dodici minuti

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Ogni volta sono costretto a ruotare la scatola su ogni lato, se è di cartoncino, o ancora peggio a palleggiarla se si tratta della confezione trasparente, e ogni volta penso che se fossi un product manager dedicato a quel tipo di articoli metterei quella che è l’informazione più importante a caratteri cubitali, più del nome che coincide con la tipologia che basta vedere dentro come sono fatti per capire di cosa si tratta. Poi se ne ho voglia può essere anche interessante avere più notizie sul loro processo di lavorazione, sì perché no, anche se potete essere i più fighi e i biologico-oriented del mondo che comunque la produzione industriale è – lo dice il nome stesso – l’antitesi di quella artigianale. Il che non costituisce un limite, anzi, è molto più facile tracciare la filiera e controllarne la qualità, magari meno genuina, ma difficilmente sofisticabile.

Poi trovo sempre il peso della confezione in evidenza, che ha un senso al momento dell’acquisto e lo capisco, se vuoi sopra ogni cosa vendere il prodotto punti tutto sul convincere un potenziale acquirente alla scelta. Il cliente che prende in mano l’articolo, cerca il prezzo sullo scaffale, lo mette nel carrello e lo va a pagare. Bravi, missione compiuta. Soldi che entrano, era questo il vostro obiettivo. Ma quello che succede dopo, a casa, che in altri settori di mercato è definito fase di post vendita ed è considerato un momento fondamentale del rapporto cliente-fornitore perché se non c’è assistenza o chi ha sborsato i soldi si trova in difficoltà, ha qualche problema, riscontra differenze tra quello che pensava di avere e quello che ha ottenuto, alla fine l’affare può sfumare. I tanto celebrati Service Level Agreement sono stati inventati mica per altro, e nel nostro caso parlare di metriche di servizio non è possibile, ma è quello a cui mi appellerei se potessi in questo momento, perché non riesco a trovare un dato fondamentale, quello di cui ho bisogno per portare a termine quello in cui mi sto cimentando che è un compito delicato da cui dipende la soddisfazione di tre persone questa sera, una moglie una figlia e una sua compagna di scuola che sono sedute alla tavola imbandita e stanno aspettando la cena e io che in piedi ai fornelli cerco disperatamente il tempo di cottura della pasta che ho già buttato in pentola e che è già un po’ che è sul fuoco.

Ma questa una delle mie più grandi difficoltà, più del riuscire a distinguere correttamente tra lavastoviglie e lavatrice quando voglio avvisare mia moglie che sto per attivare l’una o l’altra in modo che lei non accenda il forno facendo saltare il contatore, devo concentrarmi e pensare che se contiene piatti sporchi è l’una, se ha un oblò e l’altra. Così ho deciso di lanciare un appello ai grandi brand del food. Vi prego. Stampate più grande l’informazione sui minuti di cottura e costituite una associazione di categoria per stabilire alcune regole deontologiche come mettere sempre l’indicazione nello stesso punto, una guideline universale tale che io impari che quel numerino sta in alto a destra, faccio un esempio, e prima che la pasta scuocia lo leggo lì e salvo la serata. Grazie, ho finito.

dopolavoro

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Sarà stato l’effetto della scossa sismica di ieri se ti si è rovesciato tutto il lavoro addosso e adesso, anche oltre l’orario di ufficio, ce l’hai appiccicato sui vestiti, puzzi di riunione e di brief e si vede che non vedi l’ora di cambiarti, tornare a casa e metterti qualcosa di pulito e di comodo nel tuo appartamento che condividi con altri ragazzi come te che si chiederanno cosa è successo. Ma la giornata lavorativa non finisce con il suono di una sirena o un cartellino timbrato, queste cose si vedono oramai solo più nei film in bianco e nero, e quello strumento di comunicazione che ti segue ovunque, personale perché di tua proprietà anche se te lo hanno regalato mamma e papà per festeggiare il tuo primo impiego pardon, la tua prima collaborazione continuativa, quella mattonella con la plastica touch screen che ora tieni inclinata tra bocca a orecchio e alla quale stai rivolgendo una serie di giustificazioni in risposta all’accusa di un invio di formati di file sbagliati, è solo uno dei numerosi link che rimandano la tua vita privata a quella postazione che hai lasciato vuota poc’anzi, con il monitor in stand-by.

Ora, mentre dirigi parole a un dispositivo sproporzionato per la semplice funzionalità di trasferimento voce che dovrebbe assicurare, scruti il vuoto che hai davanti ma che vuoto non è, perché ci sono io e c’è un sacco di altra gente, ma tu hai eretto una barriera artificiale che vedi solo tu e che osservi sbigottito come se fosse un desktop virtuale sul quel stai cercando convulsamente la risposta giusta da dare a quell’interlocutore che è in grado di raggiungerti ovunque. Qui, tra un’ora a casa, magari stanotte mentre stai dormendo ti telefonerà per chiederti di risolvere il suo problema e tu dovrai riferire tutto domani al tuo responsabile, che c’è stato un problema di formati e di estensioni e di versioni differenti di programmi, ma se a malapena la chiamata personale ti sarà rimborsata dall’azienda che già ti sottopaga tutto il resto, il tuo essere quello che fai 24*7 giorni festivi inclusi non ti verrà mai restituito da nessuno, e l’aver consumato l’esistenza giorno per giorno a piccole ma sostanziali porzioni per colmare le difficoltà di bilancio altrui non diverrà mai una competenza riconosciuta ufficialmente in grado di fare curriculum, e al prossimo head hunter che ti esaminerà apparirà solo come una normale menomazione fisica di gravità insufficiente per autocertificarsi appartenente a una categoria protetta riconosciuta.

memori di Adriano

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Ma vi rendete conto di essere testimoni di una delle più grandi rivoluzioni culturali e sociali di tutti i tempi? Se avete all’incirca la mia età, potrete vantare ai posteri di aver assistito a evoluzioni storiche come il passaggio dalle cabine a gettoni all’iphone, dai televisori in bianco e nero ai Social Network, da Adriano Celentano a… Adriano Celentano. C’è qualcosa che non mi torna e che anzi, ecco cosa mi fa tornare in mente, la pubblicità che passava nelle radio locali di un noto negozio di abbigliamento, un messaggio che puntava tutto sulla tradizione: mio nonno vestiva da Mauri, mio padre vestiva da Mauri, io sono giovane e vesto da Mauri. Che nel nostro caso suonerebbe “a mio nonno veniva propinato Celentano in tv, a mio padre veniva propinato Celentano in tv, io sono giovane e devo subire Celentano in tv”.

E a dire la verità non ho capito bene che cosa sia successo perché, come direbbe Battiato – altro esempio di longevità – per fortuna il mio razzismo non mi fa guardare quei programmi demenziali di infotainment, ma se la notizia poi passa al telegiornale la cosa si fa seria e dobbiamo farcene una ragione. Pare che ci sia un tira e molla tra il Clan e la Rai sulla partecipazione del loro guru a Sanremo. E questa frase raccoglie un po’ tutto il fallimento di più di una generazione, individui apparentemente cresciuti grazie a una lingua, una religione, una educazione civica comune che in realtà non hanno nulla che li unisce di più di un tipo di sottocultura pop, ma non nel senso sano di popolare come La bella gigogin, per dire. No. Quel pop di dominio della gerontocrazia dello spettacolo nazionale che trova la sua catarsi nel Festival di Sanremo.

Quindi nell’anno di grazia 2012, Adriano Celentano si presenta di fronte a telecamere e giornalisti facendo le sue mosse da molleggiato, le stesse che faceva nei musicarelli che vedeva mio nonno classe 1904 al cinema. Celentano accolto dai fans che lo inondano di flash e di mani da stringere, come negli eventi itineranti tipo il Cantagiro, in uno scenario in cui si auspica la sua presenza in uno spettacolo già discutibile di per sé, il Festival, davanti al quale milioni di persone assisteranno al suo show che non ho idea di come potrà essere. Canterà una canzone, parlerà di temi ambientali come li vede lui, farà uno dei suoi rock’n’roll con l’inglese inventato tipo prisencolinensinainciusol di cui facevamo la parodia alle elementari con “presi in culo un etto di acciughe”. Si sa, eravamo piccoli ed era il 1974, posso contare sulla vostra comprensione.

Sembrerebbe che dalle nostre parti i bambini nascano già con Celentano nel DNA, un elemento genetico che viene trasmesso al momento del concepimento dai genitori ai figli, se siamo così in pochi a stupirci che sia naturalmente accettato come un dato di fatto l’esistenza stessa di Celentano in uno show business nazionale (se non l’esistenza di Celentano tout court), e che anche se crescendo non ne abbiamo sentito parlare se non marginalmente, perché abbiamo letto o ascoltato di tutto fuorché quel tipo di prodotto culturale, si pensa che Celentano sia una istituzione che si deve tirare in ballo necessariamente quando occorre fare una sintesi di quello che c’è di buono in Italia. Il Festival, chi lo dovrà presentare, chi saranno le vallette, l’ospite da pagare profumatamente e che ti fa fare il salto di qualità. Una metafora molto più calzante del naufragio del Costa Concordia.

fight club

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Impeccabile dal punto di vista narrativo, coinvolgente solo a tratti, alla terza o quarta scazzottata descritta nei minimi dettagli si inizia a voler entrare nella storia – il che potrebbe essere una qualità rara per un romanzo – e separare i bulli di turno coinvolti nella rissa. Perché non si può avere questa morbosità del cambiare i connotati al prossimo tutte le sere o ogni volta che si mette il naso fuori di casa con il rischio di farselo spaccare. Capisco che subire angherie e avere un padre così, anzi non avercelo proprio, possa acuire quel senso di strenua ricerca di un target contro cui far convogliare rabbia e frustrazione, ma la china oltre la redenzione potrebbe scattare un po’ prima per evitare il knock out che aleggia nell’aria. E poi, ragazzo mio, deciditi su quello che vuoi fare. Vuoi diventare un boxeur? Vuoi imparare il mestiere di barman? Vuoi essere uno studioso di scienze sociali? Vuoi diventare uno scrittore? La risposta è retorica quanto la domanda, visto l’argomento di cui sto scrivendo e trattandosi di un libro autobiografico, ma per giungere a questa conclusione tutte quelle pagine sono troppe e ricche in eccesso di piccole cellule narrative costruite sempre con la stessa architettura, tanto che alla fine crolla tutto e rimpiangi i bei tempi dei pugni in faccia.

il diavolo A4

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Tramontata l’era delle catene di divulgazione culturale tramite Power Point inviate via e-mail, roba che in confronto le rime di Max Pezzali sembrano estratti da opere di Kierkegaard, la palma dei repository della saggezza da cazzeggio in ufficio va ormai da tempo assegnata a Facebook, il vero tempio della creatività alla portata di tutti, la democratizzazione della battuta come aggregatore di reti umane. Una pillola filosofica piuttosto in voga che circola da qualche tempo in formato di fotografia a un foglio redatto in Comic Sans o giù di lì e appeso a una porta a vetri, riflessi inclusi, recita una inconfutabile verità che avrete almeno una volta nella vita letto, vista la sua diffusione trasversale tra tutte le tipologie di amici su FB: “tutti siamo utili, nessuno è indispensabile, ma onestamente qualcuno non serve a un cazzo”. E come dargli torto, a questo anonimo pensatore del ventunesimo secolo, che già solo per non aver utilizzato puntini di sospensione a sproposito costituisce comunque una piacevole eccezione.

Da qualche giorno la stampa di questa foto che ritrae un foglio appeso a una porta a vetri – scusate se ripeto di cosa si tratta ma è fondamentale per la comprensione del seguito – è appesa a una porta a pochi passi da me in una sorta di installazione tra il pop e il surrealista, tanto che sarebbe da fare una foto, stamparla e appenderla a un’altra porta e così via, per continuare all’infinito. Il dato inquietante è che la porta in questione, la seconda della catena qui sopra per intenderci, chiude o apre, seguendo l’indole pessimista o meno dell’osservatore, l’ufficio di due dei tre soci dell’agenzia in cui lavoro, i boss insomma. L’allegoria è evidente: lavoratori siate avvertiti, non solo il mondo è precario ma ci scherziamo pure su. E giustamente, mi vien da dire; come sosteneva un mio caro amico, non c’è nulla di sacro se non l’omonimo osso. Passando lì davanti si percepisce come un sussurro che invita ad avvicinare l’orecchio a quel foglio A4 stampato in bianco e nero: risorse umane, voi siete le colonne del nostro fatturato, ma attenzione perché siete caduchi come i denti da latte. Tornate a lavorare, e i fannulloni sono pregati di astenersi e di recarsi direttamente nella categoria più bassa della cinica quanto indispensabile classifica meritocratica interna.

Detto tra noi, a me quell’aforisma non fa ridere per niente. E ha anche amareggiato non pochi qui, che passano davanti e gettano un’occhiata per vedere se quel foglio stampato è ancora lì e poi, attestata la presenza, scappano via come per non farsi cogliere sul fatto. Qualcuno vedendoli potrebbe pensare che hanno la coscienza sporca, sono inutili e l’azienda dovrebbe lasciarli a casa per risanare le casse e così leggono di nascosto la loro diabolica condanna solo per esorcizzarla. Ma no, non dovete preoccuparvi, amici, è solo un file mandato in stampa, è solo suggestione, non siate giù di toner.

c’è una bomba

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Potremmo inventarci tutti i giorni in più che vogliamo e giocarceli come jolly ogni mattina in cui tu non hai voglia di andare a scuola perché ti annoi, quest’anno con le maestre ti è andata proprio male a partire da quella di matematica che si è inventata la proprietà distributiva dell’addizione e te l’ha fatta pure scrivere nel quadernone senza nemmeno un esempio, che uno dice che senso ha il nozionismo, peraltro di nozioni sbagliate, in terza elementare. Se sei d’accordo con me andrebbe a pennello proprio questa mattina, che coincide con l’ennesima fase conclusiva sempre uguale di uno dei numerosi progetti da un po’ di tempo a questa parte. Riceviamo la richiesta, e anche se la consegna è dopo un paio di giorni per un lavoro che per farlo dignitosamente ci vorrebbe una settimana, va bene lo stesso. Ci sbattiamo in fretta e furia per recuperare il materiale da utilizzare, facciamo il preventivo, coinvolgiamo risorse esterne e poi, nemmeno ventiquattrore dopo arriva il fermi tutti, non se ne fa nulla, così hai comunque perso un pomeriggio a preparare il lavoro alla fine sfumato.

Quindi inventiamoli pure questi giorni strambi e sperimentiamo la nuova settimana. C’è il nientedì, che ne dici di cominciare con un nientedì? Si sta tutto il giorno in casa a farci gli indovinelli sui personaggi dei film e a preparare toast da mangiare a pranzo, merenda e cena. Poi lo spendidì, rompiamo il tuo salvadanaio e andiamo a comprarci un lettore mp3 nuovo da 16 giga, così non devo più cancellare album per farci stare le tue canzoni preferite. Non tutti gli spendidì, però, anzi meglio se lo spendidì lo facciamo cadere ogni tre settimane. Il fotodì invece lo passiamo ad appiccicare vecchi ritratti sui muri, metterli in fila come ho visto fare in quella casa di New York in cui sono stato ospite, dove c’erano composizioni artistiche di foto ma anche un topo che è rimasto in una trappola morto per tre o quattro giorni perché nessuno di quegli artisti delle foto aveva il coraggio di farlo sparire. Così una mattina ho preso trappola e topo morto e li ho gettati dalla finestra nel cortile dove c’erano i ragazzi afroamericani che giocavano a basket come nei film. Hanno sentito il tonfo ma non hanno capito per fortuna chi era stato l’autore del lancio. Il tettidì invece girelliamo per Milano con il naso all’insù tutto il giorno, sperando che non ci sia nebbia perché il tettidì è dedicato all’osservazione degli ultimi piani delle case, che spesso traboccano di piante e vegetazione come l’appartamento del professor Erasmus nella storia di Clorofilla. Il fantadì invece sarà il giorno delle invenzioni e dei voli con la mente. Guidi tu perché io non ce l’ho ancora quella patente lì, mi raccomando fai attenzione a dare la precedenza alle cose più strane, perché passano senza mai guardare chi arriva da una parte e dall’altra. A quel punto però un sabato e una domenica ci stanno, giusto per riposarci e per raccontare a tutti la settimana fantastica – in un senso e nell’altro – che abbiamo passato insieme. Chiami tu in ufficio per avvertire allora che non vado?

il post punk a fumetti

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Vorrei liquidare la polemica della t-shirt Disney vs Joy Division

con una degna risposta, se me lo consentite

che dio la benediga

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E allora? Leggendo il testo completo dell’affermazione del viceministro Martone, e mi fido della versione riportata da Il Post che è “Dobbiamo iniziare a dare nuovi messaggi culturali: dobbiamo dire ai nostri giovani che se non sei ancora laureato a 28 anni sei uno sfigato, se decidi di fare un istituto professionale sei bravo e che essere secchioni è bello, perché vuol dire che almeno hai fatto qualcosa”, una qualsiasi persona di buon senso ne può capire le intenzioni e il significato. Trovo disdicevole l’utilizzo di un termine così infelice da parte di una figura istituzionale, detto ciò è ovvio che si riferisse solo ed esclusivamente a chi cazzeggia mantenuto ad libitum, e suggerire un invito a creare una cultura tale che chi si trovi in tali condizioni si senta inappropriato, sia per sé che per la società, è ben diverso dal dare dello sfigato a una categoria così generica. Siamo troppo intelligenti per far finta di non capirlo, e non mi sembra così inopportuna come uscita, basta guardarsi intorno, nei propri uffici, nelle proprie famiglie. Ma la consuetudine vuole che la discussione si avvampi partendo dagli stralci riportati dai media che mettono l’enfasi solo sulla parolaccia. Di certo poco ortodossa, ma almeno più adeguata di bamboccione.

uomini così poco allineati

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Anche io ho una canzone di Fossati che voglio ricordare pubblicamente, si tratta de “La musica che gira intorno” che mettevo sempre all’ultimo dei juke box prima che i juke box diventassero afoni. La mettevo perché c’era sempre meno musica decente, quell’anno meno che mai, e “La musica che gira intorno” rimaneva lì con il suo 45 giri come un pezzo di una bici legata a un palo in strada e ti meravigliavi del perché non avevano fatto sparire anche quel pezzo lì dopo il sellino, il manubrio e il fanale anteriore. Ma anche se ci fossero stati i brani partecipanti al Festivalbar al completo avrei messo lo stesso a ripetizione “La musica che gira intorno”, perché mi piaceva come iniziava e poi il fatto che tutti si giravano a vedere chi è che aveva messo ancora quella canzone, ed ero proprio io. Fino a quando, mimando una parte di chitarra con la mano destra sulla pancia e la sinistra a schiacciare un manico inesistente, ho sentito una voce piuttosto importante per me, in quel momento, dire che palle, come sei noioso, sei vecchio dentro, sembri un pensionato. Fine della storia. Sarai contenta oggi che anche Ivano Fossati va in pensione. Chissà se tu ci arriverai.

dente perdente

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Stare con la bocca spalancata e una dentista munita di pinza affiancata dalla sua assistente sopra di te non è il modo migliore per chiudere una dura giornata di lavoro. Ma non dev’essere nemmeno il massimo stare di fronte, dopo una giornata di lavoro, a una bocca (la mia, poi) spalancata con una pinza in mano e adoperarsi per un’estrazione. Dal punto di vista di chi sta sotto, doversi separare da una parte di sé così importante come un premolare per metterne poi in seguito un altro finto e riacquistare tutta la potenza del proprio sorriso è tanto traumatico quanto metaforico, d’altronde chi non ha mai sognato di perdere i denti, l’angoscia che si prova, il sollievo al risveglio e il malumore per l’intera giornata?

E mentre sei lì smarrito nelle tue interpretazioni delle tragedie esistenziali, ti sciacqui via i residui di quel pezzo che avevi in dotazione da almeno trent’anni e che non ti capaciti di come si sia potuto guastare, e pensi che diamine, avrebbe potuto succedere quando eri ancora mantenuto dai tuoi genitori anziché pesare sulle tue risorse, perché ridendo (ora con un buco temporaneo) e scherzando quell’avulsione come sta scritto sulla fattura e che ti fa pensare alla ricchezza del vocabolario professionale di un dentista, quella lacuna dicevo alla fine ti costerà un paio di migliaia di euro per colmarla. I denti non ho scelto io di averli, dovrebbero essere di competenza per sempre dei genitori, mi sembra giusto che debbano pagare loro per i figli anche quando i figli già pagano per i loro figli.

Ma un pensiero va a quella donna che sta tirando con tutte le sue forze le radici via dall’osso, perché fa un lavoro che tu non faresti mai, che oltre a dover ravanare da mane a sera nelle peggio cavità orali di grandi e piccini resta esposta almeno otto ore al dì ai più ributtanti olezzi, con la sua assistente che aspira i liquidi in eccesso e che sembra non fare mai abbastanza o posizionare l’aspira-schifezze nei punti sbagliati. E il pensiero è il seguente: chi glielo ha fatto fare alla mia dentista di intraprendere quella carriera lì, e la risposta che viene subito, la prima risposta che è quella che conta sempre, la si può riassumere con un simbolo che è questo qui: $ (immaginate il suono di un registratore di cassa che spalanca le sue fauci).

E meno male che ci sono persone che preferiscono sporcarsi le mani tra le gengive altrui, che tanto in un modo o nell’altro in qualche modo te le devi sporcare quindi tanto vale farlo per il più cospicuo gruzzoletto possibile, piuttosto che per vedere il proprio nome d’arte stampato in un colophon della house organ di una compagnia assicurativa. Quindi anche se stai scindendo due elementi che sono sempre stati uniti, il corpo che è il mio dal dente che mio ora non è più e che sarà rimpiazzato da un qualcosa chiamato impianto e che come le scelte che si fanno sul tipo di parquet da mettere in casa, e passi dal listone Giordano al laminato Ikea, così  ci sono vari modelli di rivestimento per la corona e io so già che sceglierò la versione più economica perché noi, povera gente, viviamo così, sempre alla ricerca del prezzo più basso.

Dicevo, anche se mi stai facendo un po’ soffrire con i tuoi attrezzi che pensavo anche: ma non dovrebbe esistere un laser nel 2012, qualcosa che fa bzzzzzzzz e il dente salta fuori da solo come da un tostapane? Bene, tu o dentista sappi che ti ammiro, e nella classifica dei mestieri che non farei nemmeno morto e che grazie al cielo c’è qualcuno che li fa e sa farli bene arrivi seconda solo dopo il pilota degli aeroplani di linea che devo prendere nel mio futuro.