chi si accontenta, punto

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Una degli accostamenti che trovo più scabrosi e allarmanti è quello dei poveri che stanziano poco oltre gli ingressi dei negozi che più sfacciatamente conferiscono l’illusione che anche quei poveri lì che stanno fuori possono sembrare meno poveri sfoggiando le cose in vendita nei negozi davanti ai quali stanziano. Che basta un tocco del piazza italia o del nero giardini di turno per togliere quella patina di miseria che sovente è puramente intellettuale, giacché se fosse solo assenza di mezzi quei poveri non stanzierebbero davanti ai negozi che non si possono permettere anche per poco e meno male, perché quando ci riescono sembrano ancora più poveri e il corto circuito di deprivazione è deflagrante. Spero insomma che mi abbiate seguito. Si tratta di una mia paura che devo aver scritto almeno una decina di volte e soprattutto quando c’è aria di Natale, di saldi, di shopping e di grandi compere e nell’occasione di quelle due o tre volte l’anno in cui mi capita di deambulare urtato dalla folla nella confusione di un sabato pomeriggio in Corso Buenos Aires soprattutto dopo una visita in un posto di una bellezza quasi irritante come la villa Necchi Campiglio, così platealmente di classe che ti fa riflettere sulla differenza tra i ricchi e di una volta che si riempivano le pareti di Sironi e di Casorati rispetto agli arricchiti di oggi che insomma, lo sapete bene come sono conciati in quanto a gusti e interessi, pensate a gente come Confalonieri o Emanuele Filiberto.

Ora i poveri che si incontrano all’ingresso dello store della Nike e stanno lì, quasi come se un po’ della fortuna di un brand di successo potesse irradiarli anche solo con l’illuminazione sovradimensionata del negozio, mi fanno venire in mente quel gruppetto di sfigati di periferia che potreste incontrare qui dietro casa mia, in un parcheggio nascosto antistante una filiale di un’azienda che produce vernici. Sicuramente vedersi lì ti consente di rollare canne in tranquillità, altrimenti non si spiegherebbe il perché gente di meno di vent’anni con tutta la vita e il futuro davanti dovrebbe accontentarsi di un posto così, che è vero che Milano non è Berlino ma dico prendetevi un treno e andate lì nei pressi della villa Necchi Campiglio, almeno si vede qualcosa di esteticamente gradevole e il vostro gusto può trarne giovamento.

Ma dev’essere che le cose simili si attraggono, non vedo altre spiegazioni. Io che sono uno discretamente alto ogni volta che sono a un concerto mi si piazza qualche gigantone sull’uno e novanta proprio nella linea visiva tra me e il cantante. Mi capita anche al cinema. Ci dev’essere quindi una specie di magnetismo che raggruppa gli elementi con lo stesso comune denominatore, per cui se cresci in una casa in cui ti servono i cibi industriali nelle confezioni in cui i tuoi genitori te li comprano al discount e per chiederti se vuoi una cioccolata calda dicono “ti preparo un ciobar?”, quando cresci non fai più caso all’estetica in genere, tanto meno agli innesti del post-moderno sul tessuto razionalista e del novecento architettonico che in Italia è un po’ il nostro forte, specialmente in città come Milano, e anzi l’insegna della Wind accesa a colori sguaiati su un edificio anni 30 ti conferisce la sicurezza di rivedere cose che poi ritrovi alla tv grazie al panariello di turno. Anzi, a dir la verità non fai più caso a niente e finirai a “uscire” maglioni made in China su richiesta per dieci ore al giorno e a riassettare loculi di prova liberandoli di tonnellate di acrilico, provate e abbandonate dall’utenza oversize e sudaticcia consumata dalla vita usa e getta che frequenta il negozio in cui eserciterai come commessa precaria, il tutto per non aver avuto un’ambizione diversa che incontrarti con altri perdigiorno dietro casa mia.

Così potrei scendere in strada in questo momento, anche solo per distrarmi da quel bambino che si sta esercitando al flauto dolce suonando Fra Martino campanaro in fa ma con il si naturale, e chiedere alla compagnia di figli di poveri tutta presa nell’accoppiarsi il più felicemente possibile che si riunisce qui nel parcheggio davanti all’azienda di vernici, come avrei potuto chiedere ai poveri di altri paesi che osservavo far finta di non fare caso alla moltitudine di colori delle Nike dietro la vetrina alle loro spalle, quali non-programmi abbiano/avessero per il futuro. E sono certo che nessuno mi dirà che spera di diventare un esperto di qualcosa, di qualunque cosa. Perché la deprivazione generata dal temporaneo e illusorio appagamento è diventata lo specifico del nostro tempo. La vita in HD ha reso l’uomo dipendente da un’immobilità perenne dalla quale non è possibile fuggire nemmeno di un metro, nemmeno per attraversare la strada se qualcuno ci chiama fuori offrendoci una possibilità.

essere nel posto a fianco di quello giusto, al momento giusto

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Il mio amico C. ha la sfortuna di essere continuamente lambito ma mai investito dalla fortuna, sempre che quello che sto per raccontarvi possa essere considerato una fortuna. Un po’ come avere il biglietto della lotteria con il numero successivo o precedente a quello estratto? Non vorrei esagerare, anche se qui si parla di successo, di occasioni che solo un pizzico di buona sorte su un piatto di studio, impegno, costanza, fascino, ambizione, pubbliche relazioni, doti, dedizione e volontà permette di centrare.

Ma torniamo a C. Credo sia fin dai tempi delle medie che vive a contatto con le celebrità, di quartiere e locali all’inizio, nazionali e da prime time televisivo crescendo, senza che l’aura della fama e, conseguentemente, della ricchezza che ne deriva lo lambisca. Non ci credete? “Alle medie, il mio compagno di banco, S., era un campioncino della locale squadra di pallanuoto“. Io e C. veniamo da una cittadina di mare, in cui la pallanuoto è uno sport seguito quasi come il calcio. Ovvero, i pallanuotisti entravano gratis nelle discoteche, erano ambiti dalle starlette di provincia che si distinguevano hostess alla fiera di primavera (laggiù chiamata con un altisonante “expo”, niente di più che una mostra mercato con lo stand del folletto e della concessionaria opel) e giravano con i macchinoni (ai tempi era la Volvo 480, ve la ricordate?). Ora è un po’ che manco da lì, non so se la situazione sia differente. Ma ai tempi, era più o meno così. “A 16 anni S. era già in prima squadra e in nazionale, per strada lo additavano e salutavano. E i suoi genitori, ai suoi fianchi come guardie del corpo, già pregustavano il terno al lotto. Non lo invidiavo, non c’era rivalità perché di base non avrei potuto mai essere come lui. Non c’era storia: lo sport non era proprio il mio campo. Ma, come un allocco attirato dalle insegne luminose, speravo solo che qualche scintilla della sua popolarità si sprigionasse indelebilmente sul mio loden verde, per godere della carica di migliore amico, quindi, anche se di luce riflessa, anche io un po’ speciale“.

Fin qui, niente che non si sia mai sentito. Chi non è mai stato tentato di venerare un amico di successo, in modo interessato o disinteressato? “Al liceo il mio destino trova la conferma nei fatti, si gettano le basi per un futuro tutto da rosicare. In classe ho A., bello, intelligente e ricco, i cui voti alti sono solo il preambolo della sua jeunesse dorée. Il 60 alla maturità gli apre la strada per l’Università fuori sede, si trasferisce nella metropoli dove si apre una fase piena di contatti con il jet set e di esperienze interessanti, fino a farlo diventare uno scrittore e critico letterario autorevole“. E, ancora una volta, C. sta a guardare. “Non solo. A. ha un amico batterista, uno che passa le giornate a studiare musica come un forsennato. Altro che pac man e spuma al cedro al bar dell’angolo. Anche lui si trasferisce, e dopo qualche anno di gavetta lo vedo dietro ai tamburi di uno dei più importanti cantautori nazionali“. Già: vivere nel mondo dello spettacolo da comparsa non è il massimo, e per C., musicista come me, la sofferenza ti logora da dentro e assume la forma dell’invidia.

Quindi, ricapitolando. Un campione dello sport, uno scrittore, uno dei più dotati batteristi italiani. Manca la TV? State a sentire. “Quando organizzavamo i concerti, chiamavamo spesso F. a intrattenere il pubblico tra l’esibizione di un gruppo e quella successiva“. Me lo ricordo anche io: F. era un bravo imitatore, un po’ sfigato nel look ma tutto sommato divertente. “Beh, qualche anno dopo lo vedo alla RAI a presentare un programma musicale, e, 25 anni dopo mai avrei pensato di vederlo nei panni del maestro di cerimonie in uno dei più seguiti programmi della tv pubblica“.

Ci sono infine, nella vita di C., alcune fugaci apparizioni, frequentazioni casuali, semplici conoscenze tutte rigorosamente mai coltivate che gli permettono ora di fare bella figura, quando dice “Io la conosco, era la fidanzata di un mio caro amico” oppure “Maddai, condividevamo la sala prove “. C. si riferisce alla blogger di grido che scrive programmi di informazione, alla corrispondente da New York, al giornalista purtroppo scomparso in un paese in guerra, al manager di un cantante-simbolo del movimento noglobal, alla sceneggiatrice del più importante regista cinematografico italiano e al comandante di una pattuglia aeronanutica di volo acrobatico.

Ho provato a frequentare C. più da vicino, credo anche di avere un ottimo rapporto con lui e di essere abbastanza in sintonia. Ma a me, ad oggi, non è toccato nulla.