pe’ fa la vita meno amara

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Dimenticate la tradizionale custodia, le chitarre elettriche ora si portano in borsa. Battute a parte, nel giorno in cui la Fender si fa sentire per davvero, lasciando i palcoscenici per approdare al Nasdaq dove si spera ci siano più paganti per colmare un debito che supera i duecento milioni di dollari, cifra superiore al cachet dei più blasonati endorser, è bene rammentare l’importanza dello strumento più famoso di tutti i tempi. E se a dirlo è un synth player come il sottoscritto, potete fidarvi. Ma proprio perché non sono un virtuoso della Telecaster, vi rimando a chi è più competente di me per tutti i dettagli del caso. Mi limito a riportare la discussione in un territorio più alla mia portata, quella dell’ascolto, per focalizzare la vostra attenzione sulla pessima abitudine radiofonica di tagliare i pezzi proprio sull’assolo di chitarra, se non prima. Come ho più volte scritto, i tempi dei network commerciali mal si adattano agli edit della musica rock tradizionale, che nel punto in cui i pezzi prodotti oggi sfumano nell’accordo finale, siamo intorno ai tre minuti e rotti, prendono il volo proprio con la svisa del solista di turno per poi tornare sull’ultimo ritornello e chiudere il brano, almeno un minuto dopo il modulo base che i programmi alla radio dedicano alle singole canzoni, peraltro per poi mandare in onda i loro fastidiosi jingle con effetti speciali e cotillons che alla terza volta che lo senti ti rompi i maroni e cambi stazione. Ma in alcuni brani l’assolo di chitarra è quasi più celebre del resto della canzone stessa. Ecco i primi due esempi che mi vengono in mente, ma solo perché li ho ascoltati qualche giorno fa nel corso di un lungo viaggio in auto. Ho assistito all’ennesimo scempio a tre quarti della loro durata e ho pensato di rendere loro giustizia. Mi riferisco a “Owner of a lonely heart” degli Yes, un pezzo addirittura da più di sei minuti con un solo di chitarra molto particolare di cui Virgin Radio non ha avuto pietà. Poco dopo, una stazione locale di cui mi è sfuggito il nome ha soffocato la splendida parte solista di un altro classico da rock alla radio come My Sharona, persino superfluo linkarvi il video. L’usanza di considerare le parti strumentali come orpelli è quantomai fastidiosa, e nel mio mondo ideale, al posto della SIAE, dovrebbe esistere un organismo preposto alla difesa della dignità della cultura musicale e al diritto all’integrità di ascolto ed esecuzione, con un codice severissimo che prevede multe in caso di interpretazioni aleatorie dell’ispirazione dei compositori. Non solo. Zittire un chitarrista è maleducazione. Al massimo toglietegli il distorsore. Nel brano che segue, il mio assolo di chitarra preferito, esattamente a 2:33.

e quindi uscimmo a riveder le stelle

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Fa impressione quanto può essere lunga e imprevedibile la traiettoria di una palla da baseball respinta con la mazza da un campione. Può far vincere una partita decisiva e da lì attraversare l’intera storia di una nazione alla prese con la guerra fredda mentre alcuni dei suoi figli naturali e non combattono un conflitto rovente multilivello: dentro di sé, tra di loro, nelle loro case e nei luoghi pericolosamente famigliari. E tu leggi tutto e sei uno dei mille che raccontano una storia corale, avanti e indietro, sulla costa est e quella ovest. Lenisci i disturbi da jet lag e poi arrivi a destinazione, riponi la palla da baseball nella sua teca, torni su in superficie perché Undergound finisce. E pace.

alla ricerca del tempo perduto

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Poveri perditempo, mi metto nei loro panni anche se non faccio grande fatica in giornate come questa, è venerdì e c’è il sole, e penso a quanta astinenza debbano praticare nella loro vita quotidiana e a quanto ostracismo abbiano subito nella storia dell’umanità e del mercato globale visto che a loro è dedicata una delle più celebri locuzioni intimidatorie. Una di quelle diciture standard che non attirano più l’attenzione perché siamo troppo abituati a leggerla o ascoltarla in un particolare contesto, quello degli annunci di lavoro o collaborazione, e non dubitiamo che il testo si concluda proprio con quella formula tanto che gli spazi dedicati alla ricerca di personale dovrebbero inserirlo di default in calce e offrirlo gratuitamente agli utenti, ammesso che applichino un costo a parola. E poi nessuno si è mai spiegato perché un perditempo dovrebbe candidarsi per una posizione in un’azienda che cerca collaboratori. Quale obiettivo spinga un pelandrone a cercare di fare fesso un datore di lavoro facendosi assumere per poi batter la fiacca impunemente. D’altronde c’è da chiedersi come si riconosca un perditempo a un colloquio. Portato al cazzeggio è una voce che nessuno scriverebbe mai sul suo profilo. Oppure, tra gli hobby e interessi, cose tipo “sviluppo di attività di social networking personale durante le ore di lavoro”, o dipingersi come “costretto a pause sigaretta ogni quarto d’ora causa dipendenza dalla nicotina”, “disponibile all’imboscamento nel lavoro in team”, “dotato di attività cerebrale rallentata”. Ora, immagino le vostre reazioni, tutti quanti starete pensando al vostro collega che lavora a bpm ridotti tanto che voi dovete sgobbare il doppio o a quante volte avete invocato Brunetta come deus ex-machina contro i dipendenti pubblici come voi ma che a differenza vostra si impegnano al minimo. Insomma, in tempi di messa in discussione dei diritti dei lavoratori e di disoccupazione ai massimi storici, pensare che chi cerca lavoro lo faccia per oziare da stipendiato e senza essere scoperto è oltremodo anacronistico, mettere i bastoni tra le ruote di una macchina già difettosa di per sé è un atto scellerato. C’è una vecchia battuta da musicisti, sapete, i musicisti sono persone con un senso dell’humour tutto particolare. Una band mette un annuncio: cercasi batterista, astenersi perditempo. Vabbè, torno al lavoro.

love story

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Se Dede mi chiede di incontrarci è perché è successo qualcosa di travolgente, tipo mi sono messo con una cubana che ha un figlio di dieci anni, oppure sto per partire da solo in moto per un tour delle repubbliche caucasiche, oppure ho preso in società con Ricky un bar tavola fredda al porto, laddove questo Ricky è uno appena uscito da Marassi (il carcere di Genova, n.d.r.) perché è stato colto con le mani nel sacco, proprio il sacco contenente la refurtiva di un appartamento dei quartieri alti grazie alla videosorveglianza. Una vittima della tecnologia, insomma. Dede ha questi episodi di forte rottura con la sua vita, o è la vita che vuole rompere con lui perché probabilmente non gli ha mai perdonato di lasciarsi chiamare con un nomignolo così infelice e di aver considerato il suo nome vero un improprio sfoggio di cultura classica dei genitori, volto a creare una allitterazione di troppo nei dati anagrafici su biglietti da visita dispensatori di ilarità. Io invece mi burlo di quel nick da sempre, anche se ora a Dede non interessa più di chiamarsi come il figlio di un re longobardo e ha imparato a convivere con la volontà della sua famiglia d’origine.

E dietro al classico delle modalità di incontro, vediamoci per un aperitivo di quelli che poi anziché stuzzicare l’appetito te lo fanno passare a suon di piattini con gli avanzi del giorno prima dei ristoranti della zona, Dede mi racconta della Tea, altro diminutivo facile da ricordare quanto scarsamente attendibile, che lo ha chiamato al telefono – numero avuto non si sa bene come – dopo venti anni esatti dalla cerimonia di ritiro della laurea di entrambi, che è stata anche l’ultima volta in cui si sono visti. Tea e Dede si sono presi e lasciati almeno quattro volte negli anni dell’università, un amore turbolento in cui lei non aveva per nulla la vocazione per i rapporti monogami ma ogni volta ci si metteva di impegno, almeno questo bisogna riconoscerlo. Lui era alla sua mercé fino ai limiti dell’umiliazione, ma l’indole era quella di darsi anima e corpo alle passioni, e Tea per lui era più di una passione. Era una malattia. Poi qualcuno la vedeva appesa alla labbra di un altro qualche giorno dopo che Dede aveva raccontato della promessa congiunta di dedizione eterna, così c’era il dubbio se fosse meglio metterlo al corrente o no. Come ci si comporta tra amici? Così finiva il primo round, ma dopo qualche mese lei tornava alla carica, ho capito quanto non posso fare a meno di te, e magari era anche vero. Iniziava un nuovo tentativo, si parlava addirittura di andare a vivere insieme, ma quei due avevano il destino segnato. L’ultima volta, che è stata la più tragica, Dede aveva capito che non faceva proprio per lui una storia così, e quando Tea gli disse che era meglio lasciarsi perché si era presa dell’argentino della casa dello studente e non era sicura di quello che sarebbe potuto succedere, finalmente Dede riuscì ad estrarre dalla confezione la sua provvista di amor proprio ancora intonsa, anche se con la garanzia scaduta da un pezzo, e decise che basta.

“Mi ha chiamato Tea, te la ricordi vero?”. E come potrei non ricordarmi le serate passate a parlare di lei e le sue telefonate fiume in cui voleva giustificarsi con me, tuo amico, per trattarti così. Attiravi il suo sadismo, probabilmente. Era molto bella, in effetti, e tu eri convinto che fosse una fuori di testa. Solo una fuori di testa così bella può mettersi con me, dicevi. Sapevi che aveva sofferto di esaurimento nervoso qualche anno prima di incontrarti, e tutto sommato qualche stranezza nel comportamento la manifestava. E ora Tea ti ha chiamato per dirti che sta per morire. La sua vita sentimentale, da quei tempi in poi, è stata sempre più disordinata e difficilmente organizzabile ai fini di una narrazione. Di certo non ha mai avuto relazioni sufficientemente stabili da consentire una progettualità con un partner. Poi la malattia ha preso il sopravvento e l’ha portata verso un decorso ineluttabile. “Io non sapevo nulla”, mi dice Dede. “Mi ha chiamato Tea e me lo ha detto così, non mi rimane molto tempo”. Dede ora è in silenzio, una mano intorno alla bottiglietta di birra e l’altra in tasca. Non dice altro perché non c’è altro da dire, e io ho già capito che cosa farà.

certe giornate amare, lascia stare

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La nonna che mi ha allevato era una donna, mia madre lo è tutt’ora e ha trent’anni giusti più di me. Ho avuto una maestra con un nome bellissimo che ci leggeva le lettere dei condannati a morte della Resistenza e mi faceva piangere. Mia moglie è donna pure lei per non parlare di mia figlia, che lo sta diventando, e anche se ancora in miniatura ha preso molto dalla madre, per sua fortuna. Ah, dimenticavo, ho frequentato scuole ad ampia prevalenza femminile e anche qui, in ufficio, sono la maggioranza. Fate un po’ voi.

ora et labora

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Il mio collega mi fa notare il video istituzionale in loop sul monitor LCD. Siamo in una reception davvero niente male per essere una reception e fuori c’è il nulla, una via fatta di giganteschi parallelepipedi come questo che, tra tutti, è anche il meno peggio visto dall’esterno. E appena si schiudono le porte a specchi dell’ingresso si spalanca un ambiente di benvenuto che pensi che magari sia così passare dal purgatorio al paradiso, percorrere una via senza nome della zona industriale rigorosamente su un mezzo di trasporto privato perché a piedi nel migliore dei casi inciampi nel pessimo manto stradale, nel peggiore ti investe un autoarticolato. E quando hai espiato le tue colpe parcheggi e oltrepassi la soglia della beatitudine, musica e receptionist, divanetti rossi, area ristoro e parquet figo, dipendenti dal look omologato e hot spot wireless per connettersi gratuitamente mentre aspetti il tuo turno sgranocchiando uno snack e ti chiedi come sia stato possibile sopravvivere a tutto quel grigiore là fuori e poi trovare la salvezza qui, in questo scampolo di santità.

Già, perché il video istituzionale in loop sul monitor LCD di cui sopra è il reportage dell’inaugurazione di una nuova sede della società in cui mi trovo, un evento che ha previsto anche la benedizione del parroco della zona di pertinenza. Il prelato, ripreso in campo lungo, sbriga la sua pratica celeste al cospetto di quadri e operai, tutti con un calice meno amaro e più frizzante in mano di quello previsto dal rito, pronti a inaugurare quel futuro posto di lavoro con l’avallo di un ambasciatore di uno stato straniero, il Vaticano. Questo per dire che si parla sempre di scuole laiche e di istituzioni secolarizzate, e poi nessuno si cura del modo in cui la religione permea i luoghi di lavoro privati. Che essendo privati riflettono – giustamente – l’orientamento di chi li possiede e li gestisce, o cavalcano per puro opportunismo l’onda di organizzazioni ed enti limitrofi in ottica business, partner per i quali la professione di fede costituisce una vision ultraterrena tanto che non si vuole mettere a rischio la compiacenza di clienti danarosi. Gli stakeholder sono anche lassù, è un dato di fatto.

Mi sono capitati anche incontri di lavoro con manager che sfoggiano al bavero spillette dal logo inequivocabile, amministratori delegati usi alle opere in compagnia, per intenderci. Oppure culti mariani verticalissimi a seconda dell’ubicazione geografica, aziende in cui è raro imbattersi in uffici e scrivanie sgombre da sacre effigi. Per non parlare dell’immancabile pop star da Pietrelcina, il nume tutelare più trasversale in assoluto che vanta il record di iconografia esposta.

La funzione, nel video del vernissage, si chiude con l’aspersione di rito. I presenti sono ripresi in primo piano mentre dismettono l’espressione estatica e tornano alla loro dimensione corporea, magari anche smadonnando sul fatto che si debba assistere a momenti di preghiera mescolati a ogni attività quotidiana. Che poi una società benedetta abbia una marcia in più per uscire dalla crisi è tutto da dimostrare. O davvero la protezione dall’alto fornisce un vantaggio competitivo.

il quartetto c’era

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Con la scomparsa di Lucia Mannucci, su quel vecchio palco della Scala oggi non c’è più nessuno.

SJY4rrcQVk8irFZYr4FSfgGV

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SJY4rrcQVk8irFZYr4FSfgGV, sapete cos’è? Si tratta di una password per l’accesso a una rete che però non funziona. Mi è stata consegnata da un efficientissimo portiere di notte di un hotel a quattro stelle, solo quattro e peccato, perché se ne avesse avuta una di più avrebbe avuto anche una rete wireless funzionante. Spiace constatare che non sempre e ovunque è Milano. E vabbè, è solo un problema di customer care, oltre che di fortuna. Ho chiamato al telefono la reception e mi è stato comunicato che è la prima volta che succede, è impossibile che la password non funzioni. Ma sa cosa c’è di strano, gli rispondo. Il mio collega, che ha preso un bigliettino con la stessa stringa alfanumerica, ha il mio stesso problema. E io ho Vista, e lui Mac OS. Ma non è una catastrofe, ripeto.

È solo che passi da un posto come un ristorante in cui anche se ordini pizza e birra il padrone passa di continuo a controllare se va tutto bene, e cosa potrebbe andare male in una pizza e una birra mi chiedo, a un hotel che hai scelto soprattutto per il wifi in cui il wifi non funziona, e non è tanto per il post che volevi scrivere e pubblicare sul gestore della pizzeria che fa il giro dei tavoli per controllare se è tutto ok. Volevi solo sentirti un po’ meno in trasferta con le stesse pagine che apri a casa. Il tuo reader, la posta, il socialino preferito, il blog dove scrivere una nota sui ristoranti delle zone industriali delle città che alla mattina preparano la colazione per i consulenti, a mezzodì allestiscono i tavoli per il pranzo dei consulenti, alla sera servono cene a scelta tra le centinaia di proposte nel menu ai consulenti. E se fosse una serata speciale per i consulenti ci sarebbe il pianobar in un posto così che si chiama Pizzeria Lambada, e ci si immagina l’utenza in una serata come capodanno, tutti che si intreninano e il gestore che fa ancora il giro dei tavoli e chiede se è tutto ok. Uno di quei posti da centinaia di coperti, che in settimana sembrano lande da densità abitativa degna della taiga siberiana. O tundra. Boh.

Alla fine ci scherzi un po’ su, pensi agli avventori autoctoni tra i consulenti in gruppi di soli uomini e ti avvii verso l’albergo, dove con una solerzia a dir poco zelante vieni instradato alla cella prenotata con quel lasciapassare per il web che ti deluderà al primo tentattivo, al secondo ancora fiducioso perché a cena in trasferta comunque si può bere un bicchierino in più, al terzo caparbio, al quarto stupito, al quinto realista, al sesto disperato, al settimo capisci che puoi copiare la password su un file di testo (come il presente) e copiare e incollare facendo un po’ di combinazioni, tutte senza successo. Ti eserciti anche a scrivere osservandoti allo specchio senza seguire le dita sulla tastiera. Prima ti meravigli della parete spugnata che nemmeno tua nonna negli anni 80, poi decidi di chiudere perché ti sei dimenticato il titolo e l’argomento del post, e pensi che quel poco che è rimasto e che hai messo giù in brutta proverai a pubblicarlo la mattina dopo, a colazione, sempre che il livello di customer care dell’albergo lo renda possibile. Ecco, ora funziona. Era la mia scheda di rete.

save it ‘til the morning after

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Ma poi mi spiegate che cosa ve ne fate di tutti i “Save the date” che ricevete? Avete così tanti giorni liberi sulla vostra agenda? Li mettete da parte vi create un calendario-ombra di tutte le cose che non riuscite a fare né nella vita in carne d’ossa e tantomeno in quella sui socialcosi? Fate la scorta perché del marketing non si butta via niente, è come il maiale, e un invito lo si ricicla anche alla riffa di Natale? Avete una quarta dimensione su misura delle pierre e degli uffici stampa per riuscire a soddisfare la smania di avervi ospiti ora e sempre come era in principio nei secoli dei secoli? Ecco, questa è la mia preghiera, vedo che vi avanza un po’ di vita perché trabocca dalla borsa degli omaggi che avete ricevuto a fine evento e facciamo un brindisi, che se non vi offendete mi procuro una doggy bag e porto un po’ di provviste, non si sa mai che al mio capo si risvegli l’appetito.

meglio di alberoni

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L’amicizia non è quella cosa che pensi ad un altro, ma è pensare a te stesso che non puoi fare a meno di quell’altro lì. E non l’ho trovato stampato nell’incarto di un cioccolatino, è proprio roba mia. Giuro. Non è possibile descrivere quello che vedi accadere tra persone che si vogliono bene, né archiviare una riflessione su questo argomento con una canzonetta, nemmeno “You’ve got a friend” di James Taylor, e questo vale anche per la versione degli Housemartins. Pensi di poter prendere una decisione per te stesso e poi ne parli con gli altri perché inevitabilmente l’aria che muovi spostandoti diventa vento forte e addensa nubi tutto intorno, tanto che chi vive là sotto potrebbe chiedersi chi è che fa il bello e il cattivo tempo. Allora pensi alle scelte personali ma è bene pensarci in due o più individui, perché no. Si fa un brainstorming. Ci si briffa. Un giorno di tanto tempo fa decisi in autonomia di cambiare scuola a metà anno, qualche mattina dopo il mio ritiro ufficiale andai all’uscita del liceo a salutare i compagni che rimasero sorpresi, non pensavano si trattasse di una cosa definitiva. Allora il mio vicino di banco e migliore amico, ci seguivamo l’un l’altro dalla prima media, dopo un po’ mi diede una lettera, che conservo ancora: almeno sei fogli scritti a penna in una busta rossa. Se ne avessi parlato con lui prima probabilmente avrei continuato e chissà quale sarebbe stato il corso della mia vita, ma non sapevo come si faceva. Non avevo letto il manuale operatore di gestione dei rapporti umani. Perché non sempre scegliere di restare comporta un sacrificio. Se la controparte ha la stessa devozione, c’è solo da guadagnare.