melodie inutili a milano

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Il problema dell’evento il cui nome suona come un acronimo del presente titolo è che è molto difficile per gli organizzatori mettere insieme una scaletta credibile con tutto il rispetto per le decine di alternativi che si alterneranno su quei palchi, e lo so che è un po’ da trombone e poco da chitarra elettrica brontolare prima di sapere le cose ed è qui che voi lettori mi smascherate e potete capire quale sia la mia vera età. Così ogni anno sono tentato di fare una capatina, in quest’edizione poi ci sono pure gli Offlaga Disco Pax che comunque potrò vedere da soli senza interferenze al Carroponte di Sesto a fine luglio. Questo è un buon motivo per evitare e lagnarmi da remoto. Ma quest’anno ho deciso di lanciare una sfida a me stesso. Mi ascolto con cura le svariate decine di brani che formano il nastrone dei partecipanti, che trovate su quel sito a me inviso e non lo linko perché nell’era delle reti non è possibile illudere di fare sistema in un ambiente in cui si alimenta una competizione che nasce con le individualità stesse, tanto che alla fine non è altro che un fattore che anziché avere l’ics davanti ha la e con il trattino. Perché non è vero che esiste un marketshare, ragazzi siete tutti abbondantemente sotto il quattro percento quindi anche voi come i gruppuscoli di sinistra mettete da parte la vostra coscienza di genere e compattatevi, schiacciate chi vi usa solo per generare traffico sul proprio sito, fate una confederazione o un sindacato o un partito o non so che ma non pestatevi i piedi e imparate a vicenda. Ho perso il filo. Ecco, dicevo che ora ho scaricato la compilation di tutti quelli che suoneranno lì e vi prometto che se ne trovo almeno dieci (sono un totale di sessanta) che mi piacciono li recensisco qui e vado almeno a una delle giornate del suddetto festival. Gli ODP sono ovviamente esclusi dalla competizione.

una cosa per volta

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Nell’ordine trovo: una confezione di salviette umidificate, quelle che si usano quando sei in giro e tuo figlio riempie il pannolino e non c’è acqua corrente tantomeno un posto dove cambiarlo, tanto che la prima volta che in Italia ne ho visto uno ed ero all’Ikea ho pensato che esagerazione, si vede che non è un’azienda italiana. Poi, da genitore, ho imparato a coglierne l’assenza. Dopo una decina di metri c’è un ciuccio, che all’inizio quando ti cade lo metti in quarantena affogato nell’amuchina quando non lo getti direttamente via e poi dopo un po’ di mesi, quando vedi che malgrado te i bambini crescono lo stesso, gli dai una sciacquata alla fontana e glielo piazzi in bocca, tanto tuo figlio si è fatto gli anticorpi. Il terzo indizio è una scarpina, altrettanto facile da perdere perché quando sei a spasso con il passeggino e tutto il kit di sopravvivenza agli ambienti esterni non sono poche le cose a cui pensare. Per non parlare di quando spingi il pupo tutto orgoglioso della tua creatura e ti squilla il telefono, una chiamata di lavoro e finisce che qualcosa ti cade e non te ne accorgi.

In questo le mamme sono superiori a noi papà, anzi anticipo le vostre obiezioni scrivendo che le mamme sono superiori ai papà in tutto, ma per tornare al nostro caso specifico, queste creature superorganizzatissime intelligenti e multi-tasking che sono le nostre compagne di vita sono davvero impeccabili e quando ci vedono uscire di casa soli con i nostri figli si dilungano in raccomandazioni suscitando il nostro disappunto per la mancanza di fiducia, che poi si conferma mal riposta. Perché a loro non capita mai di dimenticare qualcosa, uscire senza fazzoletti di carta, smarrire golfini o lasciare i libri della Pimpa sul tavolino della gelateria.

Ma questa volta sono io a sbagliarmi, perché chi torna indietro a raccogliere l’involontaria semina è una donna. Ahi ahi ahi, mi vien da dire, mentre mi chino a raccogliere la scarpina per aiutarla in questa fase di redenzione a ritroso. Nel frattempo mia figlia, che mi segue in bici, ora che siamo entrati nel parco accelera per raggiungere le sue amiche e a quel punto, e almeno per le due ore successive, so già che non la vedrò più. Sono finiti i tempi delle spinte all’altalena e delle rincorse sulla giostra, e un po’ invidio la madre distratta che spinge una bimba che probabilmente cammina a malapena. Ora il mio ruolo qui al parco è solo di fornire supporto on demand, le richieste si riducono di settimana in settimana. Ogni tanto do un’occhiata per vedere che tutto fili liscio, che mia figlia sia nei pressi. Ecco, si è già allontanata. Pazienza.

Così mi metto a leggere il libro che ho portato con me, non prima di notare un altro genitore in erba, il papà di un bimbo che seduto poco più in là sta raccogliendo i pezzi per rientrare, mettendoli alla rinfusa nel vano sottostante il passeggino, uno spazio utile come ripostiglio per palette, secchielli, palline e altri ameni divertimenti per la primissima infanzia. Il bimbo gli sale in braccio e insieme si avviano verso l’uscita del parco, il papà ogni tanto saltella e il piccolo ride, oh come ride. Quanta nostalgia, un tempo anche io ero il mezzo di locomozione preferito di mia figlia. Li intravedo infine laggiù nel parcheggio, il papà apre la portiera e sistema il figlio sul portabebè. Poi sale al posto di guida e parte. Ed ecco la morale della storia. Il passeggino con il vano portagiochi traboccante di plastica colorata resta qui, di fronte a me, dimenticato dal padre premuroso e giocherellone per il quale due cose da ricordare sono già troppe.

calexico – para

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Insomma che anche i Calexico quest’anno daranno alle stampe un nuovo album, previsto per settembre. Para, il video qui sotto, è il primo singolo.

la vita in diretta

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Il sistema di consumi che ci persuade circa l’adeguata agenda di acquisti da smarcare, con tanto di priorità relative e assolute e piano di finanziamento, è un modello dinamico che include o espelle per comprovata obsolescenza sempre nuovi elementi. Un carrello comunque costantemente pieno fino all’orlo che oggi comprende cose che vanno da un piano tariffario Internet per smartphone al cardiofrequenzimetro passando per l’automobile ecofuel, l’abbonamento all inclusive a Virgin Active, la web tv, il manuale di istruzioni sulla dieta Dukan, qualche coupon dei brand di acquisto collettivo da lasciar scadere per manifesta impossibilità di utilizzo e le unghie tutte pitturate e intarsiate. Mi chiedo quando per esempio sia caduto in disgrazia il business della videochiamata tramite cellulari e me lo chiedo perché ho riesumato un vecchio dispositivo mobile – vecchio ma in grado di rispondere alle funzioni per le quali è stato progettato ovvero chiamare e inviare sms, ricevere chiamate e sms – la cui (perdonatemi il termine) interfaccia utente mette in bella mostra il pulsante “videochiama”, una caratteristica che fa sorridere oramai che la moda è passata tanto quanto il relativo spot e testimonial annessi. Insomma, telefonare mettendoci la faccia non piace a nessuno, non puoi nemmeno mentire su dove ti trovi o metterti le dite nel naso se l’interlocutore ti annoia. Ma scommetto che c’è un marchio, lo stesso che ha rilanciato alla grande il tablet dopo che la prima ondata di produzione aveva dato profitti disastrosi, che è pronto in qualche modo a farci tornare indispensabile questo mix di comunicazione personale da remoto ma vis a vis, imbellettandola un po’ e facendola passare per una cosa che ci fa sentire ancora più fighi.

interurbana love song

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Solo quando lo apro alla pagina del paese in cui abito e mi appresto a cercare il primo cognome della lista di genitori da avvisare, mi rendo conto delle dimensioni del font con cui è stampato, un corpo che l’ultima volta in cui l’elenco del telefono mi era servito non avevo alcuna difficoltà a leggere e che ora, ad almeno quindici anni di distanza da quel momento, l’età e i suoi riflessi sulla vista me ne rendono la consultazione praticamente inaccessibile. Ma non è una questione di presbiopia o di diottrie. Quindici anni fa, l’ultima volta in cui ho consultato un elenco telefonico per cercare un numero, l’ho fatto perché avevo a diposizione uno strumento indispensabile per trovare informazioni importanti come i numeri telefonici fissi, sistemati in ordine dalla a alla zeta. Gli elenchi telefonici di città come Milano, poi, erano composti da più tomi e si accompagnavano a pagine gialle di altrettanto spessore. E mai avrei pensato di doverne utilizzare uno nel 2012 se non per un’urgenza, quella di attivare una catena tra le famiglie dei compagni di classe di mia figlia per diramare un cambiamento di programma all’ultimo minuto in un giorno festivo. Ma a casa di mia suocera Internet non c’è, e né io né mia moglie abbiamo memorizzato sui nostri cellulari la lista con tutti i contatti che la rappresentante di classe ha distribuito a inizio anno.

Così ecco che ci viene presentata la soluzione sotto forma di Pagine Bianche, ora si chiamano così, l’elenco che nel tempo si è più che  dimezzato sia per la varietà delle compagnie telefoniche sul mercato e la possibilità di scegliere di non rendere pubblico il proprio nominativo, che per il crollo dell’importanza del telefono fisso. E anche se ci fosse un modo per includere i cellulari, la flessibilità con cui le persone cambiano il numero ne farebbe perdere comunque attendibilità.

E infatti su cinque numeri che dobbiamo cercare ne troviamo a malapena uno. È evidente che nel 2012 gli unici a ritirare la loro copia ogni anno siano i nuclei famigliari come questo, persone anziane nate con il disco e i modelli in bachelite e cresciute a doppino e cornetta, che ritengono tuttora la linea fissa una base indispensabile per comunicare con il loro mondo di contatti: figli, nipoti, medico, amici, carabinieri e soccorsi vari per le urgenze. Numeri scritti a penna su agende a fianco del cordless  ma che si ricordano ancora tutti a mente, quante ne conoscete di persone così? E l’elenco telefonico sotto, negli scaffali del mobiletto, per tutti gli altri numeri che non hanno voluto nemmeno memorizzare nelle rubriche dei cellulari a cui si sono dovuti abituare.

Quelli come me, della generazione a cui Google ha reso inutile tutto persino la memoria, non raccolgono nemmeno più le nuove edizioni che qualcuno ogni anno deposita nel portone auspicando in un cambio con quelle passate ma con scarsi risultati. Una sorte ingenerosa per uno dei principali punti di riferimento di un tempo. Quegli scaffali nei bar colmi di dorsi verdi di volumi, uno o più per provincia, in cui era contenuto il patrimonio umano di un’intera nazione, tutti quanti elencati allo stesso modo, al massimo con la propria carica davanti al cognome. E lo so che anche qui, sull’Internet, è lo stesso e nomi e numeri saltano fuori. Ma vederli stampati conferiva una sorta di attestato di esistenza anche all’ultimo dei poveri dotato di telefono privato, e per gli utenti di cotanto censimento il potere di scorrere il dito su nomi e cognomi di ogni città fino a fermarsi sull’abbonato oggetto della ricerca non ha eguali, ancora oggi.

non ti seguo

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La regola numero uno dovrebbe essere che se ritieni di aver scritto un commento carino a qualcuno o qualcosa o una risposta ilare a un tweet, quando incontri il diretto interessato – ed è una cosa che capita perché le trame del socialnetworking non si dipanano solamente ai quattro cantoni del pianeta ma capita altresì che a essere in contatto con te sia tua cognata, l’ex fidanzata, uno con cui hai condiviso il palco in un pugno di concerti o il tuo dirimpettaio di scrivania in ufficio – se non noti reazioni emotive quali uno scompisciamento dalla risate o più banalmente la questione inerente lo scambio pubblico di battute non viene trattata nei primi minuti della conversazione, è molto probabile che il cerchio non si sia ancora chiuso e il destinatario del tuo sforzo creativo non si sia ancora collegato. “Hai letto il mio commento su Facebook a quello che hai scritto riguardo a” è una cosa che quando la sento tra due persone mi vien da sprofondare perché è il dialogo in differita che smaschera il grande limite dei dialoghi virtuali e corali, il livello di imbarazzo è secondo solo alla richiesta dell’indice di gradimento altrui dopo un rapporto intimo. È bene che i piani se ne stiano ciascuno a casa propria, riprendere a voce pensieri già espressi nero su bianco ne depotenzia la carica quasi quanto spiegare una barzelletta, a maggior ragione se ha fatto ridere. Dicono che la ripetizione plurima delle cose è sinonimo di insicurezza. Allora mi fermo qui, tanto avete capito vero?

da che guevara a madre teresa

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Di prima mattina mia mamma mi telefona sul cellulare pensando che io sia uno delle migliaia di partecipanti alla messa del Papa organizzata nel campo di volo di Bresso che, in effetti, è a pochissimi chilometri da casa mia e di cui sta seguendo la diretta tv. Ma questo non fa di me un presenzialista degli eventi pop, tantomeno un praticante. E io a spiegarle che no, che non siamo di quella parrocchia lì e, a dirla tutta, di nessuna parrocchia tantomeno sotto il ticket Ratzinger-Bertone. Così spero in un’indulgenza da parte sua, d’altronde il dialogo su questo argomento è impossibile da tempi meno sospetti e mi chiedo in base a quali indizi mia mamma ritenga cambiato il mio rapporto con la chiesa e la religione rispetto all’ultima volta in cui le chiesto l’utilità di seguire i programmi su Tele Padre Pio.

E oltre a questo, tutto intorno è un continuo scampanio che va a completare la già ampia copertura mediatica della giornata delle famiglie come le pensano loro, come a dare per scontato che la nostra società è così, prendere o lasciare, siamo noi che ci dobbiamo adattare. Cioè se siamo italiani siamo cattolici e dobbiamo considerare il Papa la nostra guida spirituale e temporale ed è una cosa di cui da sempre mi sfugge il nesso pur ricordando, ancora a quarant’anni di distanza, molte preghiere a memoria. Fuori c’è poca gente a causa del blocco del traffico, nel parcheggio che il mio comune ha riservato ai pellegrini – così dicevano i cartelli di divieto di sosta – stanziano un paio di camper provenienti dal sud e un pullman in cui l’artista si gode il fresco del parco limitrofo con le porte aperte. Ogni tanto un elicottero passa sopra, il ronzio interrompe il silenzio di una giornata che non ne vuole sapere di sembrare come tutte le altre. Ma la metafora definitiva me la fornisce l’oratorio lì a fianco, con gli adolescenti che si ritrovano sulle panchine a fumare sigarette, flirtare tra di loro e armeggiare con gli smartphone, in fondo non ci sono altri spazi pubblici da utilizzare.

black keys – gold on the ceiling

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ce l’hai scritto in faccia

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Quella volta in cui ci è venuto l’istinto di rubare per amore, è stato per amore della musica. E l’amor proprio misto all’amore vicendevole ci ha fermato qualche metro prima del crimine ma poi quante volte ci siamo chiesti se l’avremmo fatto sul serio. È che quando suoni hai pochi soldi, se hai pochi soldi non puoi permetterti certe cose che ti fanno salire di livello come strumenti musicali, amplificatori, accessori e studi di registrazione. Se vuoi farti i soldi devi lavorare, e se lavori non hai tempo per suonare, se non suoni non componi musica e la questione finisce lì come per milioni di altri artisti o aspiranti tali al mondo. Così sei tentato dalle scorciatoie, ma non quelle che servono per diventare milionario e scappare su un’isola dei Caraibi. Bastano quei quattro soldi per avere la base sufficiente a esprimerti. Gli strumenti fanno la differenza. E quella volta in cui ci è venuto l’istinto di rubare per amore, ed è stato per amore della musica, è accaduto una serata d’estate durante uno spettacolo all’aperto.

Al parco comunale c’era un evento e non ricordo nemmeno più cosa fosse. L’ospite era Joe Squillo che già non se la filava più nessuno, questo per farvi capire quale fosse il budget degli organizzatori e il livello. Joe Squillo suonava in playback e aveva il suo gruppo che faceva finta come tutti quelli che suonano in playback. Il tastierista si dava da fare dietro a un DX7 nuova serie, quelli splittabili con il floppy disk per caricare e salvare suoni e patch. Faceva ridere perché non era nemmeno collegato, e per gli addetti ai lavori come noi era un’ingenuità imperdonabile. Già il playback è poco serio, almeno cerca di dare una parvenza di impegno nel mistificare la truffa. Insomma che la performance finisce e si sgombera il palco per lasciar posto a una esibizione di body building. Il DX7 viene accantonato sotto le scalette di accesso ai lati del palco. Così, novelli Bonnie e Clyde con la passione per i synth, ci scambiamo un’occhiata di intesa e ci appropinquiamo.

Non siamo due ladri, ma la tentazione ti ci porta, lo dice il proverbio stesso. Il DX7 è in un punto buio, ci sono alberi e la zona è trascurata. Gli addetti al service e il direttore di palco sono tutti su a godersi la carnazza maschile e femminile tutta sberluccicante di olio. Ci avviciniamo e il synth ora è proprio a due passi, basterebbe essere scaltri, rapirlo come se si fosse due roadies e via, la macchina è lì vicino e da domani si suona con il DX7. Ma nessuno dei due vuole fare la prima mossa, così perdiamo l’attimo perfetto e, allontanandoci dalle quinte,ci diciamo con un sospiro che il crimine non paga. Mesi dopo, in un programma di video musicali, notiamo la partecipazione di  un certo Charlie che canta una roba tra la discoteca e il pop demenziale intitolata “Faccia da pirla”. Ed è proprio quella faccia da pirla che riconosciamo, lui è uno di quelli del gruppo il cui  tastierista prendeva a manate il DX7 sul playback dei pezzi di Joe Squillo, e la prima cosa che ci viene da pensare è che uno così il furto di un synth se lo meritava alla grande, magari gli avrebbe giustamente interrotto la carriera in tempo.

lessico famigliare

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Non ho nulla da eccepire riguardo la tua famiglia. Solo, non comprendo questo tuo insopprimibile bisogno di contrapporla, ad ogni costo, alla mia.