scale e negli spazi comuni di ora in ora, così quando abbiamo chiamato il pronto intervento hanno capito subito che non era una perdita in qualche tubo. Sono entrati dal balcone, lui era via per il weekend, hanno spento tutto, spalancato le finestre e ci siamo salvati per un pelo. Il signor C. è lo stesso che incrocio ogni mattina nel corsello tra i box ed è una maledizione, abbiamo gli stessi orari e io me ne accorgo prima di uscire nel corsello che c’è già lui fuori che armeggia con la serranda del box perché si accende la sigaretta ma non aspetta di essere all’aperto. Per lui il vano tra l’ascensore e l’uscita è già uno spazio esterno così sento la puzza di fumo e so che è passato lì da poco.

Il signor C. ha il box nella fila di fronte alla mia, quella con i garage grandi il doppio, e dentro ci tiene tre automobili. Parcheggia davanti l’utilitaria della moglie perché è così, le auto delle mogli non devono recare alle mogli nessun limite di utilizzo e devono essere comode da usare altrimenti le mogli si scocciano e le lasciano fuori così poi qualcuno le danneggia, ma a pensarci bene anche le mogli talvolta le danneggiano entrando o uscendo dai box. A fianco dell’utilitaria c’è una cinquecento nel senso dell’auto d’epoca, che il signor C. sfoggia nei fine settimana come tutti quelli che li superi alla domenica in autostrada sulle loro bianchine o sui cabrio del loro immaginario in bianco e nero, Gassman e Alberto Sordi e i guanti per avere maggior presa e la moglie con il foulard che la ripara dal vento, un baccano infernale e il terrore che si rompa un pezzo e l’auto d’epoca è da buttare via.

Dietro alle due piccole vetture il signor C. parcheggia il mezzo di famiglia, un gippone suv  che è poi quello che usa quotidianamente. Avrete capito quindi com’è la logistica del box del signor C. e la conseguente procedura di movimentazione. Prima guida fuori l’utilitaria della moglie, se la moglie non è uscita prima di lui, e la mette da una parte con il motore acceso, quindi sposta la cinquecento e la mette dall’altra parte anch’essa con il motore acceso, quindi tira fuori il gippone suv e lo porta davanti alle altre due e, lasciando anche il gippone suv con il motore acceso, rimette nel box prima la cinquecento, che la moglie di certo non utilizzerà, e per ultima l’utilitaria, all’imbocco del garage. Il tutto con la sigaretta in bocca che, tutto sommato, con tre motori accesi, costituisce il minore dei danni da un punto di vista dell’impatto ambientale. Ma c’è un motivo per cui io non saluto mai il signor C. in quei frangenti, mentre aspetto che il corsello sia libero per portare fuori la mia, di automobile. Perché lui non mi saluta mai, e non lo fa perché è talmente preso a eseguire correttamente tutta quella sequenza di manovre che non può certo distrarsi. Poi alla fine chiude il portellone del garage, carica la racchetta da tennis e la sacca nel portabagagli del gippone suv, e prima di partire getta il mozzicone per terra.

A volte penso che ci sia in corso una sorta di guerra psicologica tra lui e la moglie, a causa della quale il signor C. fa tutto quello sbattimento, e chissà se l’episodio del fornello dimenticato acceso di cui sopra si è trattato davvero una dimenticanza. Altre volte però mi rendo conto di sopravvalutarlo, in realtà è solo un idiota come ce ne sono tanti altri. Ci sono quelli che spostano di continuo macchine fuori e dentro il box, ci sono quelli che notano cose così e le scrivono. Tutto qui.

il mio corpo che cambia

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Ora non è che uno nel suo blog debba scrivere anche di quando va in bagno a fare le cose che si fanno in bagno, ma sappiate che quello che dico a voi non lo racconto a nessun altro. Quindi vi raccomando un po’ di discrezione. Ad ogni modo è stato molto bello ieri quando seduto nello studio del mio odontoiatra, che da ieri è diventato il mio odontoiatra di fiducia e ora scoprirete il perché, mentre mi aggiornava il preventivo e me ne stampava una copia per farmela firmare, io, semisedato per il duplice intervento di impiantistica a cui mi stavo per sottoporre e grazie al valium per nulla angosciato dallo scheduling di rateizzazione in dodici mesi che stavo scorrendo riga dopo riga, e alla lettura di ogni mese oltre alla crisi globale e alla possibilità di perdere il lavoro e non rispettare quel gravoso impegno economico mi figuravo i più cruenti scenari biblici, la peste i terremoti e le cavallette, tentavo comunque di lasciare un sereno ricordo di me a lui e al suo staff – qualora l’operazione avesse avuto l’esito peggiore che il mio immaginario contemplasse – sfoderando una delle gag migliori del mio repertorio da “adulto che tenta di malcelare il panico” tutto tronfio della mia filosofia da Facebook for the masses.

Così alla domanda se fossi teso, gli ho risposto che un po’ si perché quella del dentista è una paura atavica dell’uomo perché la bocca e i denti e blablabla, senza andare nei dettagli dei sogni che da sempre ogni tanto come tutti voi mi capita di fare, e cioè dei molari che se ne vanno, si staccano, addirittura più di uno per volta e poi restano lì in bocca e ti sembra di masticarli e poi ti guardi allo specchio e trovi il vuoto ma poi ti svegli perchè hai i gatti ritti sul petto che ti leccano la barba perché sono le sei e trenta del mattino e vogliono metterti al corrente del loro appetito (sì ho due gatti, sì ho la barba, sì mi sveglio alle sei e trenta del mattino). Gli ho aggiunto invece che l’odontoiatra è uno di quei lavori che non farei mai e che davvero ammiro chi li fa e non mi capacito di chi sceglie questa strada. Gli ho confessato che nella classifica delle professioni agli antipodi dalla mia tempra (la cosa più rischiosa che ho fatto nella mia vita è stata usare un browser senza antivirus) ai vertici c’è la sua e il pilota di aeroplani per il trasporto passeggeri (c’è uno psicologo in sala o un esperto di film di Woody Allen?).

Al che, ed ecco perché l’odontoiatra in questione è stato immediatamente promosso a mio odontoiatra di fiducia e non perché l’esito dell’intervento è stato positivo e l’operazione assolutamente indolore, mi ha risposto di essere onorato di costituire la sintesi della mia visione del coraggio. Terminate le superiori si era presentato di fronte ai genitori con due domande di ammissione ad altrettante carriere alternative: quella che svolge tutt’ora, per la quale poi avrebbe superato la preselezione, e quella presso l’aeronautica militare. Quello è stato il climax. Dottore andiamo, sono pronto, gli ho detto. L’ennesima conferma della mia ricerca inconscia del padre ideale nelle figure complementari di cui mi voglio attorniare, ciascuno a svolgere una delle attività per le quali non sono portato, una visione di famiglia allargata a microsocietà autosufficiente in cui il mio compito è di raccontare cosa fanno gli altri e, al massimo, scegliere la playlist più indicata al momento.

il villaggio e il globale

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Nascere e crescere in un piccola città di provincia ti fa pensare che tutto il mondo è piccolo così, il cardine e il decumano che si incrociano e quei pochi isolati che formano il centro e spostandoti a piedi ti sposti ovunque, che poi ti trovi a Manhattan e pensi di fare lo stesso e ci riesci anche ma non è la stessa cosa, arrivi a sera e ti meriti un pediluvio, altro che localini e New York by night. Allo stesso modo ma in scala diversa, se sei abituato alle grandi distese canadesi e qualche centinaio di chilometri al dì per te sono bazzeccole – è una storia vera – succede che un dittatore libico lancia un paio di missili su Lampedusa e così chiami i tuoi parenti in Piemonte, Italy,  per accertarti che vada tutto bene e che i missili su Lampedusa non abbiano scalfito le Alpi.

A me però fa sorridere di più il primo caso, che poi è anche il mio, avere le radici ai margini che ti nutrono dentro il modello locale applicato su grande scala, come quell’insegnante di campagna che ci raccontava che al suo paese c’è un fiume, un affluente del Po, e che ha da sempre importanza strategica tanto che fiume, nel suo dialetto, si dice come il nome proprio di quel corso d’acqua e così se sei a Londra, per dire, e vuoi condividere con il tuo compagno di viaggio che quello che c’è sotto il Ponte di Londra è un bel fiume chiami il Tamigi con lo stesso nome dell’affluente del Po in cui vai a pescare le trote. O se parli con forestieri gli indichi strade e frazioni come se in tutta Italia si studiasse in geografia la toponomastica di un borgo di qualche migliaio di anime, per di più di scarso rilievo economico e turistico.

Ma la gente lì è molto concentrata su quello che accade tra il cardine e il decumano che si incrociano e quei pochi isolati che formano il centro, ci sono quelli che acquistano entrambi i quotidiani locali – che ovviamente riportano quotidianamente le stesse notizie e spesso con gli stessi titoli – per tenersi aggiornati, soprattutto in cronaca nera o fattacci brutti, e dal loro punto di vista nel resto del mondo funziona così. Così quelli che abitano lì sono addirittura più informati dei loro figli su quello che accade a livello locale anche nelle piccole città distanti dalla loro in cui i figli si sono trasferiti, perché poi a occuparti di cose minuscole alla fine acquisisci la forma mentis e magari non sai come si chiama il Ministro dell’Istruzione o quanto era lo spread stamattina e non ti curi di politica internazionale ma se nell’asilo della cittadina lombarda vicino a quella dove abita tuo figlio hanno medicato una decina di bambini per l’eccessivo caldo o se crolla una casa a qualche centinaio di metri da lui è meglio subito sincerarsi che tutti stiano bene. I genitori chiamano i figli lontani e li mettono al corrente di quello che è successo con più dettagli di un Tg, calcando la mano sui punti più crudi, e ai figli conviene stare al gioco. Ma non avete sentito niente, ti chiedono. Grazie mamma non lo sapevo, ma a dire la verità stanotte mi hanno svegliato delle ambulanze passare e forse era appena successo. Ecco, le sirene spiegate di notte, la cronaca in diretta, il particolare in più e l’accondiscendenza. Basta poco per dare soddisfazione ai genitori anziani.

un post animato

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Visti e stravisti decine di volte come compete a ogni buon padre di famiglia nell’era dei contenuti digitali prêt-à-porter, e non venite a dirmi che avere tutto sempre così a portata di mano nel cloud ne svilisce la fruizione, ecco una classifica illustrata dei dodici lungometraggi Pixar. Inutile dire che mi dissocio dall’ordine meritocratico deciso da Vulture anche se, oggettivamente, stabilire un primato non è semplice.

mi piace ma non è il mio genero

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Il padre della mia ragazza mi sta sul cazzo perché è presuntuoso e poi fa cose strane. Ho notato che quando ci accompagna in auto da qualche parte passa il tempo del viaggio a fare zapping con l’autoradio finché non trova una stazione che trasmette canzoni che piacciono a lui e a quel punto ho come l’impressione che voglia sfidarmi a colpi dei suoi gusti perché se ne infischia se chi è lì non gradisce. Sa che suono e ho un gruppo e vuole far pesare il fatto che anche lui è stato un musicista e ha una conoscenza del settore davvero impressionante, questo lo devo ammettere, sembra che non abbia mai fatto altro nella vita che scaricare musica di tutti i tipi o acquistare vinile dagli Stati Uniti per compensare in qualche modo il senso di colpa provato. Ma non posso fare alcuna obiezione perché è il padre della mia ragazza e ho paura che lei se la possa prendere visto che gli è così affezionata. Sono molto uniti, hanno passato un casino di tempo insieme ma ora lui deve mettersi in testa che sua figlia è grande e ha una sua vita privata. Il guaio è che finché non ho la patente non posso accompagnarla ai concerti, e secondo me lui ci porta perché così può entrare senza vergognarsi di essere il più vecchio, ha la scusa di essere in nostra compagnia ma non è mai successo che è rimasto fuori. Anzi, si mette in fondo ma balla e non si perde un pezzo. Loro due ascoltano più o meno lo stesso genere e io mi sono dovuto adattare, anche se certe cose proprio non mi piacciono.

Poi è successo che un paio di settimane fa senza dirmi niente lei gli ha fatto avere la demo che abbiamo finito di registrare il mese scorso, voleva fargliela sentire a tutti i costi ma io no perché non mi interessa il giudizio di un adulto che è così distante dal nostro modo di vivere la musica. Gli altri del gruppo dicono che invece è perché temo il suo giudizio ma non è vero. Insomma che la mia ragazza gli ha passato i file ancora caldi dal mixaggio e poi me lo ha detto e subito mi sono incavolato ma ormai il gioco era fatto. Lei era convinta fosse stata una buona idea, io mica tanto. Così dopo qualche giorno sono passato a prenderla per uscire e al citofono lei mi ha chiesto di salire. Era sabato e c’era suo padre in casa che mi ha detto siediti che ascoltiamo i tuoi pezzi insieme. Ero imbarazzatissimo, volevo dirgli che non era proprio il caso e sarei corso via di lì se non avessi rischiato di fare una pessima figura con tutta la famiglia, c’era anche sua mamma che anche lei non è una che mette a proprio agio chiunque. Mi siedo e lui armeggia con il remote controller del suo sistema multimediale, che è perfetto finché non deve ascoltare i suoi vinili che mi domando chi ci sia ancora nel 2020 che si compra i dischi a parte lui. Parte il primo pezzo, l’atmosfera si fa gelida, vorrei chiedergli di abbassare il volume perché trovo fuori luogo che una persona di quell’età ascolti musica così. Poi il secondo, che secondo me è il migliore, e lui inizia a dondolare il collo e fa un gesto che non capisco cosa significhi, probabilmente è un modo di dare l’approvazione che si usava quando era giovane lui. Con il terzo si è sollevato dal divano e ho notato che si muoveva a ritmo, non è che stesse ballando ma ogni piccolo gesto lo faceva a tempo anche se la canzone è in sei. Passata anche l’ultima pausa prima della quarta canzone, quella con cui si conclude il nostro EP, che le pause sono le peggiori perché c’è il silenzio e per fortuna durano solo un paio di secondi, si è seduto accanto a me, ha annuito con il capo, mi ha guardato e mi ha chiesto se ci serviva un tastierista.

la vedo nera

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Poveri deathmetallari o gothic-brutal-epic-symphonic-quelchel’è costretti a cercare rifugio dietro a colonne e pensiline per riparare il loro pallore epiteliale dalle angherie funky-reggae-latin del caldo di questi giorni. L’estate è così cinica nel rovinargli addosso l’inadeguatezza dello loro divise di stagione, e li insegue uno ad uno mentre cercano scampo per le vie trascinando gli anfibi che un discutibile compromesso gli consente di calzare slacciati sugli stinchi. E oltre che là dentro, i raggi solari si insinuano tra le lunghe code di cavallo con cui uomini e donne raccolgono i capelli sulla nuca, sotto la tracolla del tascapane nero sulla spalla, intorno alle magliette sulle quali il sonno della ragione musicale ha generato mostri del rock e alle bermuda con i tasconi di cui le linee guide ammettono l’uso lasciando scoperte le ginocchia ma solo perché si tratta di un caso eccezionale che lo dice anche Pino Scotto in tv. D’altronde non ci si può sentire in un modo quando fa freddo perché i propri beniamini vengono dai ghiacci del nord e perché fa comodo e poi mandare a monte mesi di ascolti impossibili solo perché il sudore costituisce una minaccia sociale. Il buco nell’ozono e il global warming sono però una realtà, checché se ne dica, e in qualche modo occorre far fronte. Cari deathmetallari o gothic-brutal-epic-quelchel’è, date tregua a voi stessi e evitate le ore di punta quando la massa commerciale si riversa sui mezzi pubblici, che già c’è abbastanza da soffrire così.

lo zen e l’arte di avere pazienza con i treni in ritardo

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Oltre a essere un Paese di allenatori della Nazionale e di Presidenti del Consiglio, e anche di eterni indecisi su cosa e quando alcuni nomi vadano scritti con l’iniziale maiuscola o no, siamo anche un popolo (questo sono sicuro che va minuscolo) di addetti ai trasporti pubblici ed è facile accorgersene se c’è gente come me o come chi ha anche un blog dedicato al pendolarismo che sarebbe in grado di scrivere un’intera bibliografia su cosa va e cosa non va. Soprattutto oggi in cui le Ferrovie dello Stato o Trenitalia o come diamine si chiamano ora hanno pensato di organizzare un incontro con alcuni influencer e, come si dice, di metterci la faccia. No, non sono stato invitato, lo sapete che non sono nel jet set. Ma di treni e di cose che succedono lì sopra ne potrei raccontare a centinaia. Ho viaggiato su locali per frequentare l’Università ogni giorno, ho trascorso una media di quattro ore in andate e ritorni quotidiani per anni tra Genova e Milano per lavoro prima di trasferirmi definitivamente nella metropoli fino a diventare un tesserato modello delle Ferrovie Nord con tanto di card di ultima generazione con chip integrato per acquistare l’abbonamento on line e attivarlo in stazione, in attesa che tutto si possa fare con il telefono. E giusto ieri io e centinaia di lavoratori come me siamo stati sballottati in Bovisa da un convoglio all’altro perché purtroppo alcune situazioni critiche, come il gelo e la neve che ormai non costituiscono più un’eccezione o i lavori su una tratta che moltiplicano la necessità di convogli sull’altra – ovviamente vista la stagione si trattava di questo – l’organizzazione lascia a desiderare. Capisco che si tratti di un sistema logistico di una complessità inimmaginabile mettere insieme vagoni e orari e binari e stazioni, ma a volte vien da chiedersi su errori ripetuti se l’obiettivo sia quello di prenderci per il culo. E, per quello che vedo, la differenza in positivo tra Trenord e le linee della compagnia statale sono più che evidenti, soprattutto sul trasporto locale e per quello che riguarda il materiale utilizzato. L’antidoto alla sofferenza da treno chiuso pieno all’inverosimile che non parte e non si sa il perché è la full immersion nella narrativa. Questo per non riflettere sulla somma del tempo perso in ritardi e treni guasti, che se fai il pendolare e provi a fare due conti non sono bruscolini. Carichiamo sulla tessera allora i punti-vita individuali, ce li facciamo restituire in bonus e vediamo di quanto si allunga la nostra permanenza qui?

la musica è finita

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Dalla prima strettoia siamo usciti indenni, c’era un segnale grosso come una casa che avvertiva del restringimento della carreggiata. Come riflesso mi sono aggrappato al sostegno assumendo quella postura da anziano in automobile per la quale tutti ti prendono in giro, ma a dirla tutta l’ho sempre trovata molto comoda, sarà che tenere le braccia verso l’alto favorisce la circolazione (quella del sangue). Sta di fatto che mi rilassa viaggiare così. Ma quando avverto il pericolo e non sono io a guidare mi viene d’istinto di puntare i piedi come a premere un pedale del freno immaginario, nemmeno fossi su una vettura da scuola guida con i doppi comandi, mi spingo indietro con la schiena schiacciandomi sul sedile e dopo aver afferrato la maniglia cerco di capire cosa succede. E fortunatamente non è mai successo nulla di grave e nemmeno quella volta lì. È che Fede, che era al volante, l’avevo visto subito prima di partire che aveva qualcosa. Fede manifestava quel tipo di sbornia che hanno i tossici e gli ex-tossici e quelli che ne sono usciti ma mica tanto, dopo un paio di bicchieri gli scendevano le palpebre e sarà che aveva le guance scavate da tutti i denti che aveva perso e la mania di indossare camicie troppo larghe, quando lo vedevi barcollare non capivi che tipo di sostanze aveva dentro di sé. Due bianchi macchiati, una birra, una canna o la merda. O tutto insieme. Fede era appoggiato al bancone e beveva e sgranocchiava pistacchi fumandoci su Winston con il pacchetto morbido, li apriva al contrario non si sa bene il perché strappando la carta da sotto. Forse era una di quelle trovate che hanno i neofiti del tabagismo come girare la prima sigaretta quando togli l’incellofanatura o forse era solo un tic da ribellione all’autorità costituita e alle multinazionali americane. Poi siamo partiti per il solito posto del venerdì sera ma c’era solo lui con l’auto e il pieno contemporaneamente. Mezz’ora di litoranea per non pagare i quindici minuti dell’autostrada più cara d’Italia non era molto, ma sufficiente a stamparsi contro qualcosa. Io lì a fianco che armeggiavo con le cassette per far finta di nulla ho tirato su la testa giusto per vedere il muro a secco a pochi centimetri dalla portiera del passeggero e a girarmi dietro per capire come prendere in mano la situazione. Ma non c’è stato il tempo per attuare una strategia diversiva: la corsia si restringeva ancora all’inizio del ponte qualche centinaio di metri più avanti. Non è stato uno scontro frontale con un’ostacolo: la Fiat Tipo su cui viaggiavamo ha percorso tutta la lunghezza del guard rail raschiando la fiancata destra in un tripudio di scintille, meglio così perché in senso contrario stava transitando un autobus di linea e sbattere su un oggetto in movimento avrebbe avuto conseguenze diverse. Fede si è così svegliato, ha bestemmiato ma ha proseguito fino ad accostare la vettura al bordo della strada terminato il ponte. Il danno era evidente e solo di carrozzeria, ma per sdrammatizzare e per buttarla sulla casualità ho raccontato di quando a mio papà uno spargisale gli aveva aperto a metà la fiancata della Ford Taunus di famiglia come un apriscatole. Fede non si è offeso quando mi sono messo alla guida e ho portato tutti indenni alla meta della nostra serata. Lì però mi era passata la voglia, mentre Fede era partito subito con una serie di richiami – come li chiamava lui – per non perdere l’effetto allucinogeno per cui aveva pagato. A metà serata, malgrado la musica fosse più che accettabile, trovai Paola che si sedeva sempre di fianco a me in biblioteca quando studiavo lì, era con un’amica e doveva rientrare presto. Non avvisai nessuno che stavo per andarmene, sapevo che la decisione che avevo maturato era molto più articolata.

being hrundi v. bakshi

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Mia moglie mi spiega per filo e per segno come devo fare quella cosa che devo fare, sa che come tutti gli uomini sono refrattario ad alcune incombenze amministrative, poi lei è prodiga di dettagli tanto che mi armo di finta ironia per tentare di nascondere la coda di paglia chiendendole se per recarmi in tal posto devo muovere una gamba dopo l’altra per camminare e al contempo aprire e chiudere i polmoni per respirare, ma so che fa bene a prenderla alla lontana. Conoscendo il soggetto, cioè il sottoscritto, meglio abbondare di dettagli e raccomandazioni. Che poi sono due cose molto semplici: pagare la quota settimanale di iscrizione all’oratorio estivo e acquistare in loco cinque buoni pasto, per nostra figlia naturalmente. Non per rovinare la suspense, ma meglio chiarire subito che entrambe le operazione sono state concluse con successo. Il problema è che di fronte alle operatrici parrocchiali, vestite in borghese ma egualmente timorate di Dio di quelle in divisa, non ho fatto una bella figura perché c’era molta confusione, come potete immaginare. Decine di bambini appena “mangiati” quindi al pieno di energia mattutina che davano il meglio in parole e opere, e io quando c’è casino faccio fatica a concentrarmi su quello che devo fare. Fatto sta che prendo la penna per compilare il buono pasto e la penna mi cade per terra, poi prendo il buono compilato e nell’affidarlo a mia figlia mi cade anch’esso, poi non riesco a raccoglierlo sul pavimento perché ho le unghie cortissime e nel mentre un pallone da basket mi urta il polpaccio e mi fa perdere l’equilibrio, poi cerco di pagare ma il vano del portafoglio che contiene le monete è aperto e si rovesciano tutte sul tavolo insieme alle tessere che come ogni buon consumatore porto sempre con me anche se creano un inutile peso aggiuntivo. Raccolgo tutto e concludo quella sequenza di gag che nemmeno Peter Sellers in Hollywood Party, quindi bacio la bambina e mi avvio a piedi, e solo dopo una cinquantina di metri mi ricordo di aver lasciato la bicicletta nella rastrelliera dell’oratorio. Torno indietro e mi dico che è il caldo, già, non può che essere quella la ragione.

un lavoro di squadra

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La prima cosa che mi chiesero fu se fossi doriano o genoano, in perfetta linea con il desiderio primitivo di categorizzare il nuovo membro del branco secondo quella dicotomia calvinista tipica di alcune città divise a metà da un muro ideologico, più che fisico. Io però non seguivo il calcio almeno da quando Berlusconi era entrato a gamba tesa nel campionato italiano e anche quella era stata una parentesi. Mi avevano entusiasmato qualche anno prima alcune prodezze sportive dell’Internazionale che aveva conquistato uno scudetto con un punteggio record in classifica, un’infatuazione durata pochissimo e terminata con la cessione di Diaz che lasciò il posto a Jurgen Klinsmann e la conseguente rottura dell’equilibrio che aveva portato i nerazzurri a un successo così ampio. In tutto una ventina di mesi di tifo. Prima di quello, l’ultimo ricordo che ho di me davanti a un schermo intento a seguire una partita risale ai mondiali del 78, io in lacrime dopo i due gol che Dino Zoff aveva subito contro l’Olanda da due tiri da lontano e mio padre che mi minacciava dicendo che non mi avrebbe più lasciato seguire un incontro se non avessi imparato a dare la giusta gravità a una sconfitta della nazionale.

Così quando in occasione della prima uscita a pranzo con i nuovi colleghi mi venne rivolta questa domanda dall’ingegnere che era anche uno dei due soci dell’azienda con cui avevo da qualche giorno iniziato a collaborare, rimasi sbalordito perché erano quasi dieci anni che saltavo a piè pari le pagine sportive di Repubblica e anzi al lunedì non compravo nemmeno il giornale perché ritenevo la percentuale degli articoli dedicati al campionato indegna per una società sviluppata dell’occidente europeo come la nostra, o almeno come mi illudevo che fosse. Ma dovevo aspettarmelo che iniziando a lavorare per una software house ad alto tasso maschile e ingegneristico le probabilità di essere messo di fronte a domande come quella potessero essere elevate, è che speravo che il momento non arrivasse così presto. Così proprio mentre percorrevamo in linea i portici di Sottoripa direzione Gran Ristoro per raggiungere una tavola calda molto più dozzinale della paninoteca più fricchettona di Genova, il boss mi mise davanti alle mie responsabilità e lo fece a tradimento, dinanzi a tutti i miei nuovi colleghi.

Il primo istinto fu quello di inserire un elemento di discontinuità dichiarando la mia passione per una squadra oggettivamente più forte, un argomento che avrebbe messo a tacere ogni discussione se non su presupposti campanilistici. Ma non mi andava di dire tengo per l’Inter o la Juve o tantomeno il Milan di Forza Italia. In seconda istanza pensai a un outsider, ricordavo un mio compagno di liceo che era un supporter della Fiorentina ed era ligure quanto me e tu non potevi dirgli niente perché era sempre fuori dalle dinamiche competitive, così pensai alla stessa Fiorentina o al Torino o al Brindisi che aveva una divisa che mi piaceva da morire, bianca con una v blu davanti e avevo anche la squadra del Subbuteo. Ma se poi qualcuno fosse andato in profondità con domande tipo che ne pensi di quell’attaccante venduto o di quell’altro terzino più forte della serie B, avrei potuto fare una figura pessima e precludermi la fiducia se non addirittura la carriera futura. Che con il senno di poi forse avrei fatto meglio a finirla prima di incominciarla, ma questa è un’altra storia.

Così decisi di dire la verità tutta la verità nient’altro che la verità e confessai che, in fatto di calcio, mi ritenevo agnostico. Mai termine fu però più fuori luogo perché l’ingegnere capo aggrottò le sopracciglia forse pensando in quale team potessero riconoscersi i tifosi agnostici, d’altronde c’è anche una squadra di Bergamo che si chiama Atalanta, ma non voglio pensare che non conoscesse il significato della metafora che avevo usato per schernirmi in modo così poco virile. Ed è anche probabile che si sia sentito un po’ preso in giro e lui, in quanto maschio alfa designato per la superiorità di grado, abbia visto attentare alla sua autorità con un vile gesto anarchico del primo venuto. Così l’ingegnere capo liquidò la conversazione con un sogghigno e per riconquistare il territorio perduto si rivolse ad alzare la gamba dove sapeva di trovare terreno fertile per uno scambio di battute sul derby imminente, quell’altro ingegnere che come nelle più classiche storie di vita in azienda si lasciava battere a squash per scalare l’organigramma societario. Sentendomi in colpa e con l’obiettivo di sdrammatizzare il confronto, sfidai la sorte ordinando a pranzo lo stesso piatto che aveva scelto l’ingegnere capo, un secondo scaldato da schifo al microonde, e al suo commento di approvazione a suggello di inequivocabili versi di soddisfazione rincarai la dose, esaltandone le qualità organolettiche ma usando una terminologia più alla portata.