chiedo l’aiuto del pubblico a casa

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Oggi è il mio compleanno, così vi chiedo di darmi una mano a scrivere un elenco di cose che non hanno importanza. A cominciare dai compleanni, e soprattutto dal mio, perché si dice, no, che in fondo è un giorno come un altro, non inizia e non finisce nulla e al massimo si portano le pastarelle in ufficio. Al massimo, ecco, perché io non le porto più perché mi fa tristezza. E che importanza hanno i canali su cui ci si ricorda degli altri se ormai facciamo tutto qui sopra ci scambiamo like di fratellanza e di amicizia e ai più intimi gli mandiamo sms o email. D’altronde l’abbiamo voluta noi una società con cui interagire da casa, dal momento in cui abbiamo risposto al mercato così entusiasticamente non appena ci hanno fatto abboccare alla rivoluzione del televoto, ieri, e a quella di Twitter, oggi.

Così in modo molto speculare non importa se ci sono quelli che se ne dimenticano che oggi ricorre un anniversario, perché magari poi sono sempre lì vicini negli altri giorni e tu manco te ne accorgi, senza contare che succede che fanno così perché anche tu te ne sei dimenticato, quindi pari e patta, l’importante è sapere dove trovarsi gli uni con gli altri anche quando si vive ai margini.

E ha poca importanza se ogni anno, più o meno in queste ore, faccio la spunta all’elenco delle persone che inviterei a una festa se la facessi e mi rendo conto di chi manca, di chi non potrebbe venire perché non c’è più o vive altrove o non verrebbe semplicemente perché è passato così tanto tempo che poi non si sa più cosa dire. Ci sono quei sentimenti pigri che non hanno mica voglia di diventare parole, nemmeno scritte eh, e uno pensa che solo perché tanto tempo prima si sono condivise cose poi dopo ci sia altro che unisce, ma non è così proprio per nulla. Però non so se capita anche a voi, ma nel bagaglio che uno si porta appresso di città in città quando la vita prende la forma che poi dovrebbe essere quella definitiva (e che poi invece non è nemmeno quella la volta buona, magari, ma diciamo che ci si avvicina di molto) ci sono anche tutti quelli lì, le persone che a volte chiami anche amici e che non hanno importanza nemmeno loro nell’immediato circostante. Questo è ovvio, ti giri e non ce n’è nemmeno uno.

Ma non importa nemmeno se non sai se si ricordano di questa o quell’altra volta, perché comunque c’è uno spazio in cui c’è qualcosa che hanno lasciato per te, magari tempo fa e magari in un cassetto che non apri da anni ma perché non era mai stato il momento giusto. E che importanza ha se alla fine quello che ci trovi dentro è superfluo, è scaduto, è fuori stagione, ti va stretto o sa un po’ di chiuso. Sarà per sempre un pezzo unico della collezione che non fai più perché non è più così importante, un cimelio che avrà un suo unico e insostituibile posto nel mondo indipendentemente da quanto ne hai ancora da scoprire. Ma mi sono dilungato, come sempre, e nell’augurarmi un buon compleanno vi prego di darmi una mano a continuare l’elenco di cose che non hanno importanza. Questo per me è importante.

malati di terminali

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Il panico in cassa con il nastro pieno di prodotti scelti soltanto perché soggetti a sconti per i possessori della tessera, e che senza tessera tali sconti appunto non sono applicabili quindi il cliente pagherebbe un botto prodotti che né lui tantomeno sua moglie avrebbero messo nel carrello se non fossero stati al 40%, e in quel momento la tessera in borsa non si trova e dietro c’è una coda agguerritissima perché è quasi ora di cena e nessuno vuole perdere tempo al supermercato. Non sono bei momenti, no davvero. Ma facciamo un passo indietro.

Ci troviamo nella periferia di Milano, in uno dei numerosi centri commerciali in cui si consuma il rito della spesa settimanale, quella che oltre allo stretto necessario annotato in lista prevede un po’ di margine su tutto quanto si trova in offerta e che a prezzo pieno mai e poi mai i consumatori più intelligenti acquisterebbero. Ma una coppia di clienti ha commesso un errore madornale. La moglie, che conserva tutte le tessere dei supermercati nei quali alterna la spesa in una pochette per non ingolfare inutilmente il portafoglio, si accorge proprio al suo turno di aver dimenticato la suddetta pochette e di conseguenza la carta di fidelizzazione dell’esercizio in questione nell’altra borsa, a casa. E solo per pura fortuna la signora prima di loro che ha appena pagato, di fronte a un dramma di tale entità, reagisce con prontezza di riflessi encomiabile passando di nascosto dalla cassiera la tessera di sua proprietà alla coppia di sbadati. La tessera passa sul lettore e tutti vissero felici e contenti godendo delle offerte e degli sconti ad esse associati.

Ma il punto è che senso abbia dover portare con sé decine di tessere quando si potrebbe utilizzare un unico dispositivo per avere tutti i codici a disposizione per ogni evenienza. Un sistema in grado di virtualizzare ogni operazione che necessita dell’uso di una carta a banda magnetica generando un pin o un qr code o un barcode o qualsiasi altro identificativo quando serve, e che te lo invia via mms sul cellulare. La cassiera lo acquisisce automaticamente o lo registra manualmente e il gioco è fatto. Stesso discorso per carte di credito, prelievo contanti, documenti di identità e tessere sanitarie, biglietti del cinema e abbonamenti per i trasporti. Certo occorrerà avere sempre con sé il proprio dispositivo acceso e carico, i sistemi centrali dovranno essere a prova di downtime, ci dovrà essere sempre connettività dati ovunque e alle persone sarà richiesto di avere un po’ di fiducia e di dimestichezza in più con tutto ciò che concerne la dematerializzazione. Ma avremo un solo “coso” da portare appresso e molto più facile da perdere o da dimenticare nell’altra borsa, vero cara?

scusi, scendo?

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Se sei uno che in treno non legge la cosa più sciocca che puoi fare è accompagnarti a uno che in treno legge perché chi vuole proseguire con il suo libro può anche sentirsi in colpa per trascurare il compagno di viaggio, e chi vorrebbe fare conversazione invece dà per scontato che la sua compagnia sia più avvincente della trama di un romanzo e finisce per essere sopportato a malapena. D’altronde la superiore sensibilità di un lettore rispetto a uno che invece no è risaputa. Che poi il libro in questione sia di Kathy Reichs non è rilevante anche se so benissimo che se fossi nella collega trascurata della mia dirimpettaia di posto farei di tutto per interromperla nella lettura di un libro così inutile con i miei punti di vista intrisi di presunzione dicendo cose tipo perché perdi tempo con quel genere di letteratura lì, solo io ti posso salvare, chiedimi come.

Invece i tentativi di attirare l’attenzione da parte della collega altrettanto pendolare della lettrice vertono su argomentazioni ancora più trascurabili, la ricetta provata la sera prima o i programmi per il prossimo weekend fino a quando, registrando le risposte monosillabiche di una esplicita e crescente irritazione, l’uditorio circostante sembra dividersi tra il partito di quelli che lanciano sguardi di commiserazione alla non lettrice e quelli che si sorridono compiaciuti tra di loro, quella lì non conosce l’ABC del comportamento sui mezzi pubblici e delle relazioni superficiali tra individui che rientrano nella categoria della semplice conoscenza. La non lettrice infine comprende che l’unico terreno valido per non far pesare alla collega lettrice il fatto che fare quattro chiacchiere è una perdita di tempo più nobile rispetto alla lettura di un best seller di letteratura molto di moda è dirigere il dialogo su ciò dal quale vorrebbe distrarla, chiedendo dettagli proprio sul libro in questione. Ma la lettrice ha capito l’antifona e si limita a un laconico “sì mi piace, è sullo stile Patricia Cornwell”. Il mio sospiro di sdegno risuona più forte dello stridore dei freni, vorrei intervenire ma non ho un Power Point di supporto e rischierei di risultare non abbastanza convincente.

La bocca della scocciatrice si chiude in una “o” di stupore che mette in risalto il contrasto tra la sottile peluria sopra il labbro e il colore demodé del rossetto, nel frattempo il treno si inabissa nella parte sottoterra del percorso e si diffonde la consapevolezza che presto ognuno sarà al proprio pc. Un attimo di tregua tra le conversazioni in corso lascia emergere il resoconto tra due pensionati sulla riunione condominiale della sera prima, e tutti noi esseri umani pendolari che facciamo ancora muovere con la nostra operosità l’economia nazionale ogni giorno ci rendiamo conto che solo chi non ha altro a cui pensare, come due pensionati, può sprecare risorse e tempo libero come il trasferimento da casa all’ufficio parlando di una cosa così poco interessante come una riunione di condominio. Decido che noioso come una riunione condominiale sarà un modo di dire che finirò per usare, prima o poi. La non lettrice vorrebbe aggiungere qualcosa ma ormai non c’è più margine, scendono gli studenti universitari e la popolazione del vagone si avvia alla sua estinzione quotidiana.

prima di addormentarci

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Papà, ma come si fa capire se parlando un inglese dice “ma” o dice “pipistrello”? Bella domanda, rispondo io, è come se un inglese non capisse se un italiano gli ha risposto affermativamente o intende la settima nota della scala di do. E il do come si fa a distinguere da dò nel senso di ti dò un regalo? Mi chiede ancora e poi ride perché ha capito che si può rosicchiare ancora qualche minuto prima del bacio della buonanotte. Come si fa? Fa o fa? Si e fa? E cerca di cantarmi proprio le note, ma le prende a caso e non pretendo l’orecchio assoluto a otto anni. Spegniamo la luce, dai. Anche se ormai non dormirò così faciilmente, perché il gioco può continuare all’infinito e chissà dove arriveremo, io nella mia testa e lei nella sua, fino a domattina.

maximo park – hips and lips

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Il nuovo dei Maximo Park dovrebbe uscire a breve, nel frattempo da una cameretta ubicata chissà dove tutta tappezzata di poster che nemmeno la mia ecco il primo singolo. Anche io facevo così ascoltando la musica allo stereo, ma ben di nascosto e per fortuna non c’erano webcam a riprendermi (e non possedevo bambole gonfiabili,  giuro). Il pezzo, comunque, non è niente male. Via.

dall’amore e dall’unione

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Se questo fosse un album fotografico qui ci sarebbe uno spazio vuoto, solo gli angolini ai lati e il cartoncino della pagina un po’ meno sbiadito, perché questo sarebbe il posto della foto di un bambino di tre anni in pantaloncini di vigogna corti con le polacchine e un berretto con la visiera che scatta di corsa verso sua madre, che è la persona che sta immortalando la scena, mentre alle sue spalle c’è il suo papà con un vestito elegante e la sigaretta in mano che lo lascia libero di raggiungere l’altro punto di riferimento della sua vita. E probabilmente la foto avrebbe dovuto ritrarre padre e figlio fermi in un giorno primaverile di festa o una domenica, ma tale era la smania di quel bambino di mettere le mani sulla macchina fotografica dall’altro capo che non è stato possibile a nessuno di fermare la posa. Ma meglio così, perché vi assicuro che nella foto il bambino ride, il papà pure e suppongo faccia lo stesso la mamma al momento dello scatto, visto che l’effetto è un po’ mosso e ha migliorato il tutto. Anziché avere un istante di famiglia appiccicato su pellicola c’è una specie di film di una vita che rivedo ciclicamente quando si approssima il mio compleanno, e ora siamo agli sgoccioli.

Perché si sa, il compleanno non è la tua festa ma è la festa di chi ti ha fatto, quando nasce un bambino è bene fare un regalo ma bisogna farlo ai genitori, soprattutto alla mamma, e non al bambino perché i piccoli hanno tutta un’esistenza davanti per rendersi protagonisti. Così vorrei fare proprio questo, come regalo a chi ha fatto me. A mio padre che si è un po’ ripreso, gli hanno tolto una medicina e si sono ridotti i suoi stati di confusione. A mia mamma che ha sulle spalle tutto e molto di più da sola perché i figli sono distanti, anche se alcuni vivono a poche stanze dalla sua. Così a loro che mi hanno dato una vita con i loro respiri, probabilmente affannosi durante il concepimento, pazienti e regolari nel corso della gravidanza, concitati e indotti durante il parto per lei e di fumo di sigaretta per lui, augurerò un buon anniversario della mia nascita tra due giorni con questo ricordo. Mi chiameranno come al solito alle sei e quaranta del mattino, l’ora x, e io gli dirò di cercare quella foto e di guardarla un po’ e pensare a loro stessi. Perché per me sarà un giorno come gli altri, se non fosse che poco fa ho pensato addirittura che potrei invece trascorrerlo come un tempo si celebravano le festività solenni sui canali radiofonici e televisivi pubblici: interrompendo le trasmissioni facete e i varietà e programmando solo musica classica, come se quello fosse il linguaggio più appropriato per una festività importante come la mia, per loro. Chissà, dopodomani se digitate questo url potreste trovare solo un non stop di video da youtube dei miei compositori preferiti. E magari il prossimo anno, in prossimità del 10 maggio, al posto di una manciata di parole che lasciano il tempo che trovano pubblicherò la foto di un bambino di tre anni in pantaloncini di vigogna corti con le polacchine e un berretto con la visiera, che corre dalle braccia di suo papà a quelle di sua mamma.

la notte si avvicina (dalle stalle alle stelle e ritorno)

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La seguente filastrocca sembra contenere una serie di metafore appropriate alla situazione, vero?

Stella stellina
la notte si avvicina:
la fiamma traballa,
van tutti nella stalla.

Il bove e il vitello,
la pecora e l’agnello,
il pulcino e la gallina
e la notte si avvicina

Dorme il pulcino con il maialino
ed il vitello con la pecora e l’agnello
Anche il galletto dorme sopra il tetto
dorme la gallina sino a domattina

Stella stellina
sino a domattina
la nella stalla
tutti fan la nanna.

di prima scelta

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Non appena riconquisto con fatica la posizione eretta dopo aver estratto la bici da uno degli slot a terra della velostazione noto i tre cd originali di altrettanti giochi della Playstation che qualcuno ha dimenticato proprio sul binario superiore a quello occupato da me. Succede a tutti, no? Posi qualcosa per fare qualcos’altro e poi di quel qualcosa te ne dimentichi perché sei di fretta, ti squilla il cellulare, ti cadono le chiavi, vedi qualcuno che conosci, o semplicemente ti distrai e così una parte di te resta lì a disposizione del primo che passa, e starà a lui scegliere come comportarsi. Ma cosa si può fare con gli oggetti impersonali e privi di alcun dettaglio di riconoscimento? Comprendo di avere pochi secondi per trovare la soluzione più adatta all’imprevisto, e naturalmente non mi viene. Non sono uno che trova la risposta subito quando serve, devo pensarci su ma dopo il tempo minimo per capire che non sto facendo una cazzata non (mi) deludo mai, chiaro che un approccio di questo tipo ti preclude un sacco di occasioni vantaggiose, ma non è la fine del mondo. Avevo pochi secondi, dicevo, e così li ho lasciati lì, mosso dal fatto che non avendo né quello né nessun altro tipo di console e non essendo neppure un cultore dei videogiochi non avrei saputo nemmeno che cosa farne. Mi sono detto che il proprietario sarebbe potuto tornare di corsa nel giro di qualche minuto e non ho fatto nulla. E solo pedalando verso casa ho l’illuminazione: posso lasciare un biglietto con un messaggio tipo “li ho presi io tutti e tre” seguito dal numero di cellulare. Se avessi scritto a cosa mi stavo riferendo chiunque si sarebbe potuto arrogare la proprietà degli oggetti smarriti, facendo così invece solo il diretto interessato avrebbe capito quella sorta di codice. Giusto no? Convinto di avere in testa la formula per salvare il mondo torno alla velostazione di corsa, avevo con me carta e penna per mettere a segno la mia prima buona azione quotidiana. La storia sembra chiudersi come è giusto che sia, e cioè che giunto per la seconda volta lì nel giro di qualche minuto, i CD di videogame per la Playstation – ricordo pure il nome del gioco, Soccer e qualcosa, in tre differenti versioni – non ci sono già più. Mi guardo in giro e non c’è nessuno, non c’è nulla da fare se non avviarsi a casa e attendere la prossima volta in cui ci sarà bisogno di me e io dovrò chiedere un po’ di pazienza, fatemici pensare, ci aggiorniamo più tardi.

ma se la Francia ha un presidente che si chiama Hollande, l’Olanda no perché è una monarchia

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Io sono uno di quelli che dai francesi si farebbe colonizzare a partire da oggi stesso, anzi oggi a maggior ragione visti i risultati delle elezioni presidenziali. Se non altro perché li ho sempre avuti come esempio a quattro passi di cura del suolo pubblico, che è un po’ come avere un vicino di banco di quelli che studiano sempre la lezione e tengono in ordine i quaderni, quello di brutta dove fare le operazioni e le prove e quello di bella da mostrare alla maestra senza nemmeno un baffo di inchiostro (i quaderni, non la maestra). Questo per dire riconosco l’inferiorità, invadeteci pure, siete i benvenuti. E a tutti gli italiani che sì avrete pure i formaggi e i vini più buoni ma intanto ce l’avete anche voi il presidente fanfarone che gli piacciono le belle donne. Intanto le belle donne sono una ex modella che se l’è sposata e che, voglio dire, in quanto a classe una come la Minetti non potrebbe neppure limarle le unghie dei piedi. Secondariamente l’hanno eletto, non gli è piaciuto, e l’hanno mandato a casa al primo mandato. Noi quanto ce lo siamo tenuti Berlusconi? Diciassette anni?

conto terzi

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Se mi parlate di democrazia diretta a me viene un brivido perché la prima cosa che mi viene in mente è la folla che nel dopoguerra sequestra non ricordo quale fascista, lo lincia e lo getta nel fiume. Non che la cosa non mi abbia fatto piacere, ma gli istinti animali è meglio tenerseli per sé e così istituzionalizzare l’ipocrisia della mediazione tra il diritto naturale e quello giuridico o come si chiama, che raccoglie i desideri della collettività e li codifica con il filtro della ragione. Questo perché l’esercizio del potere senza interposta persona nel caso della   giustizia dimostra la sua inadeguatezza almeno nella versione ufficiale dei nostri sentimenti e una volta messo a bada l’impeto. E altrove non saprei, ma per non saper né leggere né scrivere mi fido e sostengo la stessa cosa. E ripenso a casi come l’occupazione dell’università a cavallo tra gli 80 e i primi 90, non ricordo esattamente quando, un movimento all’acqua di rosa – rosa come la pantera che li rappresentava – in cui il dibattito a cui non ho partecipato perché ero già quasi fuori con lode verteva proprio su quel concetto di prendersi i diritti in prima persona e in gruppo. Occupare l’università per farla a propria immagine. Ma anziché frequentare gli occupanti per capirne le ragioni io flirtavo con una della fazione contraria, quella che si chiamava ancora DC e non chiedetemi perché, e quindi avevo una versione del movimento più edulcorata, almeno fino a quando poi trovai al suo stesso tavolo di lavori un fascista del FUAN e ripensai alla democrazia diretta del tribunale del popolo e del volo nel fiume e il flirt finì così, d’altronde non si dice “mogli e buoi dei partiti tuoi”? Così quando leggo di allenatori che prendono a pugni i giocatori ribelli o di imprenditori che, come dice Gramellini, anziché vendere il proprio arsenale per pagare gli arretrati del canone RAI lo usano per mettere a ferro e fuoco uno sportello di Equitalia, ecco, penso a come sarebbe la nostra società in questo limbo tra far west e anarchia, in cui ognuno direttamente si prende la sua fetta di potere e la applica secondo i propri criteri. Il che non è distante da chi sostiene che, pagando le tasse, vuole che insegnanti, dirigenti scolastici, amministratori locali, vigili urbani, ministri e presidenti della repubblica debbano fare quello che vogliono loro. Ma per farlo è necessario accordarsi con tutti gli altri stakeholder della cosa pubblica che sono i milioni di cittadini che pretendono altrettanto ma allora occorre mettersi d’accordo e investire qualcuno della voce di tutti e fare un partito con un delegato che li rappresenta. Ops, ma allora si ritorna daccapo.