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opere e missioni

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Mi sono spesso chiesto, passando qui davanti, chi potessero essere i fortunati proprietari degli appartamenti di queste abitazioni di Viale Majno a Milano, sul lato destro in direzione Porta Venezia dopo l’incrocio con Via Bellotti. Ora, non saprei definirne lo stile nè l’epoca, a occhio direi liberty e chiedo il vostro aiuto, ma oltre il fascino architettonico, mi ha colpito sin dalla prima volta in cui li ho notati la facciata tutta ricoperta di edera. Comunque, oggi ho notato sul cancello un cartello “vendesi” in cui spicca un logo inconfondibile. Quindi ecco il mio servizio di passaparola. Avete qualche euro che vi avanza? Cercate casa? Il mio consiglio è di acquistare un appartamento di questi, indubbiamente signorile, un immobile che avrà sempre mercato. Per i dettagli, rivolgersi all’attuale proprietario, la Compagnia delle Opere.

l’omonima insalata

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Il Belgio è uno di quei posti che pochi associano a una vacanza, o a un paese in cui trasferirsi. O quelle nazioni che quando pensi all’estero ti vengono in mente. Non so, magari succede solo a me, ma prima di arrivare al Belgio la mia classifica di luoghi del mondo passa in elenco una sfilza di altri stati e città. Complice anche qualche episodio di cronaca che ha alimentato il generatore di luoghi comuni e relative battute sui comportamenti di chi vive lì. Però pensavo proprio questa mattina a una serie di prodotti culturali del Belgio che si posizionano molto bene nelle mie personali categorie di appartenenza, trovo giusto quindi rendere omaggio a una piccola grande civiltà.




piccolezze

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I figli sono quella cosa che quando ce l’hai non faresti altro che stare lì a guardare cosa fanno e a sentire cosa dicono, specie se sei arrivato a un certo punto della vita in cui tutto il resto non sembra più così interessante, tantomeno te stesso. Parlo per me. A maggior ragione quando fai un lavoro poco avvincente, e già buona parte della giornata vola via in modo futile e parlarne anche dopo, magari a cena con gli amici, non ha proprio senso. Io starei tutto il tempo a osservare mia figlia, e cerco di farlo di nascosto, insomma se fossi in lei detesterei il fatto che un genitore non mi toglie gli occhi di dosso. Rubo più momenti che posso, quando per esempio la vedo allontanarsi verso l’ingresso della scuola mentre parla con le amichette. O quando le ascolta e tiene la testa nella postura da attenzione, guardando in basso, e in quel caso vorrei captare qualcosa, sapere che le frulla per il cervello. E se è vero che qualcosa di mio c’è lì dentro, diamine, non si poteva installare anche un trasmettitore su cui sintonizzarsi a proprio piacimento? Già con mia moglie avevamo fantasticato l’integrazione di webcam all’asilo nido, in barba alla privacy degli altri bambini. Ma sono certo che tutti i genitori del mondo occidentale rinuncerebbero alla riservatezza delle immagini dei loro figli pur di collegarsi a proprio piacimento e godersi tutte le porzioni di vita che, ne siamo consapevoli, andranno perdute per sempre per chi in quei momenti non è lì presente. Lo so, dovrei trattenermi, il rischio è di sembrare morboso e di apparire noioso al prossimo. In più non credo sia un rapporto sano, insomma sono realmente convinto che l’indipendenza tra gli essere viventi che sono uniti tra loro dall’affetto sia comunque costruttiva, mentre la sovraesposizione, è noto a tutti, è deleteria. Quindi mi limito a sfruttare i momenti che mi capitano. Prima di svegliarla sto lì a guardarmela un po’, poi a colazione le propongo di leggerle qualcosa, se dopo cena chiede di guardare un cartone mia moglie e io ci mettiamo con lei sul divano, giusto per stare a contatto, e anziché seguire le gesta dell’animale di turno, che tanto oramai conosco a memoria, ogni tanto faccio finta di niente e la osservo di profilo, tutta presa dalla storia, fino a quando mi coglie in flagrante e ridendo mi chiede “che c’è?”, allora rido anche io. Ma forse ha capito, tanto che mi viene in braccio e allora la stringo per fare la scorta di emozioni che consumerò, con enorme parsimonia, quando sarà grande e indipendente e avrà una vita tutta sua.

disco inferno

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Ecco, io l’ade o qualsiasi altra dimensione ultraterrena in cui si scontano gli errori compiuti durante la propria esistenza me lo immagino così, come un eterno pezzo dei Kasabian che un demone armato di frusta e vari attrezzi da tortura mi costringe a suonare senza sosta. Un loop senza fine, sullo stesso ritmo, sempre sullo stesso accordo, ad accompagnare la stessa linea vocale dall’inizio alla fine. Quattro minuti e zero nove secondi in cui non succede assolutamente nulla.

fuocherello

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“Qualcuno prima o poi inizierà a sparare”, con la variante “sarebbe il caso che qualcuno cominciasse a farlo” è un inquietante sfogo che mi è già capitato di sentire qualche volta, negli ultimi mesi e da persone diverse, anche eterogenee tra di loro in quanto a cultura, estrazione sociale, età. Non tante eh, per fortuna, ma un numero sufficiente a formare un piccolo gruppuscolo di guerriglia urbana. La cosa preoccupante è che si tratta di persone adulte, che probabilmente, come me, per motivi anagrafici hanno attraversato da spettatori gli anni della lotta armata. E siccome io ho fatto incubi a non finire, ai tempi, per via dei telegiornali che trasmettevano a non finire le foto o gli identikit dei terroristi, non so se mi piacerebbe ripassare in mezzo agli anni di piombo, questa volta da adulto, e spiegare a mia figlia che cosa sta succedendo intorno a lei e quali possono essere i rischi anche per la gente comune. Infatti è lo sparare nel mucchio che mi atterrisce, ma credo chi sostiene che sia un bene usare le armi per risolvere alcune delle questioni più urgenti intenda, prima, prendere bene la mira. In tal caso, ehm…

chiedo l’aiuto del pubblico

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Fanno tenerezza i cittadini, solo quelli educati però, che si sentono disorientati dalle iniziative organizzate dal Comune. Non sono più abituati agli eventi gratis e per di più privi della star televisiva di turno, il Gabibbo, il vincitore di Amici, il sosia di Celentano o, non saprei cosa è peggio, il raduno delle Ferrari, e chiedono alla responsabile quanto costi un giro sull’asino per il loro figlio. L’evento è molto carino, si chiama Asinovia. Ci sono cinque asini che si muovono lungo un percorso in un parco boschivo, uno dei quali è carico di due gerle piene zeppe di libri per bambini, che fanno a turno sulla groppa. A guidare gli asini c’è un attore che, ogni tanto, ferma la carovana in una radura, mette giù due teli rossi, fa sedere i bambini all’ombra delle querce e legge una storia. I bimbi si sbellicano dalle risate perché l’attore, con un forte accento romagnolo, è proprio simpatico.

Chi ha scoperto l’iniziativa nei giorni scorsi, quelli più attenti a quel poco che il Comune riesce ancora a organizzare con quel minimo di budget che gli resta, non ci ha pensato su due volte a iscriversi. Sta di fatto che i posti disponibili, ventiquattro bambini per ciascuno dei tre giri di un’ora, si sono esauriti praticamente subito. Ma sapete come succede. La comunicazione pubblica è quella che è, alla gente bombardata da informazioni sfuggono i manifesti istituzionali. Non abbiamo tempo di leggere, se leggiamo è facile non capire un linguaggio spesso distante da quello che occupa la pubblicità commerciale, in ogni caso siamo abituati ormai ad avere chi lo fa per noi, alla tv.

Quindi intorno al gazebo informativo al centro del parco in cui era stato organizzato il punto di raccolta e partenza dell’Asinovia, c’è un viavai di famigliole a spasso come ogni domenica, ignare ma incuriosite dall’iniziativa, alle prese con i loro pargoli che premono per saltare in sella agli animali. E come si fa a dire di no ai proprio figli? Si impara: mi dispiace, caro, mamma e papà pensano solo al loro lavoro, non leggono il giornalino del Comune e non badano alle affissioni a meno che non ci siano donne nude o cellulari in offerta.

Poi ci sono quelli che si stupiscono che l’iniziativa sia completamente gratuita, abituati ormai a metter mano al portafogli per qualsiasi cosa. Questo è il Pubblico, signori miei, sarebbe da dir loro. Se tutti noi pagassimo le tasse sarebbe tutto gratis, magari saremmo anche informati meglio perché anche il Comune avrebbe un sistema di comunicazione più efficace e anche più moderno, tramite i social media o una web tv, non so, giusto per fare un esempio.

E, dulcis in fundo, arriva quello che chiede l’eccezione. Si può? No, mi spiace, i posti sono finiti. Ma un bambino in più cosa vi costa, aggiunge lui. Un bambino in più, una richiesta espressa con la mimica tipica dell’aumma aumma di nostra produzione: l’indice destro in verticale con il pollice che lo sorregge, le labbra protese nella pronuncia della vocale U, una posa che ricorda Totò, la faccia nazionale dello “sgamo”, il mento in avanti, gli occhi furbetti da questua. Uno in più, che cosa vi costa? Tanto più che siete nostri dipendenti, sembra dire il Totò con la bambina per mano, che proprio non ne vuole sapere di rinunciare al suo giro in asino. Niente da fare, non c’è proprio spazio e non sarebbe giusto per tutti gli altri genitori a cui è stata data una risposta negativa. Il problema è che di fronte a impiegati pubblici ci sentiamo in diritto di insistere. L’indice resta ancora un po’ lì, ritto, una posa plastica che però non regge. Vieni tesoro, dice quindi alla figlia, proviamo a seguire gli asini, lo chiedo al signore che legge le storie e magari riusciamo a salire lo stesso.

alla fine

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Alla fine la morte è sempre la stessa, se la canti, se la filmi, se la racconti. È quando la vedi addosso agli altri, ma gli altri quelli più stretti, che tutto ti si concentra in un unico groviglio di una materia schifida e indefinibile, te lo ritrovi tra le mani e speri che si consumi da sé, così come si è formato.

per brevità chiamato

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Di fronte a un’intervista a Julian Schnabel trasmessa in tv ci si sofferma anche solo per il piacere di vedere qualcosa di diverso, benché talvolta i set di domande del programma in questione siano un po’ deludenti per chi del personaggio ospite vorrebbe saperne di più. Una leggerezza tutto sommato sostenibile, il pour parler del momento del caffè dopo cena, quando la tv è accesa per caso e ti capita l’occhio lì. Mia figlia mi chiede chi sia, non Fabio Fazio, l’altro. Hai voglia a fare una sintesi di Schnabel. Un regista, un fotografo, un pittore, tante cose tutte insieme, possiamo dire un artista e le risparmio la locuzione a trecentosessantagradi perché per mia figlia è arabo, non ha nemmeno finito le tabelline. Ma vedo che non ha capito e temo la domanda. Papà, mi chiede, ma in realtà questo sgnabel di lavoro cosa fa? L’artista mica è un lavoro. E allora non so che risposta darle. Come non è un lavoro? Ma non si risponde a una domanda con un’altra domanda, tanto meno a un bambino. Mi rendo conto che non ha tutti i torti, però, e che quello che non ha capito sono io.

un velato accento

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Mi ha scritto una amica insegnante di Matematica, una vecchia conoscente che ha voluto mettermi al corrente di una situazione esilarante. Dal 2006, se non erro, è di ruolo in un liceo scientifico e, quest’anno, ha avuto un incarico presso una prima. L’impatto, però, non è stato dei più incoraggianti, non tanto per il materiale umano che le è stato affidato da iniziare alla scuola superiore, quanto da un aspetto marginale, diciamo di folklore, che lei definisce un “segno dei tempi”.

È la prima ora di Matematica del primo giorno di scuola di una prima, il battesimo dei ragazzi nella nuova tappa del loro percorso scolastico, forse la più difficile considerando la maturità emotiva e l’entità del lavoro che i ragazzini si approcciano a svolgere. La prof, che chiamerò Paola, si siede alla cattedra, si presenta, quindi con l’intento di rompere il ghiaccio legge l’elenco dei suoi alunni, fa l’appello, per così dire, tante individualità una via l’altra, scritte in ordine alfabetico sul registro. Un nome, una faccia da memorizzare, una coordinata per localizzarla tra i banchi. Paola mi confessa che ogni volta riuscire a ricordarsi di tutti è un calvario, ques’anno poi la classe in questione raggiunge le trenta unità, la sfida sarà ancora più complessa. La lista scorre fino Colombo (cognome fittizio) Elena (nome vero), che dalla seconda fila alza la mano, sussurra un “presente!” e mentre Paola le sorride, la ragazza molto educatamente le fa notare che “non so come sia scritto sul registro, ma il mio nome in realtà si pronuncia Elèna, e non Èlena“. “Ah Elèna“, risponde sorpresa Paola “che vezzo di originalità”, anche se so che avrà dovuto trattenere un ghigno ironico. Di certo Elèna le è rimasto impresso, non se la dimenticherà facilmente.

L’appello prosegue senza pause sino a Rossi (cognome fittizio) Maria (nome vero), una stanga in ultimo banco, probabilmente una pallavolista, una sportivona, che con una voce decisa interrompe la prof avvisando che “le sembrerà uno scherzo, ma anche il mio nome si pronuncia diversamente, e cioè Mària e non Marìa“. A quel punto la scolaresca scoppia in una risata, Elèna e Mària nella stessa aula sembra davvero una burla di chi ha curato la composizione le classi. “Ammetto di essere arrossita“, scrive Paola, “perché in un certo senso quella risata era rivolta a me, all’istituzione che rappresento, ai processi automatizzati che non tengono conto dell’eccezione umana, quella che fa coesistere nello stesso insieme le uniche due stringhe di testo con l’accento diverso rispetto all’uso comune“. Uso comune, penso io, chi può dirlo: si fa presto ad aggirare la convenzione. Sta di fatto che a questo punto Paola dice di essere terrorizzata da nuove possibili gaffe, continua l’elenco con molta cautela, anche se più di due anomalie sui nomi di trenta alunni sono già tante, troppe. La statistica, lei stessa la insegna, non è così aleatoria.

Invece no, ecco l’ultimo livello, quello che può essere fatale. Paola sa già che il cognome che sta per leggere scatenerà l’esplosione dell’uditorio, ma è consapevole del fatto che non può sottrarvisi. Chissà, quello che le è capitato oggi pregiudicherà tutto l’anno scolastico? “È meglio mettere in pre-allarme i miei colleghi in modo da risparmiare loro la brutta figura, o esporli in eguale modo al ludibrio scolastico, in modo da non diventare lo zimbello del corpo docente”? Ci sono pochi secondi, una pausa prolungata può far diventare quello che sta per succedere ancora più deflagrante, meglio accelerare per sdrammatizzare ciò che i suoi nuovi alunni stanno già subdolando. E l’interessata, in primissima fila nel banco lì davanti, si gode già il suo momento di rivalsa per la prima volta, visto che il suo cognome è stato sempre oggetto di beffe anche pesanti da parte di amici ed ex compagni di classe. “Troia Francesca, ma suppongo si dica Troìa, giusto?“.