comincio lunedì

Standard

Lei ha una pagina di un sito Internet aperta davanti, un sito di ricette. Lui transita dinanzi alle scaffalature nel’antibagno e si sofferma a osservarle. Lei scorre la lista degli ingredienti, valuta cosa c’è in dispensa e cosa manca, passa in rassegna le modalità di preparazione e i tempi associati a ogni fase. Lui stima l’impatto visivo delle mensole sbeccate, della mancanza di luminosità nei piani alti, dell’eccessiva distanza tra un ripiano e l’altro che non consente di ottimizzare gli spazi: dove sono allineate verticalmente le confezioni di prodotti per la pulizia della casa non ci può stare altro. Impilare contenitori ne limiterebbe la comodità di utilizzo. Lei decide che quel primo non è fattibile, cosi torna all’home page e lancia una query diversa inserendo l’orzo come parola chiave. Ce n’è una scorta spropositata in casa e conviene provvedere, è un alimento sano e le è stato consigliato caldamente dalla pediatra anche per la loro figlia, preparatele cereali, così ha detto. Ecco un orzotto, oppure l’insalata di orzo, un piatto freddo, con la temperatura che c’è oggi sarebbe perfetto. O forse è meglio un secondo. Poi chiude il browser. Come mi piacerebbe avere la passione per la cucina, dice a lui che nel frattempo sta valutando come migliorare quella parte di parete sopra la lavatrice. Potremmo riempirla di scaffali Ikea e poi montare una porta ad ante scorrevoli per coprire il tutto, lavatrice compresa. Potremmo sceglierla identica al resto degli infissi, installare un binario sul soffitto e dare un po’ di dignità anche a questa parte della casa. Poi si unisce al mood di lei: come mi piacerebbe avere la passione per i lavoretti di bricolage, saper usare il trapano e cavarmela da solo per questo genere di cose. Nei giorni di festa la testa è libera, il che può essere anche pericoloso. Lei allora torna al suo libro, lui sbriga il minimo necessario per migliorare almeno la quotidianità di due gatti, prima che la bambina si svegli.

si prega di non spegnere i cellulari durante l’esibizione

Standard

Ora immagino che anche le reazioni ai primi modelli di campionatori o di sequencer siano state più dalla parte degli apocalittici che degli integrati, mi riferisco agli addetti ai lavori, non necessariamente ai puristi. Ma se date un’occhiata al video qui sotto, la chitarra con lo slot per l’iPhone non è proprio una chitarra ma è più una specie di passatempo, benché si tratti di un progetto finanziato con centomila dollari. E la descrizione che accompagna l’innovativo prodotto, gTar – la chitarra che chiunque può suonare regardless of experience – conferma la regola per la quale dare una chitarra in mano al primo che passa non è mai una buona idea, che sia un giocattolino come questa che una Telecaster. Al primo che passa meglio lasciargli l’iPhone, di certo avrà maggiore dimestichezza.

basta il pensiero

Standard

Ero molto fiero perché pensavo di poter recare un po’ di felicità al prossimo. Un mio collega mi aveva portato qualche pacchetto di figurine della nuova (nonché oltremodo discutibile) raccolta Esselunga che aveva a casa e che stava per buttare perché non di suo interesse, so che mia figlia e alcune sue compagne di classe le collezionano così me le ha regalate, ed erano un bel numero di pacchetti. Ma avevo anche una bella notizia per una mia collega a cui rimangono solo due mesi di contratto e poi chi si è visto si è visto, come si dice. Una vacancy per un ruolo marketing di sicuro interesse presso uno dei nostri clienti, e ho intercettato la notizia per lei perché era già uscita, ora è part time. Così sono rientrato a casa e ho dato tutti i pacchetti di figurine a mia figlia e ho subito chiamato al telefono la mia collega. Le figurine erano tutte, dico proprio tutte, doppie. La mia collega aveva il cellulare spento. E niente, ero solo molto fiero perché pensavo di poter recare un po’ di felicità al prossimo.

pretty vacant

Standard

Nei loro video, nelle loro foto, sulle pagine delle aziende a cui prestano la loro faccia come parte integrante del loro capitale intellettuale, nei profile picture in cui si mostrano in campo lungo, in primo piano, o solo per un particolare che fa anche di quei pochi pixel un dettaglio creativo e curato magari da un’app i cui effetti fanno parte del loro immaginario quotidiano, tanto che riescono a filtrare le esperienze come se fossero Polaroid viventi. Nei loro scritti che intasano i risultati dei motori di ricerca come volantini promozionali in cassette della posta di case disabitate e nel grottesco tentativo di riproporre live tutto questo giorno per giorno con gli amici, in famiglia, con sconosciuti in appartamenti in condivisione. Tutto questo entusiasmo a rimborso spese se va bene, ecco, io uomo di mezza età mi chiedo dove lo trovino.

all’unisono

Standard

Volge al termine la stagione delle suonerie personalizzate e degli improbabili mash-up in luoghi pubblici in cui reggaeton, hard rock e corporate jingle hanno dato vita momenti di melting pot musicale senza precedenti. Passata la sbornia creativa una volta raggiunta la consapevolezza che sì, con la tecnologia tutto è possibile tanto che non si sa cosa usare, a prova del fatto che è inutile avere contenitori se poi non sappiamo quali contenuti metterci, o semplicemente ci siamo finalmente stufati di perdere tempo passando in fastidiosa rassegna tutti i preset prima di trovare quello che più ci si addice, ora siamo tornati allo squillo. Il caro vecchio drin drin che ci faceva correre al telefono in bachelite collocato in corridoio gridando è per me, con l’obiettivo di intercettare chi ci stava chiamando prima dei proprio famigliari. Il guaio è che siamo passati da un estremo all’altro. Senti drin drin e vedi decine di persone arrabattarsi nella ricerca del loro smartcoso e poi riporlo, dopo aver dato un’occhiata invidiosa al destinatario della chiamata. Anche qui in ufficio, lasciamo il cellulare sulla scrivania e quando suona ci precipitiamo invano a rispondere, perché tutti abbiamo impostato il drin drin con l’opzione fade in e non si riconosce il dispositivo che sta suonando finché non lo si prende in mano. Ops scusate, devo scappare, mi squilla il telefono.

giuliano hi-nrg mc

Standard

Che poi in realtà il rap italiano non esiste, perché si tratta di un genere talmente specifico di un’etnia e così connotato da fattori al di fuori dei quali perde di sostanza. Voglio dire, scevro da essere composto ed eseguito da afroamericani, non in lingua inglese e fuori dal ghetto, e per ghetto intendo tutto quello che è oltre i confini delle stelle e strisce WASP, non ne rimane nulla se non parole in rima su musica e prive di melodia. Che sì, può essere rap per la proprietà transitiva, ma è come un film western di fantascienza che ha la Pantera Rosa come protagonista, non so se rendo l’idea. No, lo immaginavo. Qualcosa di vagamente comparabile con il rap, e questo a partire dai Sangue Misto fino a tutti i tamarri di oggi che si sono adeguati all’intamarrimento del rap originale. E quindi se possiamo dire che il rap italiano non esiste, allora non esiste neppure il rap di Giuliano Ferrara, e forse non esiste nemmeno Giuliano Ferrara in sé. Affare fatto.

tanto oro quanto pesa

Standard

Ho colto quell’istante magico di complicità quando vi siete guardati, il che non necessariamente significa che siete una coppia rodata ma che avete una prontezza invidiabile se è bastato meno di un secondo sufficiente a farvi trovare in perfetto accordo nella risposta da dare alla commessa. Una cosa tipo ci pensiamo un attimo e poi decidiamo. In effetti sessantamila lire a testa per un concerto dei Prodigy spese di trasferta escluse non è proprio regalato, e che dire dei Prodigy in sé. Anche se sono sulla cresta dell’onda perché è il 1997 non siete del tutto convinti se meritino un investimento di tale entità. Sono di moda, ecco, e potrete dire ai vostri figli – se ne avrete e se la vostra storia continuerà – che avete messo un’ipoteca sul vostro futuro insieme grazie a un happening di grido. Costoso, ma di grido.

Voltate le spalle alla cassa della rivendita che si trova al piano sotterraneo di una gigantesca libreria e nel tragitto lungo le scale riflettete, ciascuno per sé. Entrambe le espressioni sono eloquenti. Lui pensa che con lo stipendio che guadagna e considerando che ci sono le bollette e l’affitto ne farebbe anche a meno ma non può deludere lei che invece non ha nessun problema a privarsi dell’equivalente della remunerazione di una giornata intera di lavoro sua, nel senso di sua di lui.

E lei pensa che lui probabilmente non gradirebbe sperperare una giornata del suo stipendio – suo di lui – per accompagnarla a un concerto che tutto sommato ha un costo irrisorio rispetto alle sue – sue di lei – possibilità, ma crede che andarci da sola, opzione sulla cui fattibilità in altre condizioni non avrebbe nessun dubbio, sia poco rispettoso nei suoi – suoi di lui – confronti. Lo so, è un casino, ma non siete riusciti a confondermi. Appena fuori dall’ingresso a vetri della libreria vi guardate ed è a lui che spetta prendere l’iniziativa. Allora che si fa?

Lei vorrebbe dire che non se ne fa nulla, è troppo caro, ma non lo dice perché le sembra che lui stia per dire qualcosa. E lui vorrebbe dire che è meglio non andare, al di là del prezzo non si sa nemmeno come saranno dal vivo, potrebbero essere deludenti. Ma vede che lei sta per dire qualcosa, che poi non dice, così esita quell’istante di troppo che poi esita anche lei tanto che alla fine si parlano addosso ma in realtà sono solo sillabe e versi e li vedo che nessuno dei due capisce bene il da farsi. Ed è un peccato che la complicità di prima, quella messa in atto davanti a due biglietti cari come l’oro, fosse solo attiva in un ambiente condizionato dall’aria, nel senso dell’aria condizionata. Fuori da un clima sintetico è già bella che evaporata. Senza aggiungere altro i due si sorridono, si voltano e spingono le porte per rientrare nel negozio.

Ho sentito dire poi che il concerto è stato pessimo, sembrava tutto in playback, c’era pieno di ragazzini che ballavano fuori tempo e un’acustica inqualificabile.

in dolce attesa

Standard

Se mi vedete indugiare fermo da qualche parte, o mi incontrate più volte nel raggio dello stesso punto a distanza di qualche minuto. Se mi notate in un bar consumare un cappuccio e brioche al rallentatore guardando persino la tele accesa su Studio Aperto o sfogliando le pagine di quotidiani di cui non conoscevo nemmeno l’esistenza tipo La Provincia, ma facendo finta di leggere o meglio guardando solo le figure e le didascalie perché comunque il taglio degli articoli lo si evince dai titoli quindi meglio evitare. Se vi sembra strano che uno come me si aggiri lungo vie a misura di automobile dove c’è solo una persona – e quella persona sono io – che cammina su marciapiedi fatiscenti che non sono più marciapiedi, tanto che ormai chi vive lì ha rinunciato a considerarli tali e se ne guarda bene dal muoversi a piedi, o magari addirittura lì non ci vive più nessuno e quindi comunque sono l’unico essere umano a trovarsi in quel posto e non è difficile dare nell’occhio tra le auto che sfrecciano in un senso e nell’altro. Se mi beccate mentre faccio finta di attardarmi leggendo avvisi in bacheche di associazioni locali che nemmeno i soci leggono più perché chiunque va sul sito e si informa lì, e sono io il solo che, finito il comunicato, passa in rassegna la foto della squadra under 16 di basket o le immagini della gara di pesca sportiva al carpodromo comunale. Se mi trovate su una panchina a leggere il mio libro con l’enorme barriera psicologica che è controllare ogni due minuti se il momento dell’appuntamento si è davvero avvicinato di due minuti rispetto alla precedente occhiata data all’orologio da polso, tutto ciò è perché sono in lauto anticipo, come tutte le stramaledette volte in cui ho un impegno.

Ma non mi pesa, sappiatelo. Prendo treni all’alba per giungere a destinazione con almeno trenta minuti di vantaggio, e poi a quel punto inizia l’annosa ricerca di come impiegare il tempo che resta senza dare troppo nell’occhio. Perché c’è anche un rischio, che costituisce uno dei miei maggiori incubi: farsi scoprire in un bar o nelle vicinanze del posto in cui si è diretti dalla persona che si deve incontrare che poi, rendendosi conto dell’anticipo, si sente in dovere di anticipare a sua volta l’incontro e la figura non è delle migliori. È che ho il terrore di arrivare in ritardo sempre, che poi il ritardo non è la fine del mondo o almeno così ti dicono, ma a me non piace proprio perché se si dice un’ora è quella, altrimenti se ne dice un’altra un quarto d’ora dopo, giusto? Ricordo un bassista inglese con cui ci si dava appuntamento in un posto per utilizzare da lì in poi un solo mezzo per recarsi tutti insieme al locale in cui si suonava, e costantemente ci rimproverava per la totale aleatorietà delle nostre indicazioni e lui per non sbagliarsi arrivava molto prima degli altri. Arrivavamo e lo vedevamo con l’espressione di chi è costretto ad aver a che fare con un popolo che si attarda con pizza e mandolini e non ha rispetto per le civiltà superiori. Ho imparato molto da quella esperienza. E se sono esagerato è solo perché preferisco di gran lunga la noia dell’attesa rispetto all’ansia del non fare in tempo, la coda inaspettata, il treno soppresso, il terremoto e il meteorite e i maya che ti fanno saltare un’opportunità ancora prima di cancellare un pianeta in quattro e quattr’otto. E così anche oggi mi rimane giusto il tempo di annotare qui queste poche righe mentre aspetto il mio turno previsto non prima di venti minuti a partire da ora. Vedete, se non fossi arrivato così presto non mi sarebbe nemmeno venuto in mente di scrivere qualcosa a proposito.

vorrei ma non posso

Standard

Il mio era un Moog Prodigy, lo vedete nelle foto qui sotto, e io lo trovavo davvero un synth eccezionale malgrado si trattasse di uno strumento monofonico (mettere strumenti monofonici in mano a un tastierista è come dare un pallone sgonfio a Pelè, la maggior parte di noi proprio non ha la mentalità monodica) e con nemmeno tre ottave di estensione. E lo avevo acquistato solo perché l’avevo trovato usato in un negozietto di provincia in un momento in cui i tastieristi non se li flava nessuno e quindi i synth analogici non dico che te li tiravano dietro ma quasi. In più il Prodigy già di per sé è il modello entry-level, da qui il titolo di questo post perché i Moog di nuova generazione hanno prezzi inaccessibili e quindi va bene celebrare il settantottesimo anniversario di Robert Moog anche con un Doodle, però sappiate che è una roba da ricchi. Il mio Prodigy, comunque, l’ho sfruttato ampiamente sia durante il periodo dell’acid jazz che cavalcando il ritorno del post punk, fino a quando l’ho lasciato in una sala prove ricavata in uno scantinato e potete immaginare l’umidità come me l’ha ridotto. Che già, usandolo dal vivo, ogni volta l’accordatura era una scommessa e dipendeva dalle condizioni del tempo. E così come tutti, stufo di ronzii e di disturbi in amplificazione, l’ho venduto in pieno boom del ritorno al vintage. Ho fatto però un vero affare, devo ammetterlo.