in the mood for love

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-Papà, lo sai che non amo più Livio?
– …?!?
– Si, ho deciso che non lo amo più. E sai perché?
– Beh, in terza elementare parlare di amore…
– Per cinque ragioni: Livio è presuntuoso, vanitoso, spione, bugiardo e permaloso.
– Sì, ma mangia nel frattempo. Non ti sembra di essere un po’ troppo severa?
– È presuntuoso perché dice sempre che è bravo solo lui, è vanitoso perché si dà le arie e pensa di essere bello, spione perché appena uno fa qualcosa lui subito “maestra Manuel ha pasticciato il diario” o “maestra Alessandro si è alzato”, bugiardo perché una volta ha detto che Angelo aveva copiato da lui, così la maestra ha punito Angelo ma non era vero, e permaloso perché se gli dici che non ha ragione diventa una belva.
– Sì, ma mangia nel frattempo. Ma non ti eri accorta che Livio era così prima di amarlo?
– No, perché è così da novembre.

occupy top 10: musica standard nell’anno dei ribelli

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Non è stato un anno di quelli che passeranno alla storia della musica, questo ventiundici, forse perché ne sono successe di ogni in altri settori degne di essere ricordate, e gli adolescenziali sforzi di sublimare nell’arte musicale le proprie pene sono passati in secondo piano, alla voce “ragazzino lasciaci lavorare in pace, c’è da risolvere prima una crisi globale”. Per dire, sarebbe davvero da mettere al primo posto di una top ten di qualsiasi natura le dimissioni di Berlusconi come elemento più eclatante di rottura apparente o no, come si usa mettere in copertina delle riviste musicali lo stesso B. come rockstar dell’anno o su quelle di tecnologia da benestanti Napolitano. O, se vogliamo proprio eleggere una canzone a regina dell’anno, l’unico titolo che viene in mente è “This must be the place” ma, si sa, non si tratta certo di una novità, almeno non per me. Non che non ci siano stati album e pezzi interessanti, ma nell’insieme viene difficile attribuire punteggi e prendere posizioni diverse dall’andare in piazza o farlo tuittandone l’incondizionata solidarietà.

Passa sicuramente la selezione per i posteri Nine Types of Light dei Tv on the Radio, nello stesso anno della scomparsa del loro bassista Gerard Smith. Un album forse meno graffiante dei loro precedenti ma con diversi elementi degni di nota, nel complesso una più che soddisfacente (diciamo un dal sette all’otto, per ragionare in termini da liceale) raccolta di suggestioni sonore valorizzata dall’ottimo omonimo lungometraggio. Unica pecca, non per colpa loro suppongo, il non essere transitati dalle nostre parti con il tour. Ma non demordiamo e li aspettiamo pazientemente. Ancora nella categoria delle band deluxe rientra Angles degli Strokes, nove tracce su dieci godibilissime eccetto l’unica da dimenticare, quella che sembra scopiazzata da quelle lagne dei Muse, incartate in una copertina d’altri tempi. Una facile e spensierata mezz’ora di pop fresco ricco di citazioni da Is this it. Un disco degli Strokes, insomma, per nostalgici e neofiti, sconsigliato a chi non regge le autocelebrazioni. Chiude questo primo paragrafo The whole love dei Wilco, tutt’altro che fuori tempo regolamentare per la band di Chicago, non è detto che i musicisti che transitano attraverso la maturità non abbiano voglia di sperimentare. Anzi, se la cavano piuttosto bene e dimostrano di essere perfettamente a loro agio.

Nella categoria “scommetto che sai muoverti bene in pista” vanno una serie di album appena oltre la sufficienza, che ho ascoltato appena pubblicati e dei quali a malapena ricordo una manciata di brani. Comunque, giusto per arrivare al numero legale per stilare una classifica, le mie preferenza per l’anno chiusura vanno a The English riviera dei Metronomy, comunque ben al di sotto del loro album d’esordio, Skying degli Horrors che invece si mantiene in linea con la qualità dei loro due lavori precedenti, How deep is your love dei The Rapture, sopravvalutato, e Show me light dei Friendly Fires. Ma, a conti fatti, ammetto che il genere synth-rock-funk-punk con ciuffi a destra come se fosse new wave inizia a stufarmi, anzi mi impegno da qui in avanti a snobbare le band che non fanno nulla per mettersi in discussione. Ci riuscirò? Comunque, discorso in parte a parte (?) per gli inglesissimi Bombay Bycicle Club, che trovo intrinsecamente più originali, e A Different Kind Of Fix non è niente male.

Un paio di titoli nella categoria “esordienti, aka mai sentiti prima”, quelli scoperti per caso da altre fonti, per lo più Ondarock. Un disco geniale è stato W h o k i l l di tUnE-yArDs (è meno faticoso ascoltarlo che scriverlo), strambo ed eclettico, pieno di riferimenti multiculturali in salsa creativa. Niente male anche Making mirrors di Gotye, un altro esempio di varietà stilistica, quella sana che consente di ascoltare un album per intero senza annoiarsi troppo.

Infine tre ottimi dischi da meditazione. Weather di Meshell Ndegeocello, raro esempio di vocalità versatile per una serie di canzoni da sera, l’alternative folk dei Low Anthem, che con Smart Flesh hanno dato vita a un piccolo capolavoro di essenzialità sonora e, per cambiare continente, Tassili dei Tinariwen, ma se ascoltate bene troverete lo zampino dei Tv on the Radio, e così il cerchio si chiude.

Poteva andare meglio, poteva andare peggio, poteva anche non andare del tutto. Buon 2012.

l’educazione sentimentale

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Lo sai, vero, che non sono mai riuscito a convincerti di qualcosa. A persuaderti anche solo a proposito di una sciocchezza sulla quale io ne sapevo di più, per non dire di cui ne ero competente, che magari era già il mio lavoro. E che questo gioco di far finta di assecondare per poi lasciar cadere nel dimenticatoio alla fine è diventato uno standard nei rapporti diretti e che ora che il tempo ha eroso elasticità ai rispettivi cervelli ha reso noi due bastioni contrapposti da cui non si percepisce nemmeno una deflagrazione se siamo al riparo, spalle al muro dentro, da una parte e dall’altra. In mezzo poco più che un’area dismessa da tempo, uno di quei posti che nascono già obsoleti prima ancora di essere costruiti e che rimangono lì, oscenamente esposti come monumento allo spreco di denaro pubblico. Noi invece abbiamo sprecato le occasioni di raccontarci, tu non sei stato abbastanza veloce da approfittarne prima, io abbastanza coraggioso da chiederti il perché dopo. Alla fine poteva andare anche peggio, potevo cadere nello stesso errore, per fortuna sono stato persuaso in tempo e ora ci ho preso gusto. Ne sono più che convinto.

tutto comincia quando tutto pare incarbonirsi

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Ricevo auguri via sms da numeri sconosciuti che, al termine della frase fatta, non si firmano nemmeno. È facile immaginare il motivo per cui il loro numero non sia registrato nella mia rubrica, quello che mi sfugge è che il mio sia ancora presente in quella del mittente con cui ho avuto un rapporto lavorativo almeno due o tre aziende fa dopo di che non ci siamo né mai più visti tantomeno sentiti. E non credo che l’augurio sia una fonte di energia che più ne ricevi più ti si ricaricano le batterie (non solo quelle del cellulare) per quando poi ricominci all’alba del nuovo anno fiscale o solare che sia, né uno pensa che sia stato un gesto carino quello dell’account manager che si ricorda ancora di te dopo tutto questo tempo, solo perché non si è preso nemmeno la briga di selezionare i contatti da aggiungere come destinatari ma ha fatto un unico invito cumulativo con quella frasetta standard che si rammenta solo per quel fastidioso aggettivo contenuto, un “scintillante” anno nuovo. Ogni anno sempre lì perché forse si ritiene che sia una parola ricercata. Perché è così che te lo augurano. Auspicano in un duemiladodici scintillante quando fare le scintille non mi sembra tanto una cosa carina da augurarsi, per me fare le scintille significa usurarmi a tal punto da prendere fuoco ed è un mutamento di stato della mia materia che, detto sinceramente, eviterei. Ed è per rispetto del mio piano telefonico che non ti rispondo nemmeno, che già fare gli auguri via sms mi sembra una roba che nemmeno un bimbominchia, se non altro perché vorrei ricordarti che la prima volta che abbiamo visto usare l’aggettivo scintillante riferito a un modulo temporale da 365 giorni eravamo l’uno di fronte all’altro in un ufficio, ricevemmo quel testo da utilizzare come augurio aziendale standard. E siccome questo è successo almeno dodici anni fa, e tu lo ripeti da allora, devo dedurre che ti sia piaciuto così tanto se l’hai fatto tuo e se, da allora, non nei hai ancora trovato un modo meno artificioso (nel senso dei fuochi che nell’immaginario collettivo rappresentano al meglio forse quello che tu intendi) per descrivere con parole tue quello che vorresti che la vita riservasse a quell’elenco indistinto che mi comprende e che ora occupa parte della memoria del tuo telefono. Ecco, allora ricambio da qui gli auguri affinché una scintilla, alla prima occasione in cui dimostrerai di non aver ancora trovato un sinonimo, faccia prendere fuoco al tuo smartphone anche se suppongo il materiale non sia infiammabile se non ignifugo, o che una scintilla altrettanto metaforica tra tutte quelle che sprigionano dall’enfasi con cui ci inoltri una parte standard di te ti illumini la fantasia e lo scintillante anno nuovo, quello che verrà, ti porti consiglio e almeno una parola nuova in più per il tuo vocabolario, tra tutto quello che ti riserverà.

ecco il mio piano

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La scaletta ha previsto un aperitivo da gustare in piedi, il solito medley di antipasti, un piatto forte che già a fatica lo si poteva apprezzare in pieno, un secondo molto pesante tanto che poi uno proprio per il finale non ce la fa, quindi si tiene un po’ di spazio per il bis che però preferisce assaporare in solitudine. Ma,durante il Natale, il menu dolci non ammette variazioni sul tema, quindi meglio appartarsi e improvvisare qualcosa. Tanto il vecchio pianoforte, un po’ scordato, è sempre lì nella tua vecchia cameretta ora dequalificata a magazzino con oggetti sacri annessi.

foals – black gold

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capo danno

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Che iella. L’unica volta nella mia vita in cui ho partecipato a un New Year’s Eve party a Londra ho trascorso la maggior parte del tempo nel bagno della casa in cui la festa era stata organizzata piegato in due a dare di stomaco. La qualità degli alcolici non doveva essere eccelsa, in più non ho lesinato in quantità, fatto sta che il clou della festa per me è stato cercare di riuscire a mettere insieme qualche sillaba, che già avrei avuto difficoltà a farlo in italiano, figuriamoci in inglese e con l’obiettivo più che sfocato di spiegare a tutti che quel bagno ormai era inagibile. Un tasso di ubriachezza che se lo raggiungessi ora andrei dritto dritto in coma etilico e, come direbbe mio padre, buona notte al secchio. Ma dev’essere un sintomo della vecchiaia quello di non reggere più la realtà aumentata da alcool, e ripercorrendo alcuni episodi – che da qui giudico oltremodo incresciosi – di perdita di sensi da sbronza, sono più che convinto che, ripetendoli oggi, non ne uscirei vivo. Giuro.

Non hai più il fisico, sento qualcuno ribattere in fondo alla sala ma ho le luci puntate contro e non capisco chi sia, anche se la voce non mi è nuova. Si, mettiamola così, è il mio corpo che cambia. Il lato positivo dell’evoluzione alla sobrietà, nell’accezione principe, è aver potenziato la capacità di riconoscere il punto di non ritorno abbondantemente in anticipo, tanto che si rischia anche di perdere il piacere del bicchiere in più, se non addirittura del primo bicchiere stesso. Ora all’oblio è subentrata l’emicrania, la sciagura del mattino dopo si è amplificata in una vera e propria inagibilità del proprio organismo, quando e se sopravvive. Quindi un sano meccanismo di firewall all’ingresso, chiamiamolo così, preserva me e tanti di voi, ne sono sicuro, dal deja-vu dei peggiori risvegli della nostra vita e dagli improvvisi black-out da sbornia, il buio della mente che ti induce a sparire nel bel mezzo della celebrazione di massa per l’arrivo dell’anno nuovo, questa volta in Italia, mentre gli altri ti cercano perché magari hai tu le chiavi della macchina, e da quel momento è impossibile trovarti. Nei servizi del locale no, per fortuna, meglio non smarrirsi lì soprattutto da un certo istante della serata in poi. Nei divanetti più bui della sala o dietro agli stessi, magari sommerso di cappotti, no nemmeno lì. Al bar a chiedere l’ennesima consumazione, no nessuno ti ha visto. Così a mattino inoltrato ci si raduna proprio intorno all’auto, la tua che dovrebbe riportarci illesi a casa e dopo un po’, ma una mezz’ora buona, ci si accorge che tu se lì dentro, privo di sensi, sul sedile del passeggero reclinato. E proprio quel capodanno lì, dal momento in cui gli altri hanno aperto la portiera che per fortuna non avevi chiuso da dentro, è nata la leggenda di un nuovo sensazionale prodotto per la profumazione degli interni di automobili pensato in esclusiva per te e immesso sul mercato col nome di arbre magique al vomito.

non so se augurarmelo

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Li vedo ed è proprio come pensavo: mamma che piange per la commozione, papà che la segue un passo indietro con quella sua espressione che fa quando si sente un po’ fuori luogo, ma forse è solo provato da tutte quelle ore di volo che sicuramente avrà passato da sveglio a cercare di tenere a bada la tensione, leggendo o ascoltando musica. Ci abbracciamo comunque tutti e tre e siamo felici di poterci toccare di nuovo, poi gli faccio strada verso la fermata della linea che ci porterà a casa mia anche se non riusciamo a camminare stando affiancati, la calca è quella del Natale delle grandi città americane e noi siamo in tre con un grande e rumorosa valigia a rotelle da trainare e tante cose da dirci. E così seduti sulla metropolitana leggera, loro di fronte me, possiamo raccontarci tutto, quello che abbiamo fatto in tutti questi mesi. E vedo che mio padre si guarda intorno, a lui piace osservare le cose più comuni, le pubblicità nei display, i cappelli delle persone, i colori dei sedili, e paragonarli con tutti quelli che ha visto nei posti che conosce per dimostrare a se stesso le differenze. Allora gli chiedo come se lo immaginava, questo momento.

E mi racconta di un Natale di tanti anni prima, io ne avevo sette o otto, e avevamo trascorso la vigilia tutto il giorno in casa a giocare insieme con quei passatempi inventati, tipo cercare di colpire le palline da ping pong, colorate come palloni degli altri sport, stando sdraiati per terra a lanciarcele a vicenda, o le storie di Barbie e Ken che lui voleva sempre portarla alla mostra, e tutto si svolgeva nella città che avevamo immaginato nei vari ripiani a cubo dell’Expedit di camera mia, ognuno era un ambiente.

A cena ci aveva raggiunto Laura e tutti insieme avevamo guardato, io per la prima volta, The Blues Brothers, un film che era in programmazione anche alla tv ma che papà aveva preferito scaricare per poterlo seguire senza interruzioni pubblicitarie. E anche se non l’avevo mai visto, io ne avevo sentito già parlare, questo lo ricordo, perché c’era quella scena di Aretha Franklin che canta e balla con le pantofole rosa che avevo impersonato nello spettacolo dei bambini al campeggio l’estate precedente, cantando Freedom e ballando alzando le braccia sopra la testa come negli anni 60. E infine tutti a letto, io che non vedevo l’ora di addormentarmi per lasciare il posto a Babbo Natale che mi avrebbe portato i doni che avevo specificato nella letterina.

Così lui e la mamma si sono poi alzati quando ho preso sonno – avevo chiesto di poter dormire nel lettone con loro – e hanno allestito la sorpresa. I pacchi sotto l’albero e addirittura papà che ha svuotato il succo di frutta in cartone che avevamo lasciato come ristoro per Babbo Natale al posto del latte, i gatti non ne avrebbero risparmiato nemmeno una goccia. Papà aveva simulato il cartoncino vuoto strizzato con la cannuccia infilata ed era tornato a letto, ma mi confessa che non era riuscito più a riprendere sonno. Aveva iniziato a rimuginare a una situazione proprio tipo questa, io che vivevo con una borsa di studio negli USA e loro che mi venivano a trovare per Natale. Poi, mi dice, gli era sembrata straziante la distanza in confronto alla vicinanza di noi tre in quel momento, stretti nel letto. E aveva provato a fare mentalmente dei fotomontaggi come se avesse Photoshop aperto, sovrapponendo il mio volto all’interfaccia di Skype, ai tempi si usava ancora quello per video-comunicare tramite Internet, ma non ci riusciva perché il programma andava in crash con un’operazione irreale come usare il viso di me bambina, e gli era impossibile figurarsi i lineamenti che avrei avuto da grande. E a furia di pensare a quella storia aveva pure perso il sonno, e si era addirittura alzato per scriverla.

natale a casa pound

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Leggo da Questione della decisione una notizia Ansa secondo cui la figlia ottantaseienne del poeta Ezra Pound, residente in Italia, ha avviato un procedimento legale contro la banda che, in nome del padre, occupa e preoccupa da destra e un po’ più in là. Non risolverà certo il problema dell’assenza di valori che induce a tatuarsi Hitler sul petto o a riconoscere dittatori quali migliori statisti, anche quando penzolano al contrario da una pensilina. Ma è comunque una bella notizia. Imperdibile il passaggio “Pound non era di sinistra o di destra e si deve capire i Cantos per capire questo. È anche una questione di stile. Ho visto le immagini del loro leader con la testa rasata, e non mi ha certo impressionato favorevolmente”. Concordo sulla questione di stile. Che si chiamino Casa Gasparri, quello sì che è un pensatore alla loro altezza.

prova con un po’ di tenerezza

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I bambini poveri, nelle favole di Natale, stanziano con gli occhi imploranti e le facce appiccicate alle vetrine delle botteghe di dolciumi e di giocattoli, osservando sognanti i vari Ebezener Scrooge (redenti) del caso acquistare questo e quello fino a quando il commesso più antipatico, infastiditosi, li caccia via. Poi i bimbi crescono e alcuni di essi, nel periodo natalizio, proprio quando aumenta un po’ ovunque – forse a causa di un meccanismo pseudo-pavloviano – la bramosia da acquisto, tengono un analogo comportamento fuori e dentro i negozi di libri, dischi e strumenti musicali. Ma in realtà questa sorta di “consumo interrotto” viene esercitata durante tutto l’anno, è che in prossimità delle feste il contesto rende tutto più drammatico e, per chi passa di lì, è più facile farci caso. Perché quei ragazzini già durante l’anno, a furia di stazionare nelle librerie e nei negozi di musica, sono riusciti a entrare nelle grazie di proprietari e lavoranti in un modo un po’ strumentale, tanto che a furia di vederseli lì, ogni pomeriggio a esplorare scaffali, tirare fuori volumi o vinili da copertine colorate, chiedere di provare questo o quell’altro synth senza poi acquistare nulla, sono diventati di casa, una forma di affido educativo parziale, solo per il tempo libero, che però mai favorisce i sentimenti più profondi tanto da indurre il proprietario o il commesso amico a fare un regalino come forma di ringraziamento per una così assidua presenza, anche perché la semplice presenza non consente affari di alcuna sorta e non aumenta gli introiti dell’esercizio nemmeno di un centesimo. Il mondo funziona così, purtroppo. Ma la passione di quei giovanissimi clienti solo in potenza, mai in atto, poi cresce e in loro si manifesta il desiderio di percorrere quella stessa strada professionale. Chissà, pensano, un giorno potrei avviare una libreria, rilevare questo negozio di dischi o vendere strumenti musicali. Per fortuna poi cambiano idea, altrimenti, visti i tempi che corrono, sarebbero già sul lastrico. Ma non mancano le testimonianze di come potrebbe essere stata, per esempio, una bottega di vinile di culto se uno di quei mocciosetti perditempo avesse testardamente perseguito il suo sogno nel cassetto.