stavo ascoltando i Rage Against The Machine quando è rientrata mia figlia dall’allenamento e mi ha chiesto di abbassare il volume

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Stavo ascoltando i Rage Against The Machine quando è rientrata mia figlia dall’allenamento e mi ha chiesto di abbassare il volume. Ma non è solo questo. Giusto due sere fa alla tv passa il video di “Killing in the name of” e lei si mette a fare i versi sulla parte finale in cui Zack spara affanculo quelli che vorrebbero imporsi con la loro volontà. Stai attenta cara che stai scherzando con il fuoco. Sapete, vero, come sono i ragazzini di quell’età che vogliono fare i ribelli nei confronti dei genitori per tutta una serie di ragioni. L’aspetto paradossale è che noi di questa generazione qui ne abbiamo viste abbastanza, di cose trasgressive. Siamo cresciuti prima con i Clash, poi tutto il post-punk negli anni 80, i Nirvana e il grunge, i Radiohead e l’elettronica spinta. Insomma, a noi, voi che avete dodici tredici ma anche sedici o vent’anni, non riuscireste a stupirci nemmeno se vi tatuaste in scala 1 a 1 degli altri lineamenti su tutta la superficie del vostro corpo. Quindi siamo alle solite: per catturare la nostra attenzione volete fare le persone normali? Stupirci con le rime baciate dei vostri rapper mantenuti dai genitori? Ragazzi miei, che cantonata che avete preso. La vostra sfortuna è che la condizione di essere alternativi o, comunque, fuori come dei balconi, ha completato il giro di 360 gradi e ora l’unica strada è quella di ripartire da zero con le cose elementari o per lo meno semplificate. I Fedez e tutta quella gente lì stanno stretti nel loro spazio creativo perché o aspettano che qualcuno faccia piazza pulita o si annienteranno come la materia con l’antimateria. A cancellare tutto ci stanno appunto pensando quelli che rientrano in casa dall’allenamento e ti chiedono di abbassare i Rage Against The Machine perché non è pop. Oggi il pop, che è la vera essenza di questa società liquida, sta diluendo tutto quello che c’era prima, come se si volesse pulire tutte le incrostazioni di roba scomoda, quella difficile da capire e da spiegare. Quindi le chitarre distorte fanno casino e danno fastidio ma è un fastidio diverso di quello provato dai genitori che urlavano ai figli in cameretta di smetterla con tutto quel baccano che fa Tom Morello (il chitarrista dei RATM). Qui è il contrario. I figli che sono diventati adulti e che sparano Tom Morello a manetta, e inverosimilmente il contrappasso peggiore che avrebbero potuto mai subire: i loro figli che crescono assolutamente normali e hanno superato i genitori in regolarità chiudendo i conti con i nonni che si disperavano per i figli punk, grunge o chissà cosa poi cresciuti senza aver invece chiuso i conti con la propria adolescenza e diventati genitori, a loro volta, ma di figli terribilmente pop. Ma c’è un post scriptum: Tom Morello, proprio qualche giorno fa, ha twittato di aver detto ai suoi figli, per la prima volta, di abbassare la musica nella loro cameretta. Mi piacerebbe sapere che cosa stavano ascoltando e se, davvero, si è chiuso un cerchio che è grande non immaginate quanto.

arrivava l’eco di un cinema all’aperto

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Volevo solo dirti che mi dispiace. Se lungo tutto il percorso da un capo all’altro della baia non sono riuscito a dire nemmeno una parola è perché c’era questo animale aggrappato alla gola che strizzava le corde vocali come il panno della sordina del pianoforte ma con più cattiveria. Non ho mai capito perché si dica rompere il ghiaccio quando uno si aspetta che sotto il sole di luglio il ghiaccio si sciolga da sé o grazie a qualche agente naturale. Mi dispiace e nulla mi è venuto in soccorso, pure tu non è che ti sei dimostrata collaborativa se non hai detto una parola quanto me, forse avevi lo stesso animale notoriamente letale in quanto in grado di soffocare gli adolescenti che hanno tanto cose dentro ma che non escono mai. Bastava solo partire con qualsiasi cosa. Chiederti ma poi tutto questo via vai di gente che cammina sul bagnasciuga hai capito a cosa serve? Tutto questo andare e venire dove ci porterà, se ci porterà mai da qualche parte. E alla fine hai capito quante ore occorre attendere prima di fare il bagno? Una, due o quattro? E le vespe che sono carnivore mentre le api sono vegetariane, lo avevi già studiato in scienze? Hai notato quante energie si sprecano da ragazzini per perseguire obiettivi che poi da grandi non servono a nulla? Quanto tempo che si getta nella spazzatura che poi, quando hai cinquant’anni e hai un blog, vorresti indietro ma solo per usarlo davanti? Perché ripristinare l’assetto del quindicenne manco morto, meglio fare il padre di una che lo sta per diventare. Ma bastava anche qualche frase di circostanza, il più o il meno, la musica che ascolti e dove ti portano i tuoi ad agosto. Invece niente, a tre quarti del cammino l’animale oramai mi aveva divorato e di me restava solo il rimorso da consumare nel viaggio di ritorno a casa sull’autobus, un confetto dopo l’altro come quelle caramelle durissime che devi ciucciare a lungo prima di riuscire a masticarle ma che danno dipendenza e prima che te ne accorgi hai già finito la confezione multi-gusto. Mi sarei buttato in acqua volentieri se fossi stato in grado di nuotare e quindi di scegliere volontariamente di affogare anziché subirlo come unica possibilità plausibile. Poi sai che figuraccia il bagnino che ti tira fuori, ti prende a schiaffi per la tua irresponsabilità, per aver messo a repentaglio anche la sua, di vita, che quella di chi sceglie di morire volontariamente chi se ne frega. Mi dispiace, ora te l’ho detto.

agosto 1980

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Ero riuscito a registrare “Sleepwalk” degli Ultravox ascoltando la classifica di una radio locale del basso Piemonte, insieme a cose meno trasgressive come “The shape i’m in” di Jo Jo Zep and the Falcons. La radio portatile con il mangianastri incorporato era una componente fondamentale del mio asset da cui non mi separavo nemmeno in vacanza. La differenza era che molte delle stazioni radio di città che avevo marcato con gli appositi segnalatori di plastica arancione, in dotazione sull’indicatore della modulazione di frequenza, non erano più attendibili nemmeno ruotando la lunga antenna. Ma a parte questo era difficile beccare una canzone da registrare al volo a meno che qualcuno non l’annunciasse con lauto anticipo consentendomi di tenermi pronto. Dedicavo a questa specie di peer to peer ante-litteram quasi tutto il mio tempo libero, figuratevi durante le vacanze estive. Era il periodo delle medie, c’era già il reggae nell’aria e avevo disegnato i contorni dell’Africa su un paio di jeans vecchi – non ricordo se fosse una moda, in caso contrario si metta agli atti che lo facevo solo con l’abbigliamento da battaglia – e avevo completato l’opera con una serie di nomi di band sconosciute ai più che avevo scoperto grazie al fratello di Vincenzo che era una specie di punk, viaggiava all’estero per lavoro e portava al ritorno con sé qualche anticipo delle più moderne tendenze. Così mi sedevo sotto il noce che vegliava sulla mia casa di campagna ad aspettare qualcosa di bello. Ero già solitario allora. Prendevo la bicicletta e pedalavo in lungo e in largo per il paese, se trovavo qualche faccia conosciuta al bar mi fermavo. Altrimenti tornavo a casa per la merenda. In casa c’era sempre qualcosa da fare, come leggere dei vecchi libri di scuola degli anni 50 chissà di chi, pieni di storie dense di morale e insegnamenti superati, volumi dal forte odore di umidità. La donna angelo del focolare. L’uomo la colonna della famiglia. Poi la tv del tardo pomeriggio, i programmi delle 18 che seguivo con il senso di colpa di non essere fuori a giocare, a correre, a stare con gli altri. Un po’ me ne pentivo quando iniziava la stagione delle piogge ed era il momento di tornare in città e a scuola, quando c’era sempre il giorno di autunno in cui scambiavo, la mattina presto, il rumore di un motorino per quello della motosega del falegname che si sentiva giù in valle e che mi dava la sveglia, ogni mattino d’estate.

un post sui poster per i posteri

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Non ho nessun problema a confessarvi che se potessi mi riempirei le pareti di casa e dell’ufficio di grandi foto e manifesti, prima che di quadri, in alcuni casi molto meno costosi. Poster delle mie band preferite, come potrete immaginare, ma anche stampe di arte contemporanea come quella che ho acquistato al Bauhaus Archive di Berlino e che ora è in bella mostra nel salotto di casa mia. Fin qui non ci sarebbe nulla di male se l’autore di questo post sui poster musicali per i posteri non avesse quarantasei anni.

Che volete che vi dica. Ho cominciato presto con uno dei Beatles e la arcinota riproduzione bicromatica del Che su sfondo rosso che va sempre dritto fino alla vittoria, chiedendoli ai miei genitori come regalo in prima o seconda media. Avevo trovato poi un bel manifesto di Bob Marley che imbraccia la sua Gibson nel disco “Live” che avrei acquistato di lì a poco, e insomma in quattro e quattr’otto avevo occupato tutto lo spazio di mia competenza delle pareti che dividevo con mia sorella, più orientata su Miguel Bosè e Baglioni. Nel corso degli anni ovviamente le effigie degli eroi appesi si erano avvicendate con tutta l’invasione post-punk che non sto qui a raccontarvi, alcune addirittura marchiate dal logo di “Ragazza in” da cui non mi sono mai dissociato.

Sta di fatto che, quando sono andato a vivere da solo, i miei non si sono mai preoccupati di smantellare quel sacrario dedicato alla musica new wave, una dimenticanza voluta che mi ha causato non pochi equivoci. Un esempio? Avevo parcheggiato temporaneamente nella mia ex cameretta alcune cose come il mio Mac PowerPC 4400 tra un trasloco e un altro, in pieni anni 90. Ma dovendolo utilizzare per registrare la voce di uno speakeraggio per un cd-rom a cui stavo lavorando, e avendo organizzato direttamente lì la sessione di recording convocando un noto attore di teatro per ragazzi, costui mi umiliò senza ritegno avendo frainteso che quello fosse realmente il mio domicilio. “Ma questa è la cameretta di un adolescente!” mi apostrofò tutto indignato, come se abitassi davvero ancora lì a trent’anni. Vaglielo a dire ai miei, avrei dovuto rispondergli. Ma poiché lo pagavo a tempo non ritenni conveniente intavolare scuse o spiegazioni in orario lavorativo, e l’episodio non ebbe seguito.

Oggi conservo ancora molti manifesti che ho accumulato nel tempo sottraendoli a luoghi pubblici prima o dopo i concerti. Ma, come è facile immaginare, la scala delle priorità esistenziali mette queste futili reliquie di un passato bello che finito all’ultimo posto, ben oltre le cartelline dei disegni dell’asilo nido dei bambini, persino sotto i moduli delle tasse degli ultimi cinque anni, addirittura meno importanti delle varie vestigia iconografiche delle relazioni sentimentali precedenti, per chi non si astiene – come me – dal passarle nel distruggi-documenti insieme ai progetti andati in fumo.

Per dire, ho un paio di poster veramente belli che non stonerebbero in cameretta di mia figlia, se solo avesse gusti musicali un po’ più raffinati di quello che il mercato le impone. Conservo persino il poster maledetto. Lo chiamo io così, ma anche i miei se lo ricordano. Una gigantografia di Bowie che vegliava sui miei sonni di tredicenne e che mi era piombata sulla testa proprio la notte in cui mi ero addormentato terrorizzato da un film di paura di cui non ricordo più nemmeno il titolo, tanto ho cercato di esorcizzare quell’episodio traumatico. Esorcizzare? Vuoi dire che…?

a silvia

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L’amore l’aveva spedita distante fino a servire ai tavoli di una trattoria in una frazione di un comune di un paio di migliaia di anime, quel genere di lontananza dagli affetti dai quali è facile farsi strappare fragili sotto gli impulsi della volontà di abbandono di una solitudine alle spalle, non sapendo quella che ci aspetta davanti. Un genere di distanza che l’aveva persino indotta a suggerire alle sorelle, come regalo comune di Natale per la madre con qualche problema di salute, il Telesalvalavita Beghelli, al telefono e pure con un fare distratto. Un modo tutt’altro che costruttivo di soffiare sul fuoco dell’autostima senile. Di una mamma, poi. Un vero e proprio colpo di testa a cui non avreste mai creduto se aveste assistito come me a quella che sembrava una litigata definitiva, in macchina, con quello che poi le ha chiesto di seguirla così lontano. Vedevo entrambe le teste spostarsi avanti e indietro dal parabrezza come ad annuire per poi negare di nuovo e i sì e i no si sentivano chiaramente perché non si affrontano discussioni con i finestrini abbassati e l’auto parcheggiata in piazzetta. Lei per spiegare meglio le sue ragioni giochicchiava con le dita allargando il buco sul rivestimento del tettuccio che per scherzare gli dicevamo che sembrava uno strappo causato da una tacco femminile. Non c’era stato però nessun sviluppo e nemmeno alcuna decisione era stata presa perché dalla parte del guidatore si era avvicinata nel frattempo un’amica di lui che non aveva capito la tragedia di coppia che si stava consumando, d’altronde non lo vedeva dal giorno della consegna delle tesi e lui non se l’era sentita di liquidare l’incontro con la scusa che non era il momento di interrompere quel che stava accadendo. Nemmeno a farlo apposta, dalla parte del passeggero dove sedeva lei, che poi avrebbe deciso di seguirlo ai confini del mondo conosciuto a cinquanta chilometri, pronta ad accettare anche uno svilente impiego come cameriera, si era avvicinato quel senza dimora fuori di testa che non era difficile trovarselo la mattina sdraiato sui suoi pochi averi nel proprio portone. C’era qualcuno che probabilmente non lo chiudeva bene proprio per dargli la possibilità di trovare un rifugio per la notte. Aveva la faccia più rugosa mai vista, era impressionante,  e trovarselo a pochi centimetri poteva dare fastidio, tanto che lei non sapeva più da che parte voltarsi. Quella che poteva essere una ex del suo ragazzo di là o il matto del quartiere di qua. Io comunque, quando si è avvicinata al tavolo della trattoria a cui sedevo con mio padre quel giorno in cui l’avevo accompagnato al paesello non mi ricordo per cosa, pur sorpreso di vederla lì trafficare con la penna, il bloc notes a quadretti di prima elementare delle ordinazioni e il menu scritto in corsivo dal cuoco su un foglio unto, ho fatto di finta di nulla soprattutto perché mio padre, che usava pranzare lì tutte le volte che trascorreva le giornate a curare l’orto, sembrava avere una discreta confidenza. Non ho fatto a meno di pensare a quando abbiamo salito insieme, non solo io e lei ma eravamo un nutrito gruppetto di ragazzini in vacanza nello stesso posto, quel limitare di gioventù sul quale i poeti un tempo trascuravano carte sudate e cura di sé. Eravamo a ridosso di una casa per farci fagocitare dall’ombra del sole di luglio del primo pomeriggio e c’era tutto un gioco di tredicenni di chi piace a chi, mentre sull’altro lato della piazzetta sotto il portico della cappelletta in disuso c’erano quelli più grandi, in mezzo una ragazza che suonava la chitarra e cantava piuttosto bene Sienteme di Alan Sorrenti. Di qui, dalla nostra parte, invece, mi sembrava soltanto male assortita la coppia, lei che si era messa con un coetaneo che però era ancora incredibilmente bambino mentre lei era già sviluppata, come si dice di fronte a un seno prorompente. Comunque lei, al tavolo, ha notato che ho indugiato ma era solo perché non mi andava di prendere il menu a prezzo fisso, primo e secondo a pranzo li mangio raramente.

il disgelo

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Non ci dimenticheremo mai dell’inverno a cavallo tra l’82 e l’83, sono parole che ci ripetiamo in continuazione guardandoci e sfidandoci a ricordare chi ne ha sofferto di più. È stata una tra le stagioni più sfortunate che ricordiamo, una propaggine dell’autunno che si stava esaurendo e che già di per sé, con i suoi santi e i suoi morti, reca malinconia e poche gioie, giusto la frutta e altri prodotti della natura il cui ciclo volge al termine. I bimbi a scuola consumano i pastelli con i colori delle castagne e delle foglie che stanno per cadere, poi così è facile cancellare tutto con un manto di neve, uno strato di nebbia, qualche cornacchia che si è smarrita senza punti di riferimento e i rami spogli. Ma il tardo autunno e l’inverno tra l’82 e l’83 noi non possiamo dimenticarcelo, perché nel giro di qualche mese ci sono morti tre nonni. E ogni volta in cui ce lo raccontiamo cerchiamo di rimettere insieme tutti i pezzi della storia a partire dalle date certe, perché ormai è difficile tenere a mente pure quelle. Non si sa più su chi fare affidamento perché i vecchi perdono la memoria e confondono anche gli eventi più importanti, i giovani che prima non se ne curavano perché il culto della tradizione non doveva riguardare loro alle prese con la modernità, così, diventati adulti, hanno smarrito le informazioni e a stento possono aiutare i vecchi nella ricostruzione. Nessuno così sa dire con certezza se le sequenza degli avvenimenti sia quella corretta, nessuno ha mai avuto il coraggio di scrivere nero su bianco che cosa sia accaduto veramente, mettendo a rischio il tramandarsi delle vicende di famiglia.

Riusciamo a identificare e a convenire sull’autenticità del 23 novembre 1982 come data della morte della nonna Pina, dopo qualche mese di decorso ospedaliero a causa di un tumore che da una mammella si era diffuso ovunque e degenerato in metastasi. C’è chi sostiene di aver pianto alla notizia che era giunta a notte inoltrata, è molto frequente che chi sta male si spenga alle tre e alle quattro del mattino come se sussistesse un cambio di turno, un interregno in cui non si sa ancora che giorno sarà. Il telefono a rotella con il suo suono che non ricordiamo nemmeno più aveva svegliato tutti, il padre aveva comunicato la cosa e il nipote più giovane si era stretto nelle lenzuola, più spaventato per il modo e il fracasso che per il contenuto della notizia in sé, ed era scoppiato in lacrime, d’altronde aveva quindici anni.

Poi è stata la volta del nonno Pietro che è morto a Santo Stefano, poco più di un mese dopo in cui già era stato difficile tornare alla normalità, con il padre che portava i figli a pranzo in trattoria all’uscita da scuola perché quella nonna appena mancata viveva in casa e si occupava un po’ di tutto. O il funerale in cui fratelli e sorelle si erano tenuti per mano perché quella era in fondo la prima vera prova di dolore da condividere. Il 26 dicembre si era manifestato così il secondo lutto, e la prima impressione fu quella di dover rifare tutto da capo. Il rosario e la camera ardente in casa, con il cadavere nella stanza fredda. Il nonno Pietro era morto di vecchiaia anche se non c’era più con la testa, ogni tanto spariva e lo ritrovavano sull’autobus che tornava nella casa in cui aveva abitato dopo la guerra, molto spesso chiedeva alla nonna Rosina – che sarebbe morta tre mesi dopo di lui – dove si trovavano. Le faccende da sbrigare furono facilitate solo dal fatto che, durante le vacanze natalizie, erano tutti a casa e si potevano dare una mano a vicenda. Il nipote, quello dei quindici anni che per la nonna prima aveva pianto, una volta era rimasto perplesso perché i suoi amici nello spostare un voluminoso amplificatore avevano simulato il trasporto di una bara sulla spalla. Poi si erano resi conto della gaffe e gli avevano chiesto scusa, ma lui aveva colto la correttezza solo dopo ed era rimasto sorpreso perché il dolore che avrebbe dovuto provare gli era stato rammentato da una sciocca gag improvvisata. E forse avrebbe dovuto approfittare di tutta quella attenzione e quella popolarità circoscritta.

La serie negativa continuò quindi a marzo 83 con il decesso della nonna Rosina, e fu un’ingiustizia che in molti non ne soffrirono a sufficienza, come se oramai tutti si fossero abituati a quella conta un po’ macabra, ogni tot se ne va qualcuno ed è così che funzionano le cose dopo una certa età. Ma sotto sotto si sapeva che non poteva essere un ostacolo semplice da superare. Il nipote, che avrebbe compiuto poi i sedici anni poco tempo dopo, era andato in tilt durante l’ora di Inglese, la sua insegnante se n’era accorta e aveva lasciato correre. Gli aveva anche detto che certe fasi della vita sono delicate, e che occorre chiedere aiuto se sembra impossibile darsi una spiegazione alle domande che la vita impone. Lui aveva poi scritto da qualche parte che non era così, nel senso che non sono le fasi della vita ad essere delicate, ma c’è di più. E dandosi una risposta, probabilmente inadeguata alla situazione ma tipica di uno della sua età, aveva impercettibilmente alzato le spalle, come fanno i più piccoli quando non sanno più cosa dire.

simple m

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Ti voglio dedicare un pezzo a dimostrazione del fatto che come vedi non sei stato solo di passaggio nelle nostre vite ma hai rappresentato qualcosa di importante per tutti noi, e non ti meravigliare se considero questo comitato virtuale di attribuzione di onorificenze come un insieme coeso di amici anche se in realtà poi a scrivere è uno solo e chissà dove saranno tutti gli altri, i membri fondatori come me o i soci onorari e quelle persone ex ragazzi e ragazze con cui ci accompagnavamo nella delicata fase in cui abbiamo assistito al reciproco transito. E se voglio dedicarti una delle canzoni che più ci siamo divertiti a interpretare con le nostre azioni quotidiane è perché desidero che tu riceva un premio in prima istanza per come eri – e come immagino tu sia ora -, per la tua sorprendente sensibilità e complessità malgrado fossi stato indirizzato al lavoro dopo la terza media a causa probabilmente della visione di te che avevano i tuoi genitori e chissà cosa e come saresti diventato se avessi avuto l’opportunità come tutti noi di studiare e frequentare un liceo anziché chiuderti adolescente in una officina con uomini adulti e calendari di pin up a seno nudo, la stessa in cui ripari automobili ancora oggi a distanza di trent’anni. Non che tu non svolga una professione nobile, anzi. E a dirla tutta, il fatto che a differenza di tutti noi per te sia stato possibile emanciparti e renderti indipendente con largo anticipo rispetto al resto del gruppo parcheggiato lustri fuori corso all’università è stato fonte di ammirazione e amichevole invidia soprattutto per la collezione di rarità e bootleg che ti potevi permettere.

Una differenza nei percorsi di vita individuali che però tu mettevi sempre alla casella di partenza di ogni confronto in caso di discussione fino a utilizzarla come tasto di trasferimento nell’iperspazio nei momenti più difficili, quelli in cui scomparire dalla vista degli altri si prospettava come la soluzione più adeguata a non dover ammettere una inadeguatezza. E la prima volta in cui avrei voluto dedicarti questo pezzo è stato quando ti ho trovato in lacrime a casa mia, eri corso disperato da me e pur non avendomi trovato avevi atteso ore il mio rientro senza vergognarti di piangere ininterrottamente di fronte a mia madre per un motivo che magari è meglio non ricordare qui, dato che con il metro di giudizio che abbiamo ora che siamo di mezza età cose così sminuirebbero la portata della sofferenza che avevi provato. Ma non solo.

Ripenso a tutto quello che hai scelto di imparare da autodidatta come hai deciso in autonomia di crescere a tuo modo e le manifestazioni concrete della tua verve artistica, quello che scrivevi, quello che dipingevi fino alla passione per la fotografia, non sai quanto stridevano con il congelatore dei tuoi genitori pieno fino all’orlo delle peggiori abitudini alimentari e con le superfici della parte di camera che condividevi con tua sorella colme all’inverosimile e con una precisione maniacale di sopresine degli ovetti Kinder, puffi di tutte le fogge e di impolverati trudy pegni d’amore. E ti chiamavamo Simple Max solo perché possedevi tutto ma proprio tutto dei Simple Minds, non certo perché ti ritenevamo una persona semplice e poco adeguata ai nostri turbamenti emotivi. Così ho pensato di dedicarti un pezzo come si faceva al nostro programma radiofonico preferito, ci si salutava così un tempo e ci si mandava a dire che si era l’uno importante per l’altro.

c’è una perdita

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Le ragazze che piangono in strada con il viso rivolto verso il muro perché il dolore che vuole a tutti i costi uscire fuori ha almeno la delicatezza di lasciare un po’ di volontà per una componente di imbarazzo verso il prossimo, così ci si fa scudo dell’amica che ci consola e non a caso ho usato il femminile perché l’uomo non sarebbe capace di interpretare né il ruolo della sensibilità indotta né quello della sensibilità offerta, non in pubblico ecco. Si soffre nel traffico dell’ora di punta, il vigile che coadiuva il meccanico alternarsi di segnali luminosi del semaforo, le bici arroganti sui marciapiedi per evitare le auto arroganti in strada. Intorno centinaia di vite che fanno a tempo solo a lasciare poco di sé, un istante di un percorso abituale o casuale da cui lanciare uno sguardo di compassione a chi la vita l’ha messa in sosta lì, i singhiozzi di schiena che hanno lo stesso significato delle quattro frecce nella corsia di emergenza: abbiamo un problema, ma non fermatevi nemmeno un secondo, ho già il mio carro attrezzi. Dietro l’angolo, così almeno si sfugge dal resto del gruppo che stanzia all’ingresso del liceo e con cui sarà necessario trascorrere il resto di una giornata che già è partita in salita, nemmeno un appiglio per drenare quella spremuta di ansia adolescenziale e indossare la maschera della neutralità quotidiana indispensabile a passare inosservata con i compagni di banco e con il professore della prima ora che noterà quelle chiazze rosse sul volto. Ma sono cose che capitano, nessuno ci fa caso se non noi che fuggiremmo piuttosto che ammettere un turbamento. E chi si ricorda più come funziona, se chi consola poi alla fine ha la meglio e tutto torna come prima o se si fa marcia indietro, si imbocca una strada a caso e si torna nella solitudine che nessuno aveva messo in programma, in un giorno feriale, con un vestito scelto a caso.

dietro le quinte

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C’è una scuola che non ho mai dimenticato. È il liceo da cui mi sono ritirato a metà anno scolastico in terza, dopo aver prolungato a sproposito l’agonia della scuola superiore sbagliata, un decorso che solo un’eccessiva indulgenza verso me stesso mi ha impedito di riconoscere prima e che solo alla prima occasione che ha trasformato il fastidio in insofferenza mi ha fatto esplodere, un po’ come la mentina del signor Creosote. Colpa di genitori poco pronti a prendere le misure delle nuove complessità? Vi saprò dire quando mia figlia avrà 15 anni. Di certo si tratta di un punto centrale della mia vita se ancora oggi ho gli incubi di quella maturità mai data, e poi mi sveglio in stato di agitazione e mi ricordo di aver terminato gli studi già da un pezzo. Tsk.

Ma, se devo dire la verità, non ho mai dimenticato quella scuola per un altro motivo. In quella stessa scuola, più precisamente in segreteria, ha lavorato mia mamma per trentacinque anni. È entrata nel 65, quindi abbondantemente prima dell’office automation. Anzi, mia mamma ha messo le mani su un videoterminale solo alla fine della sua carriera. Prima ci sono stati almeno due decenni di macchine da scrivere e di registri e cartelloni con i risultati compilati a mano. Tanto che sapeva a memoria nomi e cognomi delle migliaia di studenti passati da quella scuola, e ancora adesso, a chi le si presenta, è in grado di dire se ha fatto il liceo, in alcuni casi addirittura in quali anni. Per non parlare di professori e personale non docente.

Per farla breve, capitava che mia mamma mi portasse con sé al lavoro quando aveva i rientri pomeridiani, ero piccolo o anche no, ma non era possibile lasciarmi solo in casa. Per me era una vera e propria festa, in tutti i casi. Se quel pomeriggio c’erano lezioni, o prof in giro o bidelli, stavo in una delle scrivanie del suo ufficio a fare i compiti, a giocare con la macchina da scrivere elettrica, a stampare timbri della provincia o datari su fogli. Quando non mi vedeva, tentavo di sbirciare negli archivi, guardando a caso documenti riservati, pagelle, compiti in classe, anche se per me era tutto arabo. Poi i suoi colleghi mi tenevano compagnia, fino a quando mia mamma prendeva il cartellino, timbrava e mi riaccompagnava a casa.

Anni dopo costruirono un’ala nuova di quel liceo, con un bellissima palestra nuova di zecca. Io ero appena approdato alle scuole medie e avevo iniziato a giocare a basket. Il bidello assegnato alla palestra era molto in confidenza con mia mamma, quindi i pomeriggi al liceo cambiarono completamente fisionomia. Mi portavo il mio pallone, il bidello mi apriva la palestra bella pulita e, a patto che indossassi scarpe adatte, potevo stare lì anche tutto il pomeriggio, ad allenarmi e fare tiri a canestro. Malgrado ciò non sono mai diventato bravo, ma vi assicuro che mi sono divertito davvero un sacco.

Passata la stagione della pallacanestro, in terza media o giù di lì, si presentò il problema di scegliere la scuola a cui iscrivermi. Il mio migliore amico aveva intenzione di andare al classico e io volevo seguirlo. Poi però non so come è andata, sta di fatto che commisi l’errore e scelsi lo scientifico. E la cosa ridicola è che anche il mio migliore amico decise di seguirmi di là, e anche per lui non fu così semplice arrivare fino in quinta. Ma questo è un altro post. Sta di fatto che nei mesi che precedettero l’inizio delle scuole superiori, presi ad accompagnare mia mamma, non appena potevo, al lavoro. Lei si metteva come al solito alla sua scrivania, e io partivo nei miei tour di esplorazione lungo quella enorme scuola da solo. Volevo domare il drago, mi dicevo, farlo finché fosse appisolato prima del grande risveglio, con tutti quei minuscoli bipedi che gli avrebbero fatto il solletico entrando nella sua capiente pancia molle. Dovevo conoscere il nemico, arrivare preparato all’impatto con la vita da adulto, partire con un vantaggio che mi facesse percepire come meno imbranato. Se hai il controllo logistico hai il potere, no? Così salivo e scendevo per i tre piani, entravo nelle classi, leggevo le sconcezze scritte sotto i banchi, sentivo gli odori degli arredi e qualche aura di presenza umana rimasta chissà perché. Scrivevo titoli di canzoni sulle lavagne (poi li cancellavo, eh), sbirciavo nel laboratorio di lingue i titoli dei dischi delle lezioni di inglese e francese. Mi sedevo nelle aule vuote a osservare la cattedra, nel silenzio più assoluto, qualche clacson ma poca roba, fuori le giornate già corte, e pensavo a quello che sarebbe stato di me, da lì a poco.

compagni che sbagliano

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Parlare dei propri figli, parlarne male, è pressoché impossibile. Anche solo pensarne male, a meno di essere padre di Giusva Fioravanti. E forse nemmeno in quel caso. Chissà come si affronta un dramma di quella portata, da genitore con appena 7 anni di esperienza non voglio nemmeno pensarci. Su tutt’altro livello di drammi familiari, è stato illuminante invece scambiare qualche impressione con A. M., una delle clienti (mi spiace definirla così) con cui sono più in confidenza. Diciamo allora una amica con cui ho anche rapporti di lavoro.

A. M. ha un figlio di 16 anni, un’impresa da affrontare quotidianamente già di per sé, una occupazione a tempo pieno dalla quale non si hanno vacanze, giorni festivi o permessi. Non puoi darti malato. Figuriamoci non esserne sufficientemente all’altezza. E quella che mi ha raccontato sembra una storia di altri tempi. “P. è un ragazzo un po’ particolare, non lo dico perché è mio figlio. In piena fase di ribellione, ma con quella componente di ipersensibilità che lo mette a rischio di tutto“. È un po’ di anni che non lo vedo.  E anche solo qualche mese, a quindici o sedici anni, lo sapete meglio di me, sono interi stadi compiuti e archiviati. Lo ricordo un po’ chiuso, permaloso, facile alle lacrime. Un po’ sfigato, se vogliamo. Ma A. M. sostiene che P. abbia colmato le mancanze della sua personalità in fieri con elementi di originalità, talvolta un po’ forzati ma perdonabili, in un adolescente. Per quanto poi possa essere provocatoria l’originalità del 2011… oops, mi è scappato..

P. si atteggia molto a strano tendente al depresso, inizia a polemizzare inutilmente con gli insegnanti, è in una sezione del suo liceo piuttosto difficile. I compagni, poi, di certo non alleggeriscono la situazione. Da parte sua non va benissimo, qualche insufficienza, in generale cazzeggia alla grande e non riesco a capire da dove derivi il suo disagio“. A. M., da persona intelligente qual è, è consapevole perfettamente che alla base del problema ci siano lei, suo marito e l’ambiente in cui P. è cresciuto, un sistema educativo di base inadatto ad affrontare le complessità a cui sono soggetti i giovani come P., in maniera adeguata. Apprezzo però il fatto che né A. M. né suo marito addossino le responsabilità di questo genere di debacle alla scuola.

Quello che però più sconvolge A. M. è quanto è successo un paio di settimane fa. P. ha manifestato il desiderio di lasciare gli studi, cambiare scuola per lo meno. Questo atteggiamento ha accresciuto la sua popolarità in classe, che sta idealizzando in lui una parte del desiderio di anticonformismo addormentato e messo a tacere dalle rispettive famiglie. G. né è il l’esempio più eclatante.

G. è uno dei compagni di classe con cui P. è più in sintonia. Serio, bravissimo a scuola, molto intelligente, idolatrato da tutti. L’eroe vestito di bianco. G. deve aver palesato l’ammirazione per il modello negativo (rispetto a canoni da libro cuore, sia chiaro) che P. rappresenta. Il che è paradossale, perché A. M. mi ha assicurato che è l’esatto contrario: “è P. ad avere come modello positivo G., un ragazzo dotato di numerose qualità che P. tenta di emulare“. Ma la famiglia di G. si è prontamente messa in allarme.

Non puoi immaginare con quale stato d’animo ho ascoltato la preghiera di T., la mamma di G. Mi ha chiamato chiedendomi se potevamo incontrarci. Non avevo lontanamente immaginato l’argomento e gli obiettivi dell’incontro“. T. ha esplicitato senza mezzi termini alla mamma di P. che non gradisce che i due ragazzi si frequentino, non vuole che si vedano fuori dalla scuola, che trascorrano il tempo libero insieme. Che si scambino musica o impressioni su film e libri. Tutto questo a 16 anni, non stiamo parlando di ragazzini delle medie. Sorpresi? “I due ragazzi sono amici, ma non sono i rispettivi migliori amici l’uno dell’altro. P. frequenta da qualche tempo un gruppo di ragazzi del quartiere, piuttosto diversi da quello che T. ha pianificato per suo figlio, cosa che penso anche io. Non credo sia un problema la separazione forzata dei due. Non so se G. sappia quello che ha in testa sua madre, se sia al corrente di tutto ciò. Mi chiedo come affrontare la cosa con P., è di lui che mi preoccupo“.

Le ho chiesto però, da madre, come l’ha presa. “A freddo, ora sono più esterrefatta rispetto alla prima reazione che ho avuto. Subito ho pensato che fosse giusto così, che per il bene di mio figlio forse avrei fatto lo stesso anche io. Poi mi sono chiesta che tipo di danno P. avrebbe potuto recare a G. Voglio dire: non hai dato a tuo figlio gli strumenti per difenderti da un modello umano che al massimo potrebbe convincerti ad ascoltare gruppi da depressi o a farti crescere i capelli? Questa madre non è in grado di educare alla sicurezza di sé un ragazzo adolescente se non spintonando fuori dal suo cammino aureo qualsiasi lieve incongruenza di percorso?“.

Ora A. M. non sa però quale tattica adottare con il povero P., che già è abbastanza confuso, figuriamoci se viene a sapere che sta per trasformarsi in un eroe maledetto. Lato mio, invece, ho riflettutto su come far finire la storia. Cosa succederà tra P. e G.

P. probabilmente non si accorgerà delle pressioni dei suoi genitori per raffreddare il suo rapporto con G., ma pian piano i due ragazzi si separeranno. Sicuramente prenderanno strade diverse, d’altronde sono già ora così differenti. Secondo me è stato persino superfluo forzarne l’allontanamento, a meno che per G. l’attrazione per P. fosse più radicata. Magari, tra qualche anno, una casualità li rimetterà in contatto. Sono aperte le scommesse su chi dei due avrà sentito di più la mancanza dell’altro.