oscuro sarcasmo anche fuori dalla classe

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Camminare con la musica in cuffia è un’azione che un tempo si faceva esclusivamente con un dispositivo chiamato appunto walkman, oggi bla bla bla e non è il caso che stia qui a elencare i riproduttori audio in commercio né a perdermi in un elogio di questo o quest’altro e la poesia delle cassette che ho già trattato altrove e così via. Comunque converrete con me che, anche se si è grandicelli, considerarsi all’interno di un videoclip, con la colonna sonora in linea con quanto si vede intorno, è un gioco piuttosto divertente. Al contrario, non vi è mai successo di assistere a momenti molto simili a scene di video musicali famosi, ma non avete con voi il pezzo in questione o siete sprovvisti del tutto di un lettore mp3 portatile? Non che questo sia un grave problema, voglio dire, c’è ben altro di cui rammaricarsi di questi tempi. Ma, per farla breve, c’è un liceo proprio qui di fronte, quando esco per il pranzo suona la campanella e centinaia di ragazzi si riversano fuori al termine delle lezioni. Mi ritrovo a passare in mezzo a una fiumana di entusiasmo giovanile in fuga verso le rispettive abitazioni, io sono in senso contrario quindi mi capita di fronteggiare gruppetti che non ne vogliono sapere di essere separati da un impiegato di mezza età, così mi faccio da parte senza problemi. Ma non è questo il punto. Ogni volta in cui mi accorgo di essere lì in mezzo, mi viene in mente un video celeberrimo verso il termine del quale, proprio sotto un indimenticabile solo di chitarra di David Gilmour, il cameraman riprende un gruppo di studenti scorrere verso si sé. Due ragazze camminano con passo spedito e chiacchierano, una di esse si accorge della telecamera e avvisa la sua amica afferrandole il braccio e facendo un’espressione di sorpresa e un sorriso. Giovani di un’altra nazione e di altri tempi. Chissà che ne è stato di quelle due amiche. Ecco, io mi aspetto una reazione simile, io che mi avvio verso il bar nella folla, due ragazze che camminano in senso opposto colgono la citazione a cui sto pensando e ripetono gli stessi gesti di quei pochi secondi di Another brick in the wall. Rendendomi felice.

a rigor di logica

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Gli sms a volte sono uno scambio di colpi a tennis, quelli fatti per riscaldamento prima della partita. Una specie di legge di Newton, e a essere precisi mi riferisco a quella che stabilisce che per ogni azione esista una reazione uguale e contraria. Per questo a me piace interrompere la sequenza di risposte per primo con frasi amichevoli e gioviali che comunque lasciano intendere il commiato, uno se è intelligente ne approfitta e non risponde più, perché gli ho appena offerto su un piatto d’argento la scusa per interrompere i singulti di conversazione, lo lascio libero di intendere che può anche chiudere qui, glielo scrivo tra le righe. E a chi non coglie l’opportunità di sfruttare le mie smanie autosacrificali ma rilancia, poi a me viene da salire di livello, mi sembra poco cortese troncare sul primo tempo supplementare, preferisco dare l’assist per il golden gol, si dice così vero? Anzi, faccio il portiere e lascio la porta sguarnita. Segna, portati a casa questo trofeo e finiamola qui, che il tennis tutto sommato lo reggo, ma di calcio purtroppo non me ne intendo.

un altro posto

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I colleghi che poi diventano ex, per loro o altrui volontà, quando li incontri sanno di fresco e non di stantio come quelli che ancora lavorano con te, che hanno il sedere e la schiena a forma degli arredi del tuo ufficio, i riflessi dei colori della intranet sulla faccia e sui capelli, persino il puzzo delle lavorazioni che seguite insieme sulle dita e sugli abiti invernali. I colleghi che sono diventati ex li baci sulla guancia che è bella fresca e non perché fuori fa freddo, ma perché nei mesi in cui non li hai più visti sono rinati in un’altra agenzia, si sono ricostruiti una vita. L’entusiasmo – che può essere di facciata, sia chiaro, ho preso una decisione importante e me la sto facendo piacere – sembra fatto di goccioline vaporizzate sulla pelle.

O meglio, i colleghi che poi diventano ex sembrano automobili appena uscite da una riverniciatura, fuori sono proprio belle e scintillanti, chissà se c’è stato bisogno anche di qualche intervento di manutenzione, una controllatina ai freni, o la cinghia addirittura per chi è oltre i centoventimila chilometri. Hanno a loro volta nuovi colleghi, si incazzano con nuovi responsabili, ma si sa che dall’altra parte, quella che oggi l’ex-collega rappresenta, è tutto diverso, è la novità, è lui/lei a stare sotto il riflettore. L’argomento di cui parlare. La vetrina.

Perché io cosa potrei dirti se non cose che sai già. C’è quella che ha preso il tuo posto, sì è simpatica ma devo dirti per forza mai come te, altrimenti che ex collega sarei. Se ci rivediamo a pranzo è perché sono stato tuo complice dei tuoi piani di fuga, l’evasione premeditata con la notizia di sottobanco sugli annunci visti in giro, qualcuno te l’ho anche inoltrato io quando ho saputo che eri stufa. Poi il segreto del colloquio, le ore di permesso e l’esito che hai condiviso prima con me e poi con tutti. E mentre mi racconti capisco perché i colleghi non sono amici, o meglio lo sono ma è un po’ diverso perché quello che ci accomuna è la busta paga o i suoi surrogati, non ci siamo scelti, non ci siamo conosciuti volontariamente. Ciò non significa che non fossimo legati, le pause pranzo e la macchinetta del caffè, le lacrime nei momenti difficili, sì ci sono state anche quelle.

Ma non parliamo più del passato dai. Sicuramente lì è tutto diverso, ci sono le scrivanie e il tavolo della sala riunioni in tinta con i colori dei muri che sono in tinta con il brand aziendale, tutto sa di anguria. Così quando entri la mattina è come tuffarsi in un frappè di lavoro, sputi qualche nocciolo e ti rimbocchi le maniche, e forse è questo il profumo nuovo che hai. Sai di quel brand lì, quello che ti ha fatto un bel contratto a progetto, spero per te sia un profumo di quelli che non vanno più via.

riconoscimento

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L’idea che ho io di intelligenza è la capacità di fare la sintesi. Leggere molto è amore per la lettura, al massimo ti foraggia il lessico, ti permette di vedere luoghi e volti nell’immaginario, ti fa fare bella figura con gli amici quando gli scrivi o gli dici le citazioni, ma non necessariamente diventi intelligente. Cogliere i collegamenti tra le cose è un’altra bella virtù, vedi un film e lo fai rientrare nella categoria di un altro, vedi un quadro e riconosci il tributo che l’artista ha voluto espressamente pagare alla corrente del passato, annusi un fiore e racconti del profumo che hai sentito addosso a tizio o a caio, ogni città che te ne ricorda una vista in precedenza. Qui c’è un po’ di tutto, elasticità, uso sapiente della metafora e spirito di osservazione, anche memoria e capacità di organizzare i contenuti, ma non è proprio quello che intendo io. C’è poi l’essere informati, l’intasarsi il reader di feed altrui, scorrere la home page dei quotidiani in un eterno F5 per il refresh della pagina con quello che accade, seguire Ballarò leggendo i Twitter su Ballarò e postando commenti su Ballarò insieme ad altri che seguono Ballarò. Questo è essere aggiornati e pronti alle conversazioni con i conoscenti il giorno successivo, ma nemmeno in questo caso si tratta di intelligenza. L’idea che ho io di intelligenza, invece, è la capacità di fare la sintesi. Metti cioè tutto questo insieme – saggezza, ragionamento, informazione – con una spruzzata di curiosità e fai una persona che ho sposato (questa era una sintesi, non per questo sono intelligente, però.)

sovradimensionato

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Il primo di novembre, inteso anche come il primo pensiero di novembre che si traduce in post, va a  Tin Tin in 3D, un film da pomeriggio di festa per il quale di certo Spielberg non ha lesinato con gli effetti speciali, già pronto per il sequel. Il secondo va ai 46 euro per quattro biglietti, due adulti e due ridotti, 11 e 12 euro a cranio, novantamila lire circa per entrare al cinema che se me lo avessero detto quando ne spendevo quattromila per vedere i film d’essai al Filmstudio non ci avrei creduto. E il terzo pensiero non va a chi ha sostituito la lira con l’euro, ma con chi ha sbagliato i calcoli nel cambio.

errare umano

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E comunque quando li vedi da lontano, e sono una o due figure alte alte con una o due o tre più piccole in mezzo, e non pensi a chi sono e a come sono e a tutto quello che poi da vicino si vede, a quello che si dicono, a come prestano attenzione l’uno all’altro, se sono in linea o qualcuno in disparte, se si inseguono o se si trascinano, se si parlano con rispetto o si dicono cattiverie anche perché è il solo loro modo di volersi bene, se il padre ha lo smartphone in mano (una volta era la radiolina all’orecchio) o la madre è al telefono e i figli che reclamano l’attenzione che non avranno mai, o se invece stanno inventando una storia corale, un pezzo per uno, con un lieto fine. Ecco, se non pensi a tutto quello che poi si scopre conoscendoli, da lontano mi fanno sempre tenerezza.

scherzetto

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Passo a fianco di un crocchio di giovani ragazzine cinesi tutte in ghingheri, oggi è giorno di festa e si divertono come noi. Una di loro parla al cellulare con un tono altissimo e le altre indicano particolari di quella strada a semicerchio puntando le braccia e il dito della mano come un fucile, mentre quella che conversa al telefono segue divertita il gioco delle direzioni fino a quando si ferma con il naso diretto sulla bancarella abusiva di ombrelli e altri oggetti dal ciclo di vita brevissimo, ecco perché non avrebbe senso pagarli più del prezzo che è indicato in due lingue sul cartellino. La famiglia mediorientale che si sfama della vendita di cianfrusaglie in quell’angolo di periferia segue distrattamente il gioco delle incomprensibili teenager dagli occhi a mandorla. La mamma, sullo sgabello e avvolta in teli scuri, appoggia la schiena al furgone, il marito mette un po’ d’ordine tra la mercanzia e i figli accendono e spengono una minitorcia in dotazione a un portachiavi.

Il portone della festa è poco più avanti, provo a citofonare ma non risponde nessuno, non si sente nemmeno nessun segnale acustico. Ne deduco che sia rotto, non oso fare la prova con altri interni del palazzo, leggo cognomi di altre nazionalità e ho paura di non riuscire a spiegare perché ho bisogno di entrare lì. Poi scende un tizio in tuta da domenica, la tipica marca a tre righe più una, la sigaretta accesa e il sacchetto dell’immondizia e riesco a passare il primo livello. Il secondo è un ulteriore portone interno, anche lì il citofono è rotto, ma ancora una volta vengo salvato da una famigliola che esce a fare quattro passi con i figli. Mi chiedo dove passino il tempo libero, quali parchi ci siano in quella zona, se si accontentano delle aiuole come quel gruppo di indiani che ho notato qualche isolato prima mentre cercavo parcheggio, due famiglie che hanno improvvisato un picnic con tanto di plaid in pochi metri quadri di verde urbano, tra il marciapiede e la strada, la classica scena che mi fa venire in mente Marcovaldo e i funghi in città.

L’appartamento della festicciola ha l’ingresso proprio a fianco di quel portone interno, si tratta di un ex casa dei portinai, poi ridestinata a uso residenziale a tutti gli effetti. Suono e mi apre il padre della compagna di classe che ha invitato mia figlia, che dal momento in cui ho parcheggiato fino lì mi ha tenuto stretta la mano guardandosi intorno, fiera nel suo cappello da strega e nel suo mantello nero. Dentro casa gli ambienti sono in miniatura, c’è qualche amico di famiglia che ha accompagnato i bambini alla festa e si è fermato con i genitori per un caffé, nel tinello adiacente al cucinotto ci si sta a malapena in tre o quattro, le sedie sono già tutte occupate e così decido che è meglio andare via subito. Scambio qualche battuta con la mamma, è al secondo ciclo di chemioterapia e indossa la parrucca castano chiaro, non ricordo i suoi capelli originali ma forse sono biondi. Il marito mi toglie dall’imbarazzo per mostrarmi la cameretta dove i bambini sono già nel pieno della festa, lo seguo in un saliscendi di ambienti mossi e stretti, passo in una sala in cui noto appesi alle pareti puzzle di paesaggi completati e incorniciati a fianco di una stampa con un tramonto sul mare, sopra all’immancabile LCD ad alta definizione a non so quanti pollici.

Mi viene incontro una ragazzina mai vista con evidenti problemi di sovrappeso che tiene per mano la sorellina vestita con un costume da principessa, subito non colgo il link con il tema della festa poi però lo colgo ed è un tema che si potrebbe definire povertà, ma non voglio farlo perché c’è una dignità in tutto questo, e non è giusto che la povertà sia stata invitata oggi qui, a dissetarsi di bibite del Billa e pane confezionato spalmato di Nutella. Posso offrirti una tazza di caffé? No guarda mi spiace ma ho lasciato l’auto con le quattro frecce davanti la fermata del bus, ora non credo che oggi passino gli ausiliari a fare le multe ma meglio non sfidare la sorte. Chiaro che è una bugia. E sulla parola sorte mi sorprende un secondo link con un’altra cosa a cui non ho voglia di pensare, ci sono i bambini mascherati, tra cui mia figlia. Esco fuori, le ragazzine cinesi non ci sono più, la famiglia di venditori abusivi ride con una coppia di anziani. Penso che anche se sono le tre e mezza tra poco sarà buio, perché è cambiata l’ora. Ho voglia di una sigaretta ma non fumo da non ricordo quanto.

involontariamente

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La discussione nasce da un esempio. “Ecco vedi, per esempio” e racconto a mia moglie del tizio che fa attività motoria globale con me, un uomo di età indefinibile tra i sessanta e i settanta che trascorre almeno due ore al giorno in palestra essendosi iscritto a più corsi e ha un fisico che farebbe invidia a un quarantenne, me per esempio. E ogni volta, al termine della lezione, negli spogliatoi mi racconta, ma sarebbe più appropriato dire che racconta a se stesso, del weekend appena trascorso a pedalare o della volta in cui è caduto da tre metri mentre faceva free climbing. Si auto incensa per una decina di minuti poi esce, sempre prima di me, quindi lo ritrovo fuori che chiacchiera con qualcun altro, lo saluto e lui non mi riconosce, malgrado mi abbia messo al corrente delle sue prodezze fino a pochi istanti prima, e risponde al saluto con un “uela ciao come va?”, io gli faccio un sorriso di circostanza e me  ne vado. Poi l’ultima volta, al racconto dell”ennesima maratona record, gli ho detto “eh beato lei che è in pensione e che ha tutto questo tempo”, al che l’ho visto che ha capito che il punto non è essere ancora in forma ma avere le giornate libere per poterselo permettere.

Perché poi invece la discussione con mia moglie si è spostata su altri elementi, ovvero perché anziché trascorrere due ore ogni giorno alla cura di sé l’atletico pensionato non le dedica a fare il volontario all’Auser, per esempio, dove c’è sicuramente bisogno di braccia forti e di entusiasmo per la terza età? Così il discorso si è focalizzato inevitabilmente sul volontario, questa figura che si vede negli enti di soccorritori che non rientra proprio nell’immaginario delle dame di San Vincenzo, per esempio, ma di cui c’è bisogno. E le ho raccontato di quando una volta ho avuto un incidente e mi stavano trasportando con l’ambulanza per un controllo. Un semplice controllo, era evidente che non mi ero fatto nulla, ma io ero lo stesso lì spaventato dalla botta con cui avevo ridotto una Golf altrui a un prototipo di Smart, le Smart per fortuna non erano ancora state inventate. Ero sdraiato sul lettino con una paura fottuta di un trauma cranico e il signore al mio fianco, il volontario, che mi teneva la mano per tranquillizzarmi. Chi glielo faceva fare, al volontario, di starmi vicino e tenermi la mano? Il volontariato è quell’attività per cui non fai cose per te stesso ma le fai per qualcos’altro, individui, animali, gente in particolare, sconosciuti al telefono, enti. Ecco, il punto è che cosa faccio io per gli altri, e tenere un blog non rientra in questa categoria. Almeno questo è quello che sostiene lei, io non ne sono convinto del tutto, ci devo ancora pensare un po’.

novecentouno

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Alessandro Baricco è uno di quegli autori che come Tolkien e Fabio Volo, e non me ne vogliano i fan dei tre scrittori citati e accostati nella stessa frase che probabilmente inorridiranno gli uni degli altri, non ho mai letto e mai leggerò perché so a priori che non mi piacciono. Scrivono cose che so che non mi interessano. La vita è troppo breve per rischiare un libro, tutti mi dicono di no, un libro può riservare una sorpresa ma so già che la sorpresa non arriva mai. Soprattutto se è mediocre tanto quanto il suo autore. E come loro ce ne sono migliaia, ma gli appartenenti alla triade di cui sopra li vedo spesso accostati, citati, accompagnati, inseriti in contesti che confermano il mio disinteresse o, nel caso della beatificazione mediatica in diretta di Renzi, il mio disprezzo. Anche perché Baricco, scusate la schiettezza, mi sta pesantemente sui coglioni. D’altronde, un politico di moda non poteva che ospitare uno scrittore di moda, al suo festival dell’esuberanza delle personalità, piacioni in passerella che si riempiono la bocca di parole di moda come meritocrazia. Sì, proprio Baricco.

non pregate al conducente

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Dopo il caso degli autisti duepuntozero, un altro eclatante episodio di feticismo ostentato di simboli di culto durante lo svolgimento di pubblico servizio. In hoc signo vinces, è proprio il caso di dirlo. Ma questa volta il simbolo non è la mela morsicata di Steve Jobs sull’iPad manovrato contestualmente al volante dell’autobus dal guidatore, bensì la croce del cristianesimo unita a una corona del rosario penzolante dallo specchietto retrovisore. Il pullman è quello di linea tra Bergamo e la Val Seriana, purtroppo non ci sono materiali visivi a supporto se non la mia memoria e la descrizione che ne consegue. Quindi dovrete fidarvi. Ora, il primo spunto di riflessione è l’utenza di tale mezzo pubblico, almeno quello su cui sedevo anche io, che di primo acchito non dava l’impressione di aderire ai riti di Santa Romana Chiesa. Questo potrebbe spiegare l’installazione di uno strumento accessorio di sicurezza a bordo, uno scudo crociato volto a proteggere l’autista dai nemici dell’occidente. E ci si domanda chi abbia curato l’allestimento dei bus di linea, e se la metafora dei grani sia una rappresentazione visiva delle fermate lungo la strada fino a destinazione, un sistema satellitare con il quale l’utenza riesce a seguire il tragitto, ogni grano una preghiera di fermata a chi guida e magari si dimentica. O forse la collana con croce annessa è a discrezione del conducente, anche se le esclamazioni che gli ho sentito proferire durante gli oltre cinque chilometri di marcia a dieci all’ora dietro al valligiano a bordo dell’Apecar colmo di legname mi hanno convinto del contrario. A meno che non si tenga conto del dialetto, e le bestemmie siano da condannarsi solo se nella lingua ufficiale di uno stato laico.