meglio che darsi del tè

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La tisana è un bel modo per sedersi e fare quattro chiacchiere senza bere alcol o mangiare qualcosa, è un campo di gioco per raccontarsi un po’ in cui è il gioco stesso ad aver una sua ritualità. C’è la preparazione e la scelta tra le differenti fragranze, si decide insieme anche se poi si decide per il mix di erbe più rilassanti, la tisana è una terapia di gruppo per mettersi a proprio agio e rallentare il ritmo. Vieni, siediti, ci facciamo una tisana? Anche solo vederla ci si immagina già l’effetto, il colore della natura, i frutti rossi o il mango e il contrasto con le tazze da tisana, immacolate e corroboranti solo a tenerle in mano anzi con tutte e due le mani, la tisana che è un’esperienza multisensoriale proprio a partire dal tatto. Il calore dell’acqua bollente che attraverso la tazza ti entra già dentro, e poi ne annusi il vapore e il profumo e lo descrivi agli amici che dividono quel piacere con te. Perché fuori piove e fa freddo e la tisana ti rimette in pace con il mondo, con la giornata che finirà insieme all’ultimo sorso di quella pozione magica. E mentre parli e ti spogli della fatica giri il cucchiaino nella tazza e ti racconti, il cucchiaino gira perché bere la tisana è un transfert, è un rito, è il gesto che accompagna le tue parole. E il cucchiaino rimesta lo zucchero sul fondo della tazza anche quando lo zucchero si è già sciolto del tutto perché non è quello lo scopo del mescolare prima di bere, no, si va in trance e si parla e il movimento circolare continua perché è il bello dello sfogo, si perdono freni inibitori quasi più che dallo strizzacervelli, e nel racconto si fa cenno anche di quello, che la terapia sembra procedere bene e forse chi ti aiuta in quel percorso è proprio la soluzione giusta, quella che si rincorreva da anni. E rincorri con il cucchiano ancora il flusso nella tua tazza, fino a formare un vortice in superficie mentre ti sei perso nella tua storia, la tisana probabilmente è già quasi fredda perché non ne hai bevuto ancora nemmeno un sorso ma la mano ormai è in loop e continua fino a quando il racconto finisce, passi la parola, posi il cucchiaino e tutti insieme ecco che si consuma il rito. E sarà facile riconoscere la tua, di tazza, il colore sul fondo completamente consumato da un grovigilo di solchi fatti durante quegli interminabili minuti di riflessione con la forza impressa mescolando e rimescolando, si vede che la tisana fa bene e di questo ne siamo contenti ma il tuo percorso, quello che raccontavi girando in tondo su te stesso, sembra essere ancora lungo.

1999, spazio alla moda

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La fantascienza popolare non ci ha preso molto, del resto nessuno degli scrittori, sceneggiatori o registi del genere sci-fi ha mai dichiarato facoltà divinatorie, o almeno non mi risulta. Il capolavoro kubrikiano ambientato nel 2001 è forse l’esempio più eclatante. Non solo non abbiamo preso il controllo dello spazio, ma nel frattempo il pianeta stesso in cui vivamo negli anni successivi all’ambientazione del film si è ribellato, tanto che ora ci è impossibile perfino prevedere le conseguenze di un evento meteorologico straordinario, figuriamoci muoverci in orbita a ritmo di valzer viennese. Per non parlare della dimensione dei computer stessi, molto meno ingombranti di Hal 9000 e molto meno intelligenti, anche se è vero che da un certo punto di vista sono in grado di prendere il sopravvento. A chi non capita di litigare quotidianamente con Windows?

Siamo inoltre passati indenni dagli anni ’80 in cui, secondo la celebre saga televisiva di UFO e del comandante Straker, avremmo subito una disdicevole invasione extraterrestre che avrebbe concentrato sul quel fronte tutti gli sforzi bellici dell’umanità intera. Se siamo qui a scriverne su un blog significa che la guerra la facciamo ancora inter nos e che per fortuna dalle altre galassie ci lasciano in pace, ci mancherebbe ancora dover lanciare i nostri cacciabomobardieri contro quei dischi volanti di latta che noi bambini di allora avremmo combattuto e vinto con un apriscatole tanto avevano l’apparenza di contenitori alimentari, oggetti spaziali ma allo stesso tempo tutt’altro che alieni dal nostro quotidiano.

Ma la previsione non avveratasi che mi ha deluso di più è stata quella del 1999 e non tanto per l’uscita dalle orbite terrestri della luna e della base Alpha, l’uomo non potrebbe da quaggiù fare a meno del suo satellite preferito nonché unico elemento ispiratore di pastori erranti e sognatori in generale. Intanto la Dottoressa Russell è stata una dei primi protagonisti femminili delle fiction a popolare il mio immaginario erotico, gettando le basi della mia predilezione verso le donne autorevoli e di intelligenza superiore. Ma adoravo quel telefilm perché era il compimento generale del mio senso estetico. Non so cosa avrei dato per un futuro in cui uomini e donne avrebbero potuto vestirsi così, come gli abitanti di quella città vagante, con quelle tute e quei non-colori. Ma le cose in realtà si sono messe male e già a partire da qualche anno dopo la fine quella serie si capiva che la moda si stava allontanando da quei parametri come il comandante Koenig dal pianeta Terra e che un simile livello di stile non sarebbe mai stato raggiunto in tempo. Fino all’amara consapevolezza, sorta a fine secolo scorso, che magari da qualche parte nello spazio qualcuno così elegante esiste veramente, ma non certo qui. Nella foto, i protagonisti di Spazio 1999 ritratti con la tuta della domenica, pronti a godersi il tempo libero.

al tempo di Bob Dylan

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Ho riascoltato poco fa alla radio Hurricane di Bob Dylan una volta tanto nella versione extended, come sapete si tratta di un brano difficile da collocare negli slot musicali delle stazioni commerciali per la sua lunghezza d’altri tempi, di solito viene tagliato dopo non più di quattro minuti. Questo è il motivo per cui ci sfugge il clamoroso fuori tempo di chitarra ritmica e anarchia totale tra percussioni e voce quando il testo dice “and to the black folks he was just a crazy nigger, no one doubted that he pulled the trigger.”, prendendo come riferimento il video qui sotto si trova a circa 17.18 (è un greatest hits ma su youtube il pezzo singolo nella vecchia versione è sparito del tutto, soppiantato dalla colonna sonore del recente film). Mi chiedo il motivo per cui sia stato scelto proprio quel take da inserire sull’album malgrado quella fastidiosa svista, che non toglie valore alla bellezza del brano ma ogni volta che lo ascolto manda in tilt il mio senso del ritmo. Anzi, se avete informazioni o curiosità in merito, commentatemi qui sotto, grazie.

più di là che di qua

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Si passava da una festa all’altra, a quanto pare c’era sempre qualche cosa da festeggiare. Un compleanno o una laurea, il vernissage di una nuova casa o la dismissione di quella precedente, la festa d’addio di qualcuno. Eventi organizzati da privati che poi alla fine diventavano pubblici tanto che in certi appartamenti c’era paura che il pavimento crollasse, case antiche i cui costruttori non avevano minimamente pensato alla portata massima in peso, con l’aggravante del ballo che non so se peggiori la situazione, ma suppongo di sì. Una sera proprio per una casualiltà di questo tipo aveva avuto origine una sorta di leggenda metropolitana, il piano su cui si affacciavano i due appartamenti i cui proprietari avevano unito gli sforzi organizzativi si era crepato, stiamo parlando di una abitazione medioevale che forse aveva resistito ai saraceni ma non al centinaio di giovani adulti ospiti dell’artista tedesco e della sua vicina.

Ma il bello di quella trovata era che si poteva passare da una casa all’altra. Da una parte c’era la musica, l’appartamento A comprendeva una sala abbastanza grande per un party danzante, e malgrado la penombra riconoscevi le solite facce, quello altissimo biondo amico di non ricordo chi, l’architetta con i capelli corti e gli occhiali da nerd che si metteva a piedi nudi per ballare quando era ubriaca, ma non pensate a balli sfrenati o a chissà cosa. La musica era molto sofisticata, da club, poco rock e più sul versante dub e elettronico, fino alla lounge che era per palati fini.

Dall’altra, l’appartamento B, si poteva mangiare e bere, i meno danzerecci restavano in pianta stabile lì a spettegolare su tutto, danzerecci compresi. Immancabili i due proprietari del negozio di abbigliamento femminile del centro, oramai con i capelli bianchi ma elegantissimi nei loro dolcevita attillati, due molto raffinati che malgrado le vite sentimentali disastrose non avevano mai ammesso la loro attrazione reciproca o forse si ma la cosa non era di dominio pubblico. Stazionavano nei pressi di un catino pieno di un cocktail colorato che sconsigliavano apostrofandolo come sciacquatura di coglioni. Poco invitante, decisamente.

Poi così come ci si sentiva straordinariamente a proprio agio e pervasi da un divertimento mai provato sino ad allora, così a un certo punto ci si ritrovava fuori, in più di quelli con cui la serata era cominciata, e pronti a tirar tardi in un locale o in un’altra festa. Non era facile per gli outsider venirne a conoscenza, si trattava di un ambiente piuttosto esclusivo e ristretto, ma gli inserti di nuova linfa umana, quasi sempre maschile, erano tuttavia percepiti come un segnale positivo.

E non era nemmeno il caso di portare nulla, in caso di invito, chi metteva a disposizione la propria casa aveva tutto e un gesto di cortesia, un paio di bottiglie o una torta salata, sarebbe passato inosservato. Gente come il gemello insopportabile della coppia di omozigoti praticamente indistinguibili a malapena si accorgeva della tua presenza in casa sua, quel gigantesco labirinto strappato a un prezzo di affitto irrisorio alla curia con cui aveva forti agganci di famiglia. Portare un vino pregiato significava versarlo direttamente nel cesso, troppa superficialità. E anche quando te ne andavi oramai erano tutti troppo sbronzi per notarlo, non aveva senso nemmeno ringraziare il padrone di casa. Fare conversazione era comunque estremamente semplice, era sufficiente non lesinare in complimenti a chiunque ti rivolgesse la parola. A meno che non si decidesse di sparlare su qualcosa o qualcuno, ma occorreva aver ben chiaro chi fosse in buoni rapporti con chi.

Poi, e probabilmente è successo nell’ultima festa di quella stagione di spensieratezza, ci smascherammo a vicenda, eravamo entrambi così stremati dalla vita professionale che lasciavamo con serenità che nel weekend ci fosse qualcuno – il nostro partner di allora – che guidasse per noi. Ci incrociavamo agli stessi orari due volte la settimana, ogni lunedì mattina e ogni venerdì sera, e c’era già abbastanza materiale da unirci in cameratismo. Il fatto che qualcuno mi avesse riconosciuto pur conoscendomi di meno di tanti altri mi fece sorridere amaramente, sapete quel sorrisetto che si fa quando ci si trova a imitare gli attori cool dei film. C’erano un paio di birre nel frigo, forse le ultime ma sarebbe troppo scontato per un finale della storia, tutto da trascorrere giù in strada a progettare di mettere su una agenzia new media a Milano.

nomi impropri

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Quando penso a iniziative tipo “adotta una parola” mi rendo conto che ci sono termini che nessuno prenderebbe mai con sé, e non mi riferisco alle volgarità comuni, quelle che sentiamo ogni giorno. Esistono nomi di malattie, medicinali o di oggetti legati all’ospedalizzazione come catetere, per esempio, che sono brutti, sfido a farli propri. Incarnano significato, significante e segno in una aberrazione semiotica che chiunque pagherebbe per veder le lettere di cui sono composti svanire ad una ad una come le scritte sul vapore dei vetri, ma ci vuole ben altro. Forti dell’appartenenza a un vocabolario tecnico, invadono le vite come soprammobili regalati da terzi che ci conoscono poco e tirano a indovinare circa i gusti altrui, così ti restano in casa perché ti vergogni a metterli in cantina che poi se l’autore del dono passa di lì non sapresti come giustificarti. Speri però che il gatto in un eccesso di entusiasmo da appetito o da gioco faccia cadere quella macchia scura che fa parte della tua vita ma di cui faresti a meno, era proprio un bell’oggetto ma Birillo sai come sono i gatti, inseguiva una mosca e l’ha mandato in mille pezzi. Ecco, ci sono tante parole di cui faremmo a meno, pensate ai nomi dei disturbi della memoria, il termine stesso demenza senile, che smacco alla dignità di una donna o di un uomo o qualunque persona che ha vissuto decenni lavorando, allevando figli, giocando a carte o leggendo romanzi gialli o terminando cruciverba senza usare il dizionario. Demente sarai tu, qualunque cosa tu sia.

more blur, come in photoshop

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E per celebrare l’evento, che chissà se avrà un seguito, stamattina sono uscito così, in pieno clima 90’s. Uno dei tre cd è “artificiale”, dai uno su tre è una buona media, indovinate quale.

tutti in colonna sonora

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Sì, certo, la canzone più adatta a commentare immagini di un successo aziendale è “We are the champions” e se devi scegliere una musica a sottolineare una scadenza pressante in cui ce la devi mettere tutti usi “The final countdown”, o se devi raccogliere una sfida non c’è niente di meglio che “Eye of the tiger”, un po’ meno didascalica almeno nel titolo ma talmente scontata che ti aspetti che nel video spunti l’Amministratore Delegato del competitor in guantoni da boxe pronto a minacciarti con il classico “ti spiezzo in due”, anche se nel vostro caso l’accento, più che russo, dovrebbe essere cinese. E allora lasciatevi servire, perché se volete emozionare il prossimo, nel senso di prossimo cliente, e la vostra presentazione sarà visionata da una persona di sensibilità e gusto almeno una tacca sopra la sufficienza, come si spera vista la posizione di grande responsabilità che ricopre, una tale ridondanza di messaggi rischia di banalizzare i concetti che pensate di trasmettere, in un collo di bottiglia tra elementi che tentano di scavalcarsi l’un l’altro, quale sarà da percepire prima, valori di segno opposto che si annullano. La musica è il piatto con cui servire la portata in cui avete preparato immagini decorate con parole chiave, deve stare sotto e reggere il tutto. I vostri suggerimenti, se applicati, rischiano di far inciampare il cameriere e fargli rovesciare tutto il lavoro su chi sta aspettando affamato a tavola, vestito per la serata, che a fine cena dovrà metter mano al portafoglio. E allora, permettete che ci pensi io?

in via dei matti numero zero

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Si salivano sette piani di scale a piedi, rampe pensate per scoraggiare gli ospiti e aggiunte o ricostruite nel tempo, le ultime due con una percentuale di pendenza da alpinista e un rapporto alzata-pedata al di fuori di ogni norma architettonica. La prima volta addirittura percorse al buio, non vi era alcuna finestra perché non esistevano spazi comuni interni, un cortile o un qualsiasi chiostro benché cinquecento anni fa fossero elementi piuttosto comuni. Probabilmente a quell’edificio mancava un pezzo, magari crollato o bombardato in tempo di guerra, e già era un miracolo che la parte in cui si trovava il mio futuro bilocale fosse sopravvissuta. Procedevamo lentamente, il padrone di casa davanti ed io dietro, la mia faccia all’altezza delle sue tasche posteriori dei pantaloni, lui anziano e fiaccato da tutti quei problemi che impongono di fare le scale con calma, a una certa età. Il buio, in alcuni punti totale, non aiutava di certo, ci tenevamo al corrimano in legno, azzardando ogni passo in base all’esperienza del gradino precedente pur sapendo che un metodo empirico in questi casi di edilizia nei centri storici è tutt’altro che efficace. Non c’era però pericolo di sbagliarsi all’arrivo, la scala terminava proprio in fronte all’ingresso dell’appartamento meta del nostro sopralluogo. A quel punto un po’ c’eravamo abituati all’assenza di luce, ma la porta, di una taglia almeno più piccola rispetto all’uscio, lasciava filtrare sopra e sotto un centimetro buono di luce. Bene, non ci saranno problemi di aerazione.

Giudicare l’appartamento immaginandoselo abitabile non fu un’impresa semplice, ma il costo era vantaggioso e decisi di dare fiducia al locatore, padre di un’amica di un mio collega che ci aveva messo in contatto. E non mi sbagliai. Già la seconda visita, a caparra versata, andò meglio. La luce nelle scale era stata ripristinata, e la casa era stata rimessa in ordine e tinteggiata tutta di bianco, tanto che con le finestre spalancate a quell’altezza con la giornata di sole sembrava di essere in Grecia. Certo avrei dovuto adattarmi perché in quanto a comodità lasciava a desiderare. La doccia era nel cucinino a ridosso della finestra, per lavarsi occorreva chiudere la veneziana verso l’esterno per non mostrarsi in pubblico, anche se la vista era su una piazza e non c’era nulla di fronte, e tirare una tenda verso l’interno per non allagare il pavimento. Nello stesso cucinino era stato ricavato il bagno, nel senso della tazza con sciacquone annesso e basta, un cubicolo con un’apertura sulla doccia cioè sulla cucina, con tutti i problemi della coesistenza tra esigenze fisiologiche e cottura dei cibi.

Ma il vero punto di forza, il particolare che faceva la differenza e che mi aveva convinto ad accettare la proposta, era il terrazzo. La scala, una volta oltrepassata la soglia, continuava a sinistra ancora per una rampa a chiocciola e in muratura che portava al tetto dell’edificio, ampio quanto l’appartamento sottostante, davvero suggestivo. Pavimento in ardesia, comignoli, vista da capogiro sul centro storico fino al Porto Antico. Solo questo sfogo, inaccessibile a temperature estreme per quanto possano essere estreme le temperature a Genova, valeva tutto il resto e convinceva a chiudere un occhio sulle caratteristiche più infelici. Le infiltrazioni d’acqua che poi diedero alle pareti di perimetro una preoccupante sfumatura verde poltiglia. I calcinacci che ogni tanto si staccavano e cadevano percorrendo le scale. Il portone sempre spalancato e apparentemente privo di serratura tanto che non mi venne nemmeno fornita la chiave, il che attirava individui senza fissa dimora alla ricerca di un posto al coperto. E quando dico apparentemente privo di serratura è perché una volta lo trovai chiuso rientrando a notte inoltrata, così scelsi di tirare mattina nella sala d’aspetto della stazione ferroviaria, con degni compagni di sventura. E il pusher che, oltre a me e a un misterioso infermiere transgender, abitava lo stabile occupando l’appartamento al piano inferiore rispetto al mio. Ogni tanto i clienti lo aspettavano seduti sui gradini, ma si spostavano volentieri per farmi spazio quando passavo. Una volta, salendo, trovai la sua porta d’ingresso sfasciata a colpi di martello (era di legno e, come la mia, piuttosto fatiscente) così, temendo per mia incolumità, chiamai la Polizia e mi lamentai con il padrone di casa, proprietario di tutto l’edificio. Prima però provai a rintracciare il pusher, cosa abbastanza semplice perché nel bar della piazzetta, una sorta di filiale per la sua attività, era molto conosciuto. Il barista non si sorprese più di tanto. Aveva sgarrato con il suo principale, per così dire, ed era sparito dalla circolazione. Ma non era il primo comportamento anomalo che avevo notato in lui. Era uno molto macho, con tanto di cicatrice sul viso e i capelli lunghi e in casa indossava una vestaglia orientale aperta sul petto. Uno di quei personaggi che si incontrano solo nel centro storico di Genova. Per un certo periodo c’era una ragazza con lui, che presentava come la sua donna, che scacciò di casa un notte come un film d’altri tempi, lanciando le sue cose giù per le scale e urlandole di sparire, che lì dentro di suo non c’era niente e di non farsi più vedere. Sul terrazzo organizzai anche un paio di feste, con il barbecue e la musica, divertendomi a scendere e salire lungo l’impervia scala a chiocciola per trasportare vino fresco e birra e focaccia.

Una mattina, poi, stavo ancora dormendo, saranno state le cinque, suonarono e bussarono alla porta in modo concitato. Debole di nervi come sono rischiai l’infarto ma riuscii a infilarmi i pantaloni e portarmi all’ingresso. “Carabinieri. Aprite o sfondiamo la porta”. Giuro. Non me lo feci ripetere due volte. C’erano un paio di agenti in divisa, un vigile del fuoco e una donna in borghese. Mi colpì il modo in cui rimasero sorpresi sbirciando alle mie spalle, mi ero sistemato piuttosto bene con mobili comprati per due lire ai mercatini dell’usato o trovati nella spazzatura ma tutta roba di design e vintage, più qualche immancabile pezzo Ikea. Mi dissero che avevano l’ordine di sgombrare l’intero stabile che a loro risultava essere occupato abusivamente. Ma, mentre mi osservavano cercare nel faldone dei documenti il regolare contratto, si rendevano conto che qualcosa non quadrava, anche se sembravo un giovane scapigliato avevo comunque la parvenza di una persona per bene. Io mi stavo preoccupando per il mio vicino di sotto, chissà se gli perquisiscono la casa e gli trovano qualcosa. Poi la donna in borghese, che doveva essere la più alta in grado, lesse l’indirizzo indicato sul contratto. Salita San Bernardino. Il loro mandato era per Mura di San Bernardino. Ci scusi tanto. Tutto da rifare.

Ma non fu nemmeno quel qui pro quo a farmi desistere, dopo due anni, dal rimanere lì. Decisi di trasferirmi altrove dopo un episodio apparentemente privo di significato ma che mi portò a una riflessione esistenziale. Lasciavo spesso la finestra sulla doccia aperta, durante il giorno, quando uscivo per recarmi al lavoro. Un giorno iniziai a sentire un odore piuttosto sgradevole nella rampa di ingresso, in un punto preciso tra due scalini ma non riuscivo a capire cosa fosse, la penombra non permetteva indagini più accurate. Temevo il peggio, vista la diffusione di roditori indesiderati nella zona. Ma, presa di petto la situazione e munitomi di una torcia, rinvenni un piccione appena nato, morto da tempo a giudicare dalla puzza e dalle sue condizioni, nascosto sotto una piega della moquette. Pensai al disagio della fauna nel contrasto tra urbanizzazione e edilizia storica, la mia casa come un cimitero di piccioni che scelgono di venire qui a morire. Ecco, ne avevo abbastanza. Trovai un appartamento allo stesso prezzo in un palazzo di fine 800 e lentamente cominciai il trasloco, per lo più utilizzando l’autobus.

nove nove nove nove nove…

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Le maestre dicono che nel primo quadrimestre non danno i dieci anche a chi come te li meriterebbe visto che pensano tu sia molto brava e, come si diceva una volta, diligente. Così usciamo dalla consegna delle pagelle e dal colloquio individuale davvero fieri e contenti ma non è tanto per i voti, è proprio sentir parlare così bene di te e in questi termini. Al di là del profitto sono il comportamento, la cura e il modo in cui ti rapporti con gli altri che ti viene riconosciuto, ma il merito è tutto tuo. Sappi che è davvero un piacere essere tua madre e tuo padre. Grazie.

brit post

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Toh, i Blur, ai Brit Awards 2012.