una maledizione

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Capisco che sia un retaggio dell’educazione che chi ti ha cresciuto ha pianificato per te, quel lessico famigliare che si riempie di significato solo all’interno delle mura domestiche o nella trasposizione dei momenti di relax in salotto sui sedili in pelle di un’auto di lusso, durante i lunghi viaggi verso i luoghi di vacanza più “in”. I sostitutivi delle imprecazioni volgari che ipocritamente vengono ammessi negli sbotti d’ira, nelle accuse contro chi si mette di traverso nel lavoro o negli affari quotidiani e se ne parla a cena, nel tuo caso mentre la domestica con pianelle antiscivolo sostituisce i piatti del primo e torna in cucina ad allestire la portata successiva. E in questo caso non è nemmeno un’assonanza con una bestemmia, il classico “orcozio” anzi concettualmente è il suo opposto, una sfogo contro chi farebbe di San Pietro un granaio, un modo di dire inusuale probabilmente costruito a tavolino per consentirti di fare fronte, nella scuola privata di impostazione confessionale che hai frequentato, a compagni di classe che nemmeno tanto di nascosto creavano blasfemi scioglilingua con sequenze mozzafiato dei nomi della sacra famiglia e di tutto il suo entourage, nel segno della massima espressione di rivalsa alle istituzioni. Spiriti inquieti e infanzie bruciate talora culminate in eclatanti quanto efferati crimini, partecipazione a gruppi terroristici di estrema destra o stupri collettivi con gli amici della parrocchia. Questo complesso background probabilmente ha fatto da humus all’intercalare che sfoggi tuttora, un vezzo che ha reminiscenze d’altri tempi, che sa di guerra fredda, di padroni contro classe operaia, di scandali familiari taciuti nei riti domenicali alla fragranza di incenso, ambienti in cui ogni volgarità era lasciata fuori dai quartieri bene della tua città.

Così, ancora oggi, quando ti cade una penna, quando ricevi una e-mail indesiderata, quando leggi una notizia bomba sul sito di news preferito, momenti in cui chiunque altro qui e non solo romperebbe il silenzio con plebei appellativi degli organi genitali maschili, invettive contro le professioniste del mestiere più antico del mondo, fino a tirare in ballo più che invano il nome della figura più alta in grado e di sua madre, tu, con un fragile sussurro solo lievemente increspato da un vago rotacismo, ti abbandoni in un anacronistico e raro “ma porca Cina”, invettiva inappropriata in un momento in cui la suddetta suina nazione fa man bassa dei debiti dei paesi occidentali e, in un giorno non lontano, ci colonizzerà definitivamente.

degli altri titoli di canzoni dei talking heads che potrebbero diventare film

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E qualcuno in parte lo è già (o lo è già stato), chissà.

1. don’t worry about the government
2. psycho killer
3. thank you for sending me an angel
4. the girls want to be with the girls
5. the big country
6. life during wartime
7. memories can’t wait
8. heaven
9. electric guitar
10. drugs
11. born under punches (the heat goes on)
12. crosseyed and painless
13. the great curve
14. once in a lifetime
15. houses in motion
16. seen and not seen
17. listening wind
18. the overload
19. burning down the house
20. making flippy floppy
21. girlfriend is better
22. slippery people
23. i get wild/wild gravity
24. swamp
25. moon rocks
26. pull up the roots
27. and she was
28. give me back my name
29. creatures of love
30. the lady don’t mind
31. perfect world
32. stay up late
33. walk it down
34. television man
35. road to nowhere

come mai?

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In piena era crossover, credo vent’anni fa o giù di lì, mentre i batteristi di ogni dove si attrezzavano facendo a gara a chi avere il rullante più sottile vittime della moda di Blood Sugar Sex Magik, noi tutti estimatori del nuovo musicale che avanza vivevamo sdraiati sulla riva di un fiume metaforico in attesa di veder passare non il cadavere bensì il virgulto a nuoto di chi avrebbe potuto incarnare il verbo, in Italia, dei vari Urban Dance Squad e simili. Si sa, da queste parti da sempre c’è l’abitudine di andare a rimorchio dei paesi anglosassoni e mi vien da dire per fortuna, perché altrimenti chissà che cosa potrebbe mai uscire dalle cantine insonorizzate a contenitori per uova, stracolme di botti piccole contenenti vino pessimo, altra metafora e non c’è bisogno che la spieghi. Beh, mentre si aspettavano i Red Hot de noantri, ancora prima del video dei Negrita nudi come mamma ha fatto i loro omologhi californiani, si diffuse uno scherzo, una specie di catena diabolica, che nel piccolo delle persone che conosco ha avuto una discreta diffusione, anche io ne sono stato vittima. Praticamente si andava dall’amico melomane alternativo prescelto e gli si tessevano le lodi di una nuova sorprendente band italiana che mescola hip hop a funky rock, un gruppo che non sfigurerebbe sul palco come spalla dei Primus. Ovviamente l’amico melomane alternativo doveva avere totale e cieca fiducia in voi, magari lo stesso a cui avevate parlato di una band di Seattle che, dopo Bleach, aveva appena pubblicato una delle pietre miliari del rock di fine secolo. L’amico melomane alternativo avrebbe dovuto quindi chiedervi il nome. A quel punto gli si svelava la dritta, si chiamano otto-otto-tre, proprio come l’Harley, e hanno fatto un disco che spacca, Nord Sud Ovest Est. L’obiettivo era di spingerlo all’acquisto a scatola chiusa, abitudine non rara almeno fino a quando si acquistavano ancora i CD. Per farla breve, un mio fidatissimo conoscente mi spinse a comprarlo, tanto che la commessa del negozio di dischi, conoscendo i miei gusti, mi chiese se era per un regalo e quando le dissi di no colsi la perplessità nel suo sguardo. Vi risparmio la mia reazione al primo ascolto e quanto venni canzonato dal fidatissimo conoscente, senza contare che i cd non costavano poco e in quel periodo dovevo sempre pensare due volte prima di spendere soldi. L’unica via per dare un senso a tutto ciò e prenderla con filosofia fu di continuare la catena, cosa che feci con una persona che, a pensarci bene, non ho praticamente mai più visto da allora.

quel film che si intitola come un pezzo dei talking heads

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Un film da sei stelle, perché le cinque di rito per i grandi eventi in questo caso stanno strette. Voglio dire, un qualunque regista americano con tutta quella roba lì ne avrebbe fatto almeno tre di film. Uno su Robert Smith alle prese con il supermercato e altre amene quotidianità. Uno sulla morte di un padre che ti fa chiudere i conti con l’adolescenza che porti nei capelli e nell’eyeliner. Uno sulla ricerca dei criminali nazisti e le popstar alle prese con la storia. E vedendo Davd Byrne mentre canta e si china sotto il living room vintage che sfida le leggi di gravità e si intona perfettamente con il suo genio, mi sono chiesto quanto manca alla reunion dei Talking Heads.

felici fino a scoppiare

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È qualcosa di più che una storia d’amore. Intanto perché ci sono tre pretendenti. Due, l’insegnante di scrittura creativa e la psicologa, che pretendono di amarsi e poi di amare una donna che è un patchwork di esercizio stilistico e gioia di tutto, ma come si ama una creatura che cerca un rifugio e lo offre di rimando a chi non si capacita di quanto si possa amare la vita, anche quando si hanno dietro storie personali inconcepibili per la società occidentale. Come si ama una figlia, ecco. Per proteggerla, sostanzialmente. In secondo luogo perché è una storia d’amore tra due categorie contrapposte, l’attrazione fatale che da sempre divide in due il genere umano. Il foglio bianco di carta di un blocco per appunti contro il campo testo di una pagina xhtml di un sito dinamico. Il luddismo contro gli automatismi dell’informatizzazione. Le app contro le note scritte a matita negli interstizi bianchi dei libri di testo. Capire la ragione della felicità ed essere felici, e basta. Brevettarne la ricetta per divulgarla traendone profitto e accontentarsi della casualità con cui si sorteggiano i cromosomi. Ridurre il tutto a uno scontro/incontro di civiltà tra testa e cuore è riduttivo. Ecco due cellule che si accoppiano e si propagano per mitosi con un ingegnere genetico, che è Powers stesso, che prima osserva al microscopio le dinamiche della trama e poi, una volta raggiunte dimensioni visibili ad occhio nudo, si alterna tra spettatore e regista pronto a montare in postproduzione narrativa una terza dimensione, che farà da scenario alla conclusione della storia. Ma la componente scientifica e le multinazionali del DNA non possono competere con un eroe vestito di tutto ciò che è umano quindi casuale: l’andare a fondo per capire, l’attesa del momento giusto per agire fino al gesto risolutore e la vittoria, tanto è una storia inventata.

veniamo a prenderti

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Te lo ricordi l’Alberto? Se tu fossi di Milano me l’avresti chiesto così, ma sei esposto a ben altre parlate e l’articolo prima del nome proprio maschile ti suona strano. Comunque sì, l’Alberto certo che me lo ricordo, e come potrei dimenticarlo. Una vita in bilico come un equilibrista neofita su una ringhiera, sempre a ridosso del pericolo ma anche del rifugiarsi al di qua e salvarsi, se solo avesse voluto. L’Alberto mi ha portato fino a non ricordo dove vicino a Firenze a vedere i New Order nella notte dei tempi, quella volta in cui durante il viaggio di ritorno ho salvato la pelle di entrambi perché ho retto il volante, malgrado non avessi ancora la patente, per un centinaio di metri sulla statale a qualche chilometro da casa. L’Alberto era collassato mentre guidava e non so come ho fatto a portare la macchina al sicuro, in una corsia di sicurezza, e a svegliarlo. Non mi ero accorto durante il concerto di cosa si era fatto, ma è facile intuirlo.

Fatto sta che da lì ha inanellato un curriculum di esperienze tra la vita e la morte mica male, culminato con un tentato suicidio da non credere. Giù dal terzo piano per cadere illeso su un balcone al primo piano, di nuovo in piedi e giù anche dal primo piano sul cortile sottostante. Ma l’Alberto era massiccio come un wrestler, si direbbe oggi, e miracolosamente si è solo spaccato – solo tra virgolette – qualche articolazione, lasciando illesi organi vitali.

A quel punto la psichiatria è entrata pesantemente nella sua vita, con le famose goccine della salvezza, un preparato che ha reso l’Alberto un gigante buono, con una patina di assenza davanti agli occhi e un sorriso copiato da qualche ricordo del suo immaginario interpretabile come “posso manifestare violenza omicida e fare una strage da un momento all’altro”. No, l’Alberto non ne sarebbe stato capace. Quella volta in cui ha scalato la dose di goccine della salvezza, il giorno dopo l’hanno ritrovato addormentato in macchina in un’area di servizio nei pressi di Barcellona. Probabilmente ha guidato tutta la notte per arrivare in un punto non definito della sua testa. Almeno ha avuto l’accortezza di fare una sosta ristoratrice per mettere la sua incolumità al riparo dai colpi di sonno.

L’Alberto mi raccontava della sua infanzia trascorsa molto con i nonni e poco con i genitori. I nonni lo portavano con sé nella loro casa di campagna il giorno dopo la fine della scuola e si prendevano cura di lui per tutta l’estate fino all’ultimo giorno di vacanza, quando tornavano in città e l’Alberto entrava in casa e trovava, sul tavolo del salotto, tutti i libri e i quaderni e gli articoli di cancelleria necessari per l’anno scolastico che sarebbe iniziato il giorno successivo. E, durante i mesi estivi, mamma e papà lo andavano a trovare tutti i fine settimana. Arrivavano il sabato, nel tardo pomeriggio, per ripartire la domenica dopo cena.

L’Alberto aveva l’abitudine di aspettarli seduto in un prato sulla collina su cui si ergeva la casa dei nonni, un punto da cui si poteva vedere la strada comunale che arriva fin lì dalla città. Stava lì in trepida attesa fino a quando vedeva materializzarsi la gigantesca berlina marrone scuro del padre, seduto tra la nonna e il nonno e il cane dei vicini che, quando sentiva che lì da loro c’era qualcuno, misteriosamente si spostava di domicilio. Me lo immagino saltare su in braghe corte e gridare “arrivano!”. Quindi correre verso il cancello della cascina a contare i secondi e i metri che mancano fino a quando sente il rumore dell’auto, l’unico nel silenzio bucolico della sera, e poi abbracciare i genitori una volta e un’altra volta ancora, godersi gli spiccioli di affetto paterno e materno e fare il pieno, per la settimana a venire.

Commovente, vero? Ma non è tutto. L’Alberto, qualche mese fa, un bel sabato mattina sparisce. L’anziana zia che gli fa da tutrice e, perdonate il gioco di parole, gli fa proprio tutto da quando i genitori non ci sono più, si preoccupa – giustamente – e mobilita i colleghi della cooperativa sociale in cui l’Alberto lavora, contatta il nipote e i pochi amici per mettere insieme qualche indizio. La vita dell’Alberto è sicuramente meno turbolenta di un tempo, anzi, è praticamente ridotta a routine tutt’altro che pericolose e tentacolari. Ed è per questo che la sparizione getta un po’ tutti nel panico.

Fino a quando, il giorno dopo che è una domenica, la vecchia zia riceve una chiamata da uno sconosciuto. Si presenta come il proprietario della cascina di campagna che una volta era appartenuta alla famiglia dell’Alberto, già il secondo acquirente dopo che era stata venduta la prima volta, alla morte dei nonni. L’uomo racconta di essere stato svegliato in piena notte dai cani da guardia, di essere uscito e di aver notato un’ombra nel buio, una figura seduta sul prato davanti, al limite dell’erta che scende giù verso il paese. L’Alberto era sveglio e tutto intirizzito, la sigaretta in bocca, e ha chiesto se, malgrado la proprietà privata, poteva rimanere lì fino all’arrivo dei genitori.

chi?

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La mezza età si chiama così probabilmente perché passi metà del tempo a passare in scansione la memoria nella ricerca dell’informazione mancante da usare come complemento oggetto per terminare una frase, ricordarti il titolo del film che volevi consigliare al collega più giovane che ti guarda inarcando il sopracciglio mentre i minuti passano, mettere nella sequenza giusta le cose da fare spostandoti dal punto a al punto b senza dover coprire la distanza più di tre volte, altrimenti il tempo non è ottimizzato e tanto valeva portare a termine ogni compito separatamente, ma in quest’ultimo caso è già un pretendere troppo da quello scontro casuale di componenti cerebrali che un tempo aveva dignità di essere definito sinapsi. L’altra metà del tempo, invece, la passi a giustificarti del fatto che ti sei scordato di qualcosa.

Ma non penso sia questa la causa per la quale non mi ricordo di te. Voglio dire, ho impresso perfettamente nella memoria il mio primo giorno di scuola, so la formazione della Polonia ai mondiali del 74, il numero dei dischi che ho prestato dalla prima superiore in poi e che non mi sono mai stati restituiti, il regalo di compleanno che ho fatto alla prima ragazza di cui mi sono innamorato. Ho ben viva nella memoria la faccia del professore di italiano che mi ha interrogato alla maturità, alcune delle persone che mi hanno scarrozzato in autostop, la coppia di entreneuse che gestivano la latteria sotto casa, la danese in vacanza e il primo datore di lavoro. E soprattutto i musicisti con cui ho condiviso qualcosa. Ma tu, che mi parli da dieci minuti di quando suonavamo insieme, sai che proprio non riesco a collocarti in nessun luogo e in nessun tempo? Ho il vuoto, e un po’ mi vergogno a chiederti chi sei, come ti chiami e che nome aveva il gruppo, perché sarebbe troppo umiliante per entrambi. Dubito che tu sia un mitomane, ma davvero sento che sto per perdere l’orientamento. Metto persino in discussione la timeline della mia vita, tante fitte righe verticali con su l’indicazione crescente dell’anno, eppure non ti vedo in nessun interstizio. Per fortuna mia figlia mi trascina via con forza, non sopporta sprecare tempo con adulti estranei che non la degnano nemmeno di uno sguardo, ma si sa, non a tutti piacciono i bambini. E allora io da una parte e tu dall’altra, ci facciamo ciao con la mano e tu mi rassicuri sul fatto che mi saluterai un generico “gli altri della banda, sai ogni tanto ci vediamo a strimpellare qualcosa!”. Ah perfetto, dai salutameli tutti. Ma tutti chi?

dura lex

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Adoro questa donna. Alta tanto che la si vede anche da lontano, il suo volto che si erge di una spanna, un animale elegante che sovrasta la massa mentre si riversa nel grigio della stazione Cadorna, vomitata da un treno che porta con sé la bruma delle pianure urbanizzate della periferia nord, l’umido che si infiltra nelle giacche autunnali già superflue di impiegati, commesse, manovali, precari e studenti. Conosco poco di lei, frequentatrice quotidiana di vettori ferroviari, lettrice ma, a differenza mia, attenta e pronta nell’osservazione della realtà. È un avvocato, questo lo so, mi è capitato di ascoltare una sua conversazione al telefono. E sembra essere un professionista di quelli che vorresti avere al tuo fianco nel momento del bisogno, un errore giudiziario o un sopruso che grida vendetta.

Adoro il suo incedere con lo sguardo fiero, i passi noti su un territorio che conosce palmo a palmo, il branco intorno che si scansa per non entrare in contatto con la sua traiettoria. Porta uno zainetto per il pc sulla schiena, ed è solita agganciarsi con entrambi i pollici alle spalline. Anche oggi cammina così, come se stesse procedendo lungo un sentiero di montagna in solitudine senza le due ragazzine a pochi passi da lei che, mentre chiacchierano nel loro italiano stentato e discutibile malgrado l’età, alternano sentenze idiote a disgustosi sputi sulla banchina. Forse intendono emulare i loro eroi della domenica sportiva che, sui verdi prati fiorenti di sponsor raccolti per consentirne la trasmissione in diretta sui canali a pagamento, irrorano zolle erbose con fiotti di saliva a intermittenza. Ma qui non siamo in un campo di calcio, non vedete? Ci sono altre persone intorno allo spazio che immeritatamente occupate, decine e decine di vostri simili trascinati da analogo destino verso i tornelli di uscita a conquistare la via verso il quotidiano dovere.

Tanto che uno sputo finisce sulla scarpa di una signora che le sta superando, la cui pelle tradisce inequivocabili origini a sud del mondo. “Ehi, attente!” esclama la vittima, una reazione che non sfugge alla donna che adoro, la quale sembra già prevedere quello che succederà. “Ma sta’ zitta e tornatene in Africa”, risponde la colpevole del misfatto, secernendo una scia di ignorante arroganza. Ed ecco il Gesto, la prontezza che fa la superiorità, la prova del grado evolutivo che impedirà l’estinzione a siffatto genere umano. Con la stessa velocità con cui gli animali catturano la preda con la lingua, diretti all’insetto e rapidi e silenziosi nell’azione vincente, così la donna che adoro sembra fermare il tempo. Quindi sgancia la mano destra dalla spallina dello zaino e scioglie il proprio braccio, un arto lungo e flessuoso, in un movimento potente verso la base della nuca della ragazzina, colpendola pesantemente con il palmo della mano. Tutto questo in meno di un secondo, perché nell’istante immediatamente successivo la ragazzina sbanda in avanti perdendo il cappello e rovesciandosi sopra l’amica, entrambe vacillano ed emettono un gemito di sorpresa mista a dolore, e la donna avvocato ritira a sé il braccio, riponendo mano e pollice nello stesso punto da cui è scoccato il tiro e prosegue il suo passo con immutata eleganza.

Il tutto come se niente fosse, non so nemmeno in quanti ce ne siamo accorti. Le ragazzine maleducate si sono girate, “ehi che cazzo succede?”, la signora africana era troppo distante per essere sospettata del coppino, l’alta vendicatrice troppo regale e composta per essere colpevole di un gesto così basso. Le due tamarre si fermano incredule a raccogliere il cappello, la folla le sommerge incurante. Io ho un sussulto e corro dietro alla donna avvocato che adoro per chiederle un autografo.

cosa c’è di peggio di d&g?

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Le pubblicità di D&G. Via.

as we know it

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Abbiamo superato indenni un altro appuntamento con la fine del mondo, e per ora la nuova deadline rimane ancora quella più celebre, schedulata tra poco più di un anno. E niente, la scena che mi immaginavo, per il day after dell’ultima previsione, è di me sopravvissuto con il portatile sottobraccio che giro tra le macerie alla ricerca di un hotspot ancora attivo e una presa elettrica perché nel frattempo il pc si è scaricato, per mettermi in contatto online i sopravvissuti sul pianeta, e magari per scriverci su un bel post. Ma ci saranno elettricità e connettività dopo la tragedia? Diamoci appuntamento, organizziamo un flash mob, rifondiamo il duepuntozero.