allo scuro

Standard

C’è un detto inglese che descrive efficacemente quando qualcuno pur vivo e vegeto e sveglio non reagisce agli stimoli di un interlocutore, banalmente tu gli parli e questo sembra essere altrove, tantomeno risponde, e il modo di dire è “the lights are on but there’s nobody home”. Non insulto la vostra dimestichezza con le lingue straniere fornendovi la traduzione, e non vi nascondo che la persona, londinese a tutti gli effetti, che mi ha venduto la battuta come original british potrebbe anche avermi rifilato una sòla, cioè che magari si tratti di un motto che si è inventato di sana pianta e lo ha spacciato per saggezza popolare. Questo vi può far immaginare la stima che ho di questa persona, inversamente proporzionale alla sua resistenza alle birre medie. Ma non è qui che volevo arrivare.

La metafora di cui sopra è una delle mie preferite perché rientra nella categoria delle case dal volto umano, probabilmente c’è un aggettivo come per antropomorfo si intende una figura che ricorda il nostro corpo, diciamo domofisiognomico? Boh. I bambini imparano a disegnare le case proprio così, con gli occhi che sono le finestre, il balcone che è il naso e l’ingresso che è la bocca, o viceversa la casa di campagna in cui trascorrono le vacanze estive nel loro immaginario è un’evoluzione del ritratto di mamma e papà, mantiene giustamente i tratti somatici della famiglia cui appartengono. Così ogni casa ha la sua espressione, che magari è lo stato d’animo di chi vive dentro. Ci sono le case felici e quelle perennemente in tensione, quelle in cui si urla ma mane a sera e quelle perfettamente organizzate. Magari dalle finestre escono lacrime come infiltrazioni di tubature malconce, o dalla porta si percepiscono litigi e grida, o l’incuria e la distrazione hanno causato crepe nell’intonaco come cicatrici.

Per non parlare degli infissi. C’è un episodio della serie “Ai confini della realtà” in cui un bel giorno una famiglia si ritrova chiusa nella propria casa sigillata da uno strato sulla superficie esterna, una coltre formata da una materia solida che blocca porte e finestre, come se qualcuno avesse ricoperto la casa con una sostanza che al momento di rapprendersi aderisce perfettamente ai muri chiudendo ogni via di fuga. Una sorta di silicone che poi però si scopre essere una glassa con cui una bambina ha ricoperto l’abitazione di una famiglia di pupazzetti, tipo Playmobil per intenderci, per poi far scaldare tutto nel forno. Ora, si tratta di un telefilm che risale alla notte dei tempi delle mie reminiscenze, quindi potrebbe anche essere un ricordo inventato che a lungo andare si è sedimentato nella memoria come gli altri tanto da non essere più distinguibile, quindi se a qualcuno di voi non risulta (e in rete non ne trovo traccia) ben venga una smentita nei commenti. Ma questo è l’effetto che mi fanno le tapparelle in plastica, elementi esterni che capitolati al risparmio facevano preferire, almeno prima delle classi di consumo energetico, a soluzioni più utili e esteticamente superiori per chiudersi meglio dentro. Lasciare fuori la luce.

La tapparella in plastica, se fossi un bambino e dovessi disegnare una casa, la rappresenterei come una benda nera da pirata. Ed ecco perché mi piacerebbe sostituire le tapparelle di casa mia con le persiane, per esempio, porte in miniatura che possono essere spalancate al mondo con un solo gesto e lasciar entrare il sole e l’aria del mattino. Senza contare che, aperte, raddoppiano la superficie degli occhi della casa e, nel caso di porte-finestre, quella del sorriso.

prima e dopo, anzi durante

Standard

sessismo

Standard

La mamma di Carlotta esplode rabbiosa durante il consiglio di classe: c’è un maschietto che mostra il suo pisellino alle compagne, alcune bambine hanno visto la scena e lo hanno riferito ai loro genitori, tra cui la mamma in questione, che ha poi scoperto che la figlia è stata invece testimone diretta dell’esibizione, a tu per tu con il maniaco in miniatura. Si sa anche il nome del colpevole, ovviamente, è stato Gianluca, così ci si premura tramite la rappresentante di classe di comunicarlo alla maestra. Potete immaginare la reazione dei genitori di Gianluca, la mamma ha pianto per due ore, così dicono. Ma le testimoni che hanno visto la scena, Gianluca che armeggia con il suo attributo in erba di fronte a Carlotta e all’amica, hanno omesso un particolare determinante. Sono state Carlotta e l’amica a convincere Gianluca a estrarre il pisellino, tra bambini di otto anni può capitare e tra le tante curiosità ci sono pure quelle inerenti il sesso. Ora la mamma di Gianluca ha smesso di piangere, immagino la rabbia non le sia passata perché comunque il figlio avrebbe dovuto usare l’intelligenza e negarsi allo spettacolo, ma ci si chiede come far presente il capovolgimento di responsabilità e la correità alla mamma di Carlotta.

pe’ fa la vita meno amara

Standard

Dimenticate la tradizionale custodia, le chitarre elettriche ora si portano in borsa. Battute a parte, nel giorno in cui la Fender si fa sentire per davvero, lasciando i palcoscenici per approdare al Nasdaq dove si spera ci siano più paganti per colmare un debito che supera i duecento milioni di dollari, cifra superiore al cachet dei più blasonati endorser, è bene rammentare l’importanza dello strumento più famoso di tutti i tempi. E se a dirlo è un synth player come il sottoscritto, potete fidarvi. Ma proprio perché non sono un virtuoso della Telecaster, vi rimando a chi è più competente di me per tutti i dettagli del caso. Mi limito a riportare la discussione in un territorio più alla mia portata, quella dell’ascolto, per focalizzare la vostra attenzione sulla pessima abitudine radiofonica di tagliare i pezzi proprio sull’assolo di chitarra, se non prima. Come ho più volte scritto, i tempi dei network commerciali mal si adattano agli edit della musica rock tradizionale, che nel punto in cui i pezzi prodotti oggi sfumano nell’accordo finale, siamo intorno ai tre minuti e rotti, prendono il volo proprio con la svisa del solista di turno per poi tornare sull’ultimo ritornello e chiudere il brano, almeno un minuto dopo il modulo base che i programmi alla radio dedicano alle singole canzoni, peraltro per poi mandare in onda i loro fastidiosi jingle con effetti speciali e cotillons che alla terza volta che lo senti ti rompi i maroni e cambi stazione. Ma in alcuni brani l’assolo di chitarra è quasi più celebre del resto della canzone stessa. Ecco i primi due esempi che mi vengono in mente, ma solo perché li ho ascoltati qualche giorno fa nel corso di un lungo viaggio in auto. Ho assistito all’ennesimo scempio a tre quarti della loro durata e ho pensato di rendere loro giustizia. Mi riferisco a “Owner of a lonely heart” degli Yes, un pezzo addirittura da più di sei minuti con un solo di chitarra molto particolare di cui Virgin Radio non ha avuto pietà. Poco dopo, una stazione locale di cui mi è sfuggito il nome ha soffocato la splendida parte solista di un altro classico da rock alla radio come My Sharona, persino superfluo linkarvi il video. L’usanza di considerare le parti strumentali come orpelli è quantomai fastidiosa, e nel mio mondo ideale, al posto della SIAE, dovrebbe esistere un organismo preposto alla difesa della dignità della cultura musicale e al diritto all’integrità di ascolto ed esecuzione, con un codice severissimo che prevede multe in caso di interpretazioni aleatorie dell’ispirazione dei compositori. Non solo. Zittire un chitarrista è maleducazione. Al massimo toglietegli il distorsore. Nel brano che segue, il mio assolo di chitarra preferito, esattamente a 2:33.

e quindi uscimmo a riveder le stelle

Standard

Fa impressione quanto può essere lunga e imprevedibile la traiettoria di una palla da baseball respinta con la mazza da un campione. Può far vincere una partita decisiva e da lì attraversare l’intera storia di una nazione alla prese con la guerra fredda mentre alcuni dei suoi figli naturali e non combattono un conflitto rovente multilivello: dentro di sé, tra di loro, nelle loro case e nei luoghi pericolosamente famigliari. E tu leggi tutto e sei uno dei mille che raccontano una storia corale, avanti e indietro, sulla costa est e quella ovest. Lenisci i disturbi da jet lag e poi arrivi a destinazione, riponi la palla da baseball nella sua teca, torni su in superficie perché Undergound finisce. E pace.

alla ricerca del tempo perduto

Standard

Poveri perditempo, mi metto nei loro panni anche se non faccio grande fatica in giornate come questa, è venerdì e c’è il sole, e penso a quanta astinenza debbano praticare nella loro vita quotidiana e a quanto ostracismo abbiano subito nella storia dell’umanità e del mercato globale visto che a loro è dedicata una delle più celebri locuzioni intimidatorie. Una di quelle diciture standard che non attirano più l’attenzione perché siamo troppo abituati a leggerla o ascoltarla in un particolare contesto, quello degli annunci di lavoro o collaborazione, e non dubitiamo che il testo si concluda proprio con quella formula tanto che gli spazi dedicati alla ricerca di personale dovrebbero inserirlo di default in calce e offrirlo gratuitamente agli utenti, ammesso che applichino un costo a parola. E poi nessuno si è mai spiegato perché un perditempo dovrebbe candidarsi per una posizione in un’azienda che cerca collaboratori. Quale obiettivo spinga un pelandrone a cercare di fare fesso un datore di lavoro facendosi assumere per poi batter la fiacca impunemente. D’altronde c’è da chiedersi come si riconosca un perditempo a un colloquio. Portato al cazzeggio è una voce che nessuno scriverebbe mai sul suo profilo. Oppure, tra gli hobby e interessi, cose tipo “sviluppo di attività di social networking personale durante le ore di lavoro”, o dipingersi come “costretto a pause sigaretta ogni quarto d’ora causa dipendenza dalla nicotina”, “disponibile all’imboscamento nel lavoro in team”, “dotato di attività cerebrale rallentata”. Ora, immagino le vostre reazioni, tutti quanti starete pensando al vostro collega che lavora a bpm ridotti tanto che voi dovete sgobbare il doppio o a quante volte avete invocato Brunetta come deus ex-machina contro i dipendenti pubblici come voi ma che a differenza vostra si impegnano al minimo. Insomma, in tempi di messa in discussione dei diritti dei lavoratori e di disoccupazione ai massimi storici, pensare che chi cerca lavoro lo faccia per oziare da stipendiato e senza essere scoperto è oltremodo anacronistico, mettere i bastoni tra le ruote di una macchina già difettosa di per sé è un atto scellerato. C’è una vecchia battuta da musicisti, sapete, i musicisti sono persone con un senso dell’humour tutto particolare. Una band mette un annuncio: cercasi batterista, astenersi perditempo. Vabbè, torno al lavoro.

love story

Standard

Se Dede mi chiede di incontrarci è perché è successo qualcosa di travolgente, tipo mi sono messo con una cubana che ha un figlio di dieci anni, oppure sto per partire da solo in moto per un tour delle repubbliche caucasiche, oppure ho preso in società con Ricky un bar tavola fredda al porto, laddove questo Ricky è uno appena uscito da Marassi (il carcere di Genova, n.d.r.) perché è stato colto con le mani nel sacco, proprio il sacco contenente la refurtiva di un appartamento dei quartieri alti grazie alla videosorveglianza. Una vittima della tecnologia, insomma. Dede ha questi episodi di forte rottura con la sua vita, o è la vita che vuole rompere con lui perché probabilmente non gli ha mai perdonato di lasciarsi chiamare con un nomignolo così infelice e di aver considerato il suo nome vero un improprio sfoggio di cultura classica dei genitori, volto a creare una allitterazione di troppo nei dati anagrafici su biglietti da visita dispensatori di ilarità. Io invece mi burlo di quel nick da sempre, anche se ora a Dede non interessa più di chiamarsi come il figlio di un re longobardo e ha imparato a convivere con la volontà della sua famiglia d’origine.

E dietro al classico delle modalità di incontro, vediamoci per un aperitivo di quelli che poi anziché stuzzicare l’appetito te lo fanno passare a suon di piattini con gli avanzi del giorno prima dei ristoranti della zona, Dede mi racconta della Tea, altro diminutivo facile da ricordare quanto scarsamente attendibile, che lo ha chiamato al telefono – numero avuto non si sa bene come – dopo venti anni esatti dalla cerimonia di ritiro della laurea di entrambi, che è stata anche l’ultima volta in cui si sono visti. Tea e Dede si sono presi e lasciati almeno quattro volte negli anni dell’università, un amore turbolento in cui lei non aveva per nulla la vocazione per i rapporti monogami ma ogni volta ci si metteva di impegno, almeno questo bisogna riconoscerlo. Lui era alla sua mercé fino ai limiti dell’umiliazione, ma l’indole era quella di darsi anima e corpo alle passioni, e Tea per lui era più di una passione. Era una malattia. Poi qualcuno la vedeva appesa alla labbra di un altro qualche giorno dopo che Dede aveva raccontato della promessa congiunta di dedizione eterna, così c’era il dubbio se fosse meglio metterlo al corrente o no. Come ci si comporta tra amici? Così finiva il primo round, ma dopo qualche mese lei tornava alla carica, ho capito quanto non posso fare a meno di te, e magari era anche vero. Iniziava un nuovo tentativo, si parlava addirittura di andare a vivere insieme, ma quei due avevano il destino segnato. L’ultima volta, che è stata la più tragica, Dede aveva capito che non faceva proprio per lui una storia così, e quando Tea gli disse che era meglio lasciarsi perché si era presa dell’argentino della casa dello studente e non era sicura di quello che sarebbe potuto succedere, finalmente Dede riuscì ad estrarre dalla confezione la sua provvista di amor proprio ancora intonsa, anche se con la garanzia scaduta da un pezzo, e decise che basta.

“Mi ha chiamato Tea, te la ricordi vero?”. E come potrei non ricordarmi le serate passate a parlare di lei e le sue telefonate fiume in cui voleva giustificarsi con me, tuo amico, per trattarti così. Attiravi il suo sadismo, probabilmente. Era molto bella, in effetti, e tu eri convinto che fosse una fuori di testa. Solo una fuori di testa così bella può mettersi con me, dicevi. Sapevi che aveva sofferto di esaurimento nervoso qualche anno prima di incontrarti, e tutto sommato qualche stranezza nel comportamento la manifestava. E ora Tea ti ha chiamato per dirti che sta per morire. La sua vita sentimentale, da quei tempi in poi, è stata sempre più disordinata e difficilmente organizzabile ai fini di una narrazione. Di certo non ha mai avuto relazioni sufficientemente stabili da consentire una progettualità con un partner. Poi la malattia ha preso il sopravvento e l’ha portata verso un decorso ineluttabile. “Io non sapevo nulla”, mi dice Dede. “Mi ha chiamato Tea e me lo ha detto così, non mi rimane molto tempo”. Dede ora è in silenzio, una mano intorno alla bottiglietta di birra e l’altra in tasca. Non dice altro perché non c’è altro da dire, e io ho già capito che cosa farà.

certe giornate amare, lascia stare

Standard

La nonna che mi ha allevato era una donna, mia madre lo è tutt’ora e ha trent’anni giusti più di me. Ho avuto una maestra con un nome bellissimo che ci leggeva le lettere dei condannati a morte della Resistenza e mi faceva piangere. Mia moglie è donna pure lei per non parlare di mia figlia, che lo sta diventando, e anche se ancora in miniatura ha preso molto dalla madre, per sua fortuna. Ah, dimenticavo, ho frequentato scuole ad ampia prevalenza femminile e anche qui, in ufficio, sono la maggioranza. Fate un po’ voi.

ora et labora

Standard

Il mio collega mi fa notare il video istituzionale in loop sul monitor LCD. Siamo in una reception davvero niente male per essere una reception e fuori c’è il nulla, una via fatta di giganteschi parallelepipedi come questo che, tra tutti, è anche il meno peggio visto dall’esterno. E appena si schiudono le porte a specchi dell’ingresso si spalanca un ambiente di benvenuto che pensi che magari sia così passare dal purgatorio al paradiso, percorrere una via senza nome della zona industriale rigorosamente su un mezzo di trasporto privato perché a piedi nel migliore dei casi inciampi nel pessimo manto stradale, nel peggiore ti investe un autoarticolato. E quando hai espiato le tue colpe parcheggi e oltrepassi la soglia della beatitudine, musica e receptionist, divanetti rossi, area ristoro e parquet figo, dipendenti dal look omologato e hot spot wireless per connettersi gratuitamente mentre aspetti il tuo turno sgranocchiando uno snack e ti chiedi come sia stato possibile sopravvivere a tutto quel grigiore là fuori e poi trovare la salvezza qui, in questo scampolo di santità.

Già, perché il video istituzionale in loop sul monitor LCD di cui sopra è il reportage dell’inaugurazione di una nuova sede della società in cui mi trovo, un evento che ha previsto anche la benedizione del parroco della zona di pertinenza. Il prelato, ripreso in campo lungo, sbriga la sua pratica celeste al cospetto di quadri e operai, tutti con un calice meno amaro e più frizzante in mano di quello previsto dal rito, pronti a inaugurare quel futuro posto di lavoro con l’avallo di un ambasciatore di uno stato straniero, il Vaticano. Questo per dire che si parla sempre di scuole laiche e di istituzioni secolarizzate, e poi nessuno si cura del modo in cui la religione permea i luoghi di lavoro privati. Che essendo privati riflettono – giustamente – l’orientamento di chi li possiede e li gestisce, o cavalcano per puro opportunismo l’onda di organizzazioni ed enti limitrofi in ottica business, partner per i quali la professione di fede costituisce una vision ultraterrena tanto che non si vuole mettere a rischio la compiacenza di clienti danarosi. Gli stakeholder sono anche lassù, è un dato di fatto.

Mi sono capitati anche incontri di lavoro con manager che sfoggiano al bavero spillette dal logo inequivocabile, amministratori delegati usi alle opere in compagnia, per intenderci. Oppure culti mariani verticalissimi a seconda dell’ubicazione geografica, aziende in cui è raro imbattersi in uffici e scrivanie sgombre da sacre effigi. Per non parlare dell’immancabile pop star da Pietrelcina, il nume tutelare più trasversale in assoluto che vanta il record di iconografia esposta.

La funzione, nel video del vernissage, si chiude con l’aspersione di rito. I presenti sono ripresi in primo piano mentre dismettono l’espressione estatica e tornano alla loro dimensione corporea, magari anche smadonnando sul fatto che si debba assistere a momenti di preghiera mescolati a ogni attività quotidiana. Che poi una società benedetta abbia una marcia in più per uscire dalla crisi è tutto da dimostrare. O davvero la protezione dall’alto fornisce un vantaggio competitivo.

il quartetto c’era

Standard

Con la scomparsa di Lucia Mannucci, su quel vecchio palco della Scala oggi non c’è più nessuno.