in via tarchetti

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Non è vero che la sua visita fosse inaspettata perché circolava la voce che prima o poi avrebbe fatto un salto, ma nessuno pensava che si potesse presentare senza nemmeno avvertire, per una serie di motivi che è quasi ovvio ricordare. Intanto il capo avrebbe potuto non essere in ufficio ad accoglierla, con tutti i suoi impegni, le visite ai clienti, le sue fanfaronate commerciali. E poi non è che si trattasse di una formalità, un semplice faccio un salto un giorno di questi, tutti noi dovevamo prepararci con un po’ di anticipo, e a dirla tutta io quel giorno avrei scelto di stare a casa, darmi malato, perché poteva trattarsi di un’esperienza troppo forte per il mio carattere sensibile, visto tutto quello che era successo. Ma è finita che andata proprio così.

Un bel giorno, era metà mattina ed eravamo tutti già infognati nella nostra palude di produttività cieca, quella a cui ti dedichi con la fretta dell’esperienza per rispettare le scadenze quando sei in un’azienda sotto di organico e in sovraproduzione. Quel bel giorno, a metà mattina, è sceso il custode autista tuttofare dicendo che era arrivata la mamma di Raffaele per vedere dove lavorava suo figlio e per raccogliere le sue cose personali. Raffaele era stato vittima di un incidente assurdo qualche settimana prima. Aveva messo a punto una tavola da snowboard dipinta con le sue mani – Raffaele era un illustratore molto bravo – ed era andato in gita sulla neve con qualche amico, la sua ragazza, un weekend come tanti altri, durante il quale si è lanciato non ho capito bene dove e non ho capito dopo essersi calato cosa, ed è finito in un burrone, è cascato già da un dirupo, ha chiuso la sua discesa con la tavola nuova di pacca nel peggiore dei modi.

Raffaele occupava, con il Mac gigantesco che l’agenzia gli aveva messo a disposizione, gran parte del tavolo che dividevamo svariate ore la settimana, aveva almeno quindici anni meno di me e, malgrado ciò, sembrava un tipo in gamba. Il suo curriculum iniziava con una frase tipo “Il curriculum di Raffaele Xxxxxx. Mica cazzi.” che mi aveva fatto ridere. Nessuno in ufficio si ricordava come si fosse lasciato con lui il venerdì pomeriggio prima del fine-settimana che gli è stato fatale, perché nella memoria collettiva prevaleva il ricordo della chiamata che uno dei soci dell’agenzia aveva ricevuto il lunedì successivo. Raffaele era morto. Quella mattina mi ero sentito in dovere di avvisare i colleghi più giovani man mano che arrivavano al lavoro, come se essere un po’ più grande mi conferisse l’autorità di dare brutte notizie con l’atteggiamento paternale. Ma non ero un annunciatore di tragedie affidabile, così dopo una o due volte avevo desistito.

Ci ricordavamo poi del funerale a cui avevamo partecipato tutti, in cinque in una utilitaria e la collega che in autostrada gettava fazzoletti di carta madidi di lacrime e muco dal finestrino e io che pensavo che il dolore comunque non dovrebbe giustificare atti irrazionali a discapito della collettività e dell’ambiente. E anche in quell’occasione, in maniera molto delicata, avevo fatto notare l’inopportunità di quel gesto, nessun amante della natura vivo o morto lo avrebbe approvato. Ma, giustamente, nessuno mi aveva preso sul serio e, per stemperare la mia pignoleria fuori luogo, avevo chiuso la parentesi di educazione civica con una battuta, come se quello che avevo detto si trattasse di uno scherzo.

Quando la madre di Raffaele si è presentata, sentendo che il momento che tutti scongiuravamo era arrivato, mi sono subito tirato indietro da fare le veci per gli onori di casa. Nessuno dei soci era presente, e il custode autista tuttofare si era rivolto a me come se io fossi il più alto in grado, come si fa in caserma. Ma non c’è nemmeno stato il tempo di elaborare una strategia di fuga. La mamma di Raffaele, visibilmente provata, ha chiesto però come prima cosa chi fosse di noi il collega ligure di suo figlio, il che ha complicato tutto. Si riferiva al sottoscritto, uno che non se la cava molto bene con la morte altrui. Ma non nego il piacere che ho provato quando mi ha messo al corrente del modo in cui Raffaele gli aveva parlato di me. Non sapevo però che cosa le avrebbe fatto piacere sentirsi dire. Mi sono limitato a svelarle che mi ero permesso di prendere dal suo portapenne una matita molto bella, che Raffaele usava per fare gli schizzi sul blocco. Una specie di ricordo, certo che non se l’avesse a male.

Aveva lasciato fuori da la porta un gruppetto di amici del figlio, con cui aveva organizzato quella specie di tour della memoria lungo i luoghi del ragazzo, i quali però non avevano avuto il coraggio di scendere, o forse non volevano disturbare noi che eravamo lì a lavorare o il dolore privato della mamma. Ci tenne a sottolineare quel dettaglio, perché aveva inteso quel momento come un workshop volto a edificare una idea comune di Raffaele a cui fare ricorso in futuro, in modo che ci fosse una sorta di uniformità di quello che era il ragazzo, una centralizzazione dei ricordi da usare come unico riferimento.

La donna non esitò a lasciarmi la sua e-mail e il suo numero di telefono per contribuire all’opera con aneddoti, impressioni, materiale, frammenti di vita quotidiana. Si stupì però quando le confessai di non conoscere il suo nome. “Possibile che non ti abbia mai parlato di me e non ti abbia mai detto come mi chiamo?”. La risposta era difficilissima. Perché la verità era no, ma mi accorgevo che non avrei voluto deluderla. Non ricordavo però alcun dettaglio della vita privata del collega che mi fosse stato rivelato, senza contare che lavoravamo insieme da poco più di un semestre e le occasioni di confronti, al di là dei progetti che seguivamo e delle cazzate che si dicono in ufficio, erano rarissime. Lei colse al volo la mia esitazione e mi scrisse i suoi dati, aggiungendo che un nome e cognome così erano difficili da dimenticare. E non aveva tutti i torti. Aver abbinato un nome di battesimo così contestuale al cognome sembrava uno scherzo di una coppia di genitori burloni, quelli che vogliono fare i simpatici con la vita sociale dei propri bambini. Solo quando se ne andò pensai a quanto l’avessi trovata attraente, avrà avuto cinque o sei anni più di me e mi era sembrata davvero bella. A quanto mi bruciasse quel foglietto con i suoi recapiti in mano per quello che stavo pensando, a quanto fosse fuori luogo quella sensazione che il suo fascino mi aveva indotto.

se l’importante è stare insieme

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L’amore non è stare ore a guardarsi mentre una registra il nero di suo papà che già, con tutti i soldi che gli rimangono da quello che evade, un commercialista esperto in malaffare potrebbe anche permetterselo, e l’altro sta lì a fare niente perché non ha nemmeno con sé il suo romanzo da portare a termine e in casa di lei non c’è nemmeno un fumetto del fratellino che ormai fa il liceo e a Dylan Dog preferisce Youporn. Come biasimarlo. Ma proprio il portatile famigliare è occupato da due o tre fogli di calcolo con le celle e le colonne che trasudano reato dai bordi e gli spiccioli che si arrotondano sullo sfondo della casella a formare un torbido acquitrino grigio che, peraltro, ne complica la lettura. Sì, uno potrebbe guardare la tv, ma come la mettiamo se non ci è più abituato e qualche minuto di Sky HD a millemila pollici con un surround che nemmeno al multisala fa già venire la nausea, come se si dovesse sempre circolare in macchina al massimo della potenza del proprio veicolo e alla più alta velocità possibile, un continuo accelera e frena e accelera e frena con l’auto davanti che sai a memoria la targa e meglio così, perché leggere in viaggio fa venire da vomitare. L’amore quindi non è nemmeno pretendere che l’altro stia lì, a bearsi dell’aurea altrui come se ci si fosse fidanzati con un taumaturgo, che poi non so se si possa mettere al femminile perché taumaturga non l’ho mai sentito ma non sono certo un depositario enciclopedico. Anzi. Ci sono quelli che vivono in caseggiati con tanto di custodi o portinai, figure che quasi appartengono alla mitologia delle classi più abbienti con il loro accento meridionale o i loro cruciverba completati a cazzo, che sarebbe bello davvero fare un tumblr o uno di quei collettori che usano adesso pieno di soluzioni inventate per non lasciare nemmeno un riquadro vuoto. No perché se c’è il custode o portinaio si potrebbe scendere giù a fare quattro chiacchiere, che loro sanno tutto di tutti, distrarli un po’ dal lavare le scale o da cucinare cibi ad alto tasso di asocialità in orari in cui uno a malapena berrebbe un caffè. Ma niente, quando non si può nemmeno veder le foto del matrimonio dei potenziali suoceri, separati che ormai nessuno si ricorda più di una vita passata, bisogna comprenderlo e lasciarsi andare, se non lasciarsi del tutto. Quando i presagi della disponibilità altrui nel futuro sono più che evidenti, tanto vale organizzarsi, portarsi sempre dietro qualcosa da fare, fare altro tout court.

guida facilitata all’ascolto di quello che si ha dentro

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Mi trovo per puro caso a pranzo con un duo di quelli che vorrebbero essere uno di quei gruppi eterei che negli anni 80 incidevano per la 4AD, con le voci femminili rese oniriche da tonnellate di mandate di effetti e sotto pure, chorus e riverberi a confondere la scarsa dimestichezza con gli strumenti musicali. Lei che sfoggia un caschetto liscissimo che arriva poco sotto il mento, bianca come un cadavere e poco meno che vegana. Lui con la barba curata e il dolcevita scuro e si vede che lui vorrebbe essere molto più intimo con lei che solo accompagnarla mentre canta, laddove è solitamente così, una legge da che mondo è mondo: dietro a una grande vocalist c’è sempre un grande strumentista illuso e destinato a perderla. Fermo restando che la loro simpatia è pari al cadavere di grillo che ho appena trovato nei vegetali di cui è farcita la piadina, il che comunque ne attesta la provenienza da orti veri e non immaginari, in questo momento stanno fornendo ai commensali lezioni di teoria musicale underground.

Che consiste, in parole povere, nel primato dell’esecuzione armonica il meno priva di gradi identificativi possibili sul resto delle scale. In pratica – cerco di utilizzare il linguaggio meno tecnico possibile – fosse per il barbetta che dispensa perle di arrangiamento e composizione, non eseguirebbe nulla più della tonica e della quinta, lasciando apertissimi gli accordi per consentire agli ascoltatori il massimo dell’interpretazione a seconda del loro stato d’animo e di quello che provano in quel momento. Quindi se a qualcuno il vostro pezzo fa – chiedo scusa per la schiettezza – andar di corpo, è perché in quello scheletro sonoro di totale mancanza di punti di riferimento l’ascoltatore si è come perso in una casa in costruzione di cui sono visibili appena le componenti strutturali in cemento armato e cercando la stanza principale ove lasciarsi rapire dall’atmosfera rarefatta del suono ha aperto, dal momento che non si capisce nulla, il bagno, e trovandosi lì ne ha approfittato per scaricare il proprio giudizio. Senza nemmeno ancora l’allaccio alle fognature, ovviamente.

Che disdetta. Perché tutti i gradi delle scale – quelle musicali, la metafora è finita, andate in pace – sono orpelli di cui liberare il proprio pubblico d’elite, uso ad ascoltare musica commerciale con tutte le settime e le none e undicesime e tredicesime, per non parlare di una terza maggiore o minore che è l’equivalente di definire il sesso di una persona. Siamo tutti puntini da riempire al completamento del nostro universo sonoro, per farla breve. Ma per farla ancora più breve andate a cagare uno e una due, che nemmeno ai tempi dei This Mortal Coil vi avrebbero fatto pulire i cessi di uno studio di registrazione di periferia.

Ma questa cosa mi è rimasta qui. E per dimostrare a me stesso, e poi qui nell’esperienza di blog che sto avendo grazie soprattutto a voi che siete sempre così numerosi, che pur nel mio cinismo e autoironia tutto sommato non sono un insensibile, vi farà piacere sapere che ora cerco di soffocare la mia rabbia prendendo a stirate una cesta piena di almeno una decina di giorni di bucato, che m’ammazzo se l’amico novello gotico e la sua musa che imita Björk persino nella marca di assorbenti fanno qualcosa in casa. Passeranno il tempo a tagliare frequenze dai rumori per renderli il meno riconoscibili possibile e così farcirli al meglio della loro nauseante personalità iperproteica.

Perché a me piace essere aiutato dai particolari in tutto quello che leggo e che ascolto, perché essere assordante verso il prossimo con la propria visione del mondo è un lusso che al massimo possono permettersi gli adolescenti nelle settimane precedenti il Natale, come questa. Io già solo stirando una camicia da notte fucsia di taglia 10A come sta scritto sull’etichetta,  illustrata con qualche volatile notturno disegnato sul davanti – ed è facile capirne la provenienza – è come se mi prendessi cura del prossimo, come se stessi accarezzando la proprietaria e l’odore che il vapore estrae fuori dal tessuto, mischiandosi con l’ammorbidente, è una testimonianza a caldo del bene che ci facciamo reciprocamente, che lo so che è esagerato perché voi due siete due ologrammi cyber fuori tempo massimo e noi siamo uno l’emanazione dell’altro e che non possiamo essere messi sullo stesso piano, però a furia di parole e suoni e gradi della scala armonica ci siamo costruiti un impero, che detta così fa molto americano e forse è quello a cui qui in Europa non siamo abituati. Pensiamo che sia tutto sottinteso, e a furia di sforzarci di sentire i sommessi sospiri, il nostro udito che era tra i più raffinati ce lo siamo giocati, e a stento ora leggiamo il labiale quando qualcuno ci dice le cose come stanno, che quella cosa che proviamo dentro è proprio quella lì che volevamo che fosse. Quella vera.

un posto che prende il nome di un liquore o viceversa

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Il punto è che quando discutevate così, che è una modalità di confronto che secondo i miei standard rientra nella categoria del litigio, eravate pressoché perfetti, un’armonia che altrimenti non raggiungevate in nessun’altra condizione. Né quando vi comportavate da coppia tra le coppie e facevate il gioco delle parti che non vi riusciva mai perché uno, che era sempre lui, iniziava un aneddoto che una, che guarda caso era sempre lei, lo interrompeva quasi subito ricominciando il racconto da zero perché secondo lei – anche se non lo diceva ma si vedeva che era così – ci vuole più enfasi, bisogna saper essere narratori ed è importante non tralasciare nemmeno un particolare. Gli astanti però si accorgevano della dinamica tanto che lui alla fine ci scherzava su e diceva una battuta tipo guarda che comunque lo stavo raccontando io e allora tutti si mettevano a ridere. E può capitare che nel corso della stessa serata fosse lei a fare ammenda e a spingere lui a parlare di qualcos’altro, ma poi lui si vedeva che non era capace, o semplicemente avrebbe raccontato da dio quell’aneddoto di prima e gli altri, quelli che lei lo costringeva a raccontare, alla fine si potevano liquidare in poche parole. Nessuno rideva e l’effetto era discutibile.

Un’altra gag del vostro repertorio di duo da intrattenimento era il passato rude di lui con cui si faceva sempre bella figura nei salotti più “in”, niente di paragonabile con quella vostra coppia di amici in cui lui è addirittura un pescatore e lei è una ereditiera, ma quel caso è borderline e dal momento che lui è praticamente analfabeta si corre il rischio dell’effetto contrario. La storia del sempliciotto redento artistoide e self made man ai limiti del working class hero se edulcorata al meglio non ha paragoni dati gli ingredienti con cui la si può condire, senza contare il prezioso lavoro svolto da lei che aveva immesso nella sceneggiatura della di lui vita gli elementi mancanti per farne una storia di successo, come si dice. Lui, molto più remissivo del coriaceo uomo di mare, se ne era imbevuto e si lasciava ora trafiggere ora incensare a seconda di chi vi ospitava a cena.

Poi però, e se vi si frequentava spesso era abbastanza semplice assistere a uno degli episodi in oggetto dal momento che almeno un giorno sì e un giorno no succedeva, ecco l’interruzione del patto di non belligeranza, stilato come sacrificio in cambio di una fruttuosa vita mondana che altrimenti a causa di un comportamento così ostico in pubblico vi sarebbe stata preclusa. Si trattava di momenti in cui non vi scappava nulla di tutte le incongruenze che col tempo stavano sgretolando la vostra unione e pur senza comportamenti ostili si solidificavano in ogni parola, ogni gesto, ogni minimo movimento espressivo del vostri viso. Ma, senza che nessuno poi venisse a saperlo, nei momenti di particolare tensione o stress generato da agenti esterni era chiaro che il risentimento dovuto alla consapevolezza latente di perdere tempo prezioso nel frequentarvi da ormai così tanti anni si presentava tra di voi con le fattezze di un attaccabrighe che vuole alzare il livello dello scontro. E l’ultima volta dev’essere stata fatale.

Avete commesso l’errore di cambiare i piani, mai introdurre il caso in situazioni critiche, in cui è importante programmare al dettaglio e non lasciare nulla alla probabilità perché poi essa si presenta puntuale all’appuntamento con la storia, che è la vostra. Avete deciso di tornare in hotel dalla baia in cui vi eravate recati con una barca a piedi solo perché l’attracco e il successivo rientro sull’imbarcazione sembrava ardimentoso. C’era un sentiero che, a vostra insaputa, era lungo chilometri e chilometri e si insinuava nella macchia mediterranea che pullulava di cartelli di pericolo di incendio. E incendi ce n’erano stati, quell’estate. Così il caldo, il percorso da trekking con scarpe da mare, senz’acqua e nel panico di trovarsi tra le fiamme, o al buio o chissà quale altra tragica coincidenza sono stati lo scenario per la resa dei conti. L’emergenza aveva rotto le barriere inibitorie e il self control di entrambi.

Ma il violento diverbio era durato così a lungo che, paradossalmente, aveva spostato in secondo piano gli altri motivi di preoccupazione fino a quando, esausti dall’odio che vi eravate gettati fuori con veemenza, avevate realizzato di aver ancora molta strada da percorrere, tutta senza nemmeno una parola. E quella storia ha un lieto parziale, però, perché dopo almeno un quarto d’ora nel silenzio irreale del bosco è sbucata una jeep di non si sa quale corpo di protezione forestale del luogo che vi ha caricato a bordo, risparmiandovi l’ultimo tratto che difficilmente avreste sopportato. Nell’abitacolo del fuoristrada l’agente, facendosi capire a tratti, stava riportando un po’ di buonumore anche se il sollievo aveva già compiuto la sua opera di apripista. Fino a quando in camera, ormai era buio e vi era passata la fame, vi siete dati l’una all’altro come se quello fosse il naturale compimento dell’avventura. La camera dava su una altissima scogliera di cui se riporto il nome è facile indovinare il posto in cui si è svolto il tutto, e la mattina successiva c’era il rumore delle onde che così non si sente da nessun’altra parte. Non avete comunque resistito molto dopo quello che forse è stato il momento più bello della vostra relazione, e nemmeno ricordarsi reciprocamente quel clamoroso capovolgimento di sensazioni avrebbe potuto riportare tutto come prima, anche perché un prima da utilizzare come riferimento da seguire non lo avevate mai avuto.

tutto questo rivedersi

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Allora te lo rammento io se non lo ricordi più. Era quella volta in cui te lo sei trovato seduto nello stesso posto in cui l’avevi incontrato la sera prima e ti è esploso tutto dentro perché hai capito che lo aveva fatto di proposito, era tornato lì per vedere se saresti passata e visto che sei passata lui non ha avuto nemmeno il bisogno di farti capire che non era una coincidenza. Perché in quel momento tu hai capito che lui ti aveva messo il suo cuore in mano e tu fermandoti lì con lui lo hai scambiato con il tuo.

Succede così, è la logistica che fa nascere le storie d’amore, lui come un cecchino ti ha fatto un appostamento e tu ti sei lasciata colpire in pieno. Avevi un bersaglio colorato troppo evidente disegnato sul petto. Poi raccontandovi reciprocamente a porzioni equivalenti la storia della vostra vita avete trascorso un’intera serata senza nemmeno sfiorarvi ma a stento si riusciva a trattenere la bocca divaricata pronta a esplodere in un sorriso senza interruzione, Perché c’era anche l’estate di mezzo e c’erano pure gli anni che erano pochi, nemmeno venti forse ed è per questo che non ricordi come sia stato possibile, perché nemmeno venti anni di vita a meno di venti anni di vita li si riassumono in massimo un’ora.

Così sai cosa è successo dopo? Io lo so. Ti ha accompagnata a casa a piedi e siete passati sul ponte e avete incontrato l’innamorato che ogni giorno aspetta la sua bella, ma la storia è tragica perché lui ha quasi ottant’anni e la sua bella non c’è più da molto tempo e lui l’aspetta lo stesso, con il vestito della festa su quel ponte dove si sedeva per vederla uscire di casa. Così ti sei chiesta se anche voi due sarete così perché tutto è nato da un posto che prima era un posto qualsiasi, poi vi siete visti e allora è diventato un posto speciale e forse se domani sarà ancora così, e poi dopodomani e il giorno dopo ancora e poi chissà per quanti mesi, quel posto sarà una passaggio segreto per il futuro, una scorciatoia da attraversare per vedere come sarete, e quando lo sarete per rivedervi come eravate la sera che ha fatto cominciare questa storia, tu che passi di lì e ti ricordi ciò che è successo la sera prima e proprio in quel momento lo rivedì seduto nello stesso punto, e speri che sia così tutte le sere fino a quando però non lo si può dire.

il paraocchi

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Ero in macchina, al posto di guida, ed ero in uno di quei momenti in cui tra te e il mezzo che stai conducendo non c’è separazione, l’auto è il prolungamento del tuo corpo e non solo. Il cervello passa in rassegna gli scaffali meno accessibili in una sorta di inventario esistenziale simile a quello che fanno i negozi di abbigliamento dopo le feste, prima di partire coi saldi. La trance era favorita dal buio del tardo pomeriggio, il velo di nebbia fuori e l’anomalo silenzio all’interno dell’abitacolo, malgrado fossimo al completo, mia moglie al mio fianco e la bambina che si era addormentata sui sedili dietro. L’oggetto della riflessione era una banalità come la casualità degli eventi, io che da quel posto remoto che sono i vicoli del centro storico del capoluogo ligure ora sto attraversando il rhodense con un paio di snickers appena comprate per mia figlia nel bagagliaio e sei bottiglie di vetro da riempire con l’acqua del sindaco. E allora ho stretto un po’ gli occhi per ridurre la visibilità laterale e scoprire l’effetto che farebbe essere qui, da solo, se le cose fossero andate diversamente. Senza mia moglie seduta sul sedile alla mia destra e, di conseguenza, nessuno appisolato in quelli posteriori. Ed è stato il panico, giuro. Mi sono immediatamente voltato di lato per assicurarmi che fosse tutto come speravo, e per fortuna era ancora lì. Ti va se compriamo un po’ di carne per cena? le ho chiesto, quindi ci siamo presi per mano, per poco però, il semaforo alla fine del rettilineo era diventato giallo e dovevo scalare per fermarmi.

segni dell’antica fiamma

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Sinceramente non ricordo quando sia successo a me, ammesso che a me sia successo. Sta di fatto che qualche giorno fa, mentre eravamo a spasso freschi freschi di vacanza, mia figlia a sette anni e mezzo e quasi in terza elementare ha fatto un po’ di domande sull’amore, sui sentimenti e sulle relazioni al suo papà. A me. Ammetto che è dal giorno in cui ho scoperto il sesso della creatura che si stava sviluppando dentro mia moglie che aspetto con angoscia momenti come questo, un temibile elenco di incontri ineluttabili con il destino che comprende, in ordine cronologico, altre scadenze quali il primo ciclo mestruale o il suo primo appuntamento.

Ma verso questi ultimi due, sarà che mi sembrano ancora lontani, non nutro una particolare ansietà. Giuro. Nel primo caso si tratta di un passo dello sviluppo naturale, come lo svezzamento o i denti da latte che lasciano il posto a quelli da adulti. E per quanto riguarda il primo appuntamento, per ora, mi limito a un boh, cioè nel mio immaginario ci sono numerosi film americani in cui i padri guardano le figlie in attesa che il campanello suoni e che dicono loro che sono bellissime tanto da poter far girare la testa a chiunque, mi viene in mente per esempio Pretty in pink. Ecco, magari la fatidica sera schiatterò di gelosia ma mi sforzerò di comportarmi così, e, appena uscita, metterò su i Psychedelic Furs, mi attaccherò alla bottiglia di Cognac e piangerò sulla spalla di mia moglie, che più razionale di me mi consolerà mettendomi al corrente di tutte le informazioni che ha raccolto di nascosto sul (o sulla) mini-pretendente.

Invece, b-movie americani a parte, ammetto di non essere stato abbastanza pronto a sostenere una conversazione sull’amore proprio ora, cioè così presto, temo di non aver reagito con la acuta sagacia che ha contraddistinto fino ad ora il mio ruolo di padre (ehm). Ma forse non era ancora la volta decisiva, cioè si è trattato di una chiacchierata sui generis, volta a soddisfare la curiosità scaturita dalla sua ennesima lettura vacanziera. I termini con cui mia figlia ha presentato le sue argomentazioni sono rispettabilissimi ma ancora nella sfera un po’ caotica della prima infanzia. Dove cioè l’amore è quella cosa che i bimbi vedono nell’unione dei genitori (quando sono uniti, naturalmente) e che si alimenta da fonti aleatorie quali i cartoni animati, le porcherie della pubblicità e della tivù, le canzoni, i libri, i fumetti, le copertine delle riviste da grandi (e purtroppo da adulti) nelle edicole, i racconti dei propri fratelli/sorelle maggiori o dei fratelli/sorelle maggiori dei compagni di classe, i compagni di classe che mediano, anzi, distorcono tutto quanto, probabilmente la fonte più pericolosa.

Ogni bambino ha una sua innamorata, a quanto pare, e non tutti sono corrisposti, fortunatamente. Perché c’è Tizio che dice di amare tutte, ma solo in due ammettono di essere fidanzate con lui. Ci sono già le classiche catene, A che ama B ma B è innamorato di C che però ama D che vorrebbe stare con E a cui è antipatico A. Eh, bambina mia, c’est la vie. Ne vedrai di ogni. E le bambine che vogliono baciare altre bambine non necessariamente, cerco di spiegarle, hanno un orientamento omosessuale. Gli esseri umani si abbracciano e si baciano anche perché si vogliono bene, ci sono numerosi livelli di amicizia, l’amore è un’altra categoria, non necessariamente al culmine di intensità. E c’è Caio che dice di essere ossessionato, ama mia figlia dalla scuola materna. Tranquilli, tutto sotto controllo, so a chi si stia riferendo, sono mesi che non si vedono più, non c’è pericolo di un fidanzamento prematuro.

E poi, le dico, da qui alla terza media, età in cui più o meno avvampano le prime cotte serie, c’è tempo, chissà quanti bambini o ragazzini avrai conosciuto e avrai considerato simpatici. Ma a quel punto sono un po’ scosso, chissà se davvero sono stato esaustivo. La guardo, lei mi sorride e mi prende per mano. Papà, prima di salire in casa giochiamo un po’ a ping-pong? Whew, tiro un sospiro di sollievo, forse sono ancora ai primi posti della sua classifica. E ho ancora qualche mese di tempo per prepararmi meglio.