quanto sei triste in una scala che va da uno a Modena di Antonello Venditti?

Standard

Se chiudete gli occhi e immaginate fortissimamente che il Venditti che si vede e si sente in giro almeno da “Dimmelo tu cos’è” non sia mai esistito possiamo ricordarcelo com’era: sufficientemente impegnato, molto campanilistico, parzialmente smielato, decisamente di successo e comunque innegabile colonna sonora degli anni 70. Non conosco nessuno a cui non piacesse e noi ragazzini le sue canzoni le sapevamo a memoria, soprattutto quelle di quei due o tre album cruciali lì, e mi riferisco a “Lilly”, “Ullallà”, soprattutto “Sotto il segno dei pesci” e soprattuttissimo “Buona domenica” con quella copertina alla “Fruit of the loom” che ognuno ce l’aveva di colore diverso. La mia copia è rosso bordeaux e contiene una manciata di pezzi discretamente degni di nota e perdonate se non mi scompongo più di tanto, perché ripensare al Venditti di allora con il Venditti di oggi ti viene voglia di non non fargli passare nulla. Comunque pezzi tristi come i suoi ce ne sono pochi, al mondo, e questo dobbiamo concederglielo. Al primo posto di questa classifica intrisa di malinconia c’è questo resoconto di una drammatica crisi del grande amore che fu di tutti noi, il Partito Comunista Italiano. Il timbro strappalacrime di Venditti fa a gara con quello lancinante del sax di Gato Barbieri e, ancora oggi, ci fa scoprire le nostre facce idiote allo specchio, mentre ascoltiamo commossi “Modena” di nascosto, cercando di non farci scoprire da nessuno.

il pianoforte sulla spalla?

Standard

Sono poche le canzoni in grado di farmi saltare i nervi. Be’ oddio nemmeno così poche, se non altro perché alcuni brani compresi in questo elenco personale si ascoltano raramente, ormai si può dire che sono finiti nel dimenticatoio condannati da un più che giustificato oscurantismo culturale. Roba tipo “Uomini soli” dei Pooh, un medley dei Gipsy Kings che ha rischiato di rovinarmi la crescita intorno ai vent’anni e l’intera discografia di Gianna Nannini, il cui timbro di voce su di me ha più o meno lo stesso effetto di una forchetta contro i denti, e solo per l’amore che provo per mia figlia ho depennato da questa black list “Aria”, ma solo perché presente nella colonna sonora di “Momo alla conquista del tempo”, uno dei suoi film a disegni animati preferiti.

Ma c’è una canzone in grado di farmi saltare i nervi che sono costretto ad ascoltare ogni lunedì e giovedì, perché fa parte della compilation che la mia trainer di attività motoria globale utilizza come accompagnamento dei diversi momenti della seduta di allenamento. Verso la fine, quando lo stretching subentra alle fatiche dell’esercizio fisico, tra una Enya e un altro brano altrettanto dozzinale da benessere da supermercato, ecco la voce in beffardo accento romanesco di un noto cantautore di cui ho già avuto il piacere di parlare su queste pagine. Il pianoforte e le sue vocali allungateeeeeeee, che già il pezzo non lo sopportavo quando fu pubblicato, poi ha dato il titolo a un noto filmetto di quel cinema italiano che andava per la maggiore tra i trentenni di qualche anno fa, e ora mi tocca subire mentre cerco di restituire tono ai muscoli del mio corpo fiaccati da intere stagioni passate chino al pc. Ma per il perfetto connubio con il “corpore sano” la “mens sana” dovrebbe poter non esser messa alla prova. Ogni volta penso di chiedere una tregua, magari potrei proporre qualcosa di alternativo, poi su “si accendono le luci qui sul palco ma quanti amici intorno che mi viene voglia di cantare” a me invece viene voglia di alzarmi e andarmene. E non è il caso di linkare qui il video di “Notte prima degli esami”, portatevelo tu e i tuoi amici il pianoforte sulla spalla. Se l’amore è amoreeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee…

cominciamo bene

Standard

Il livello di una civiltà lo si evince anche dal tenore degli artisti ospiti nella trasmissione tv della notte di Capodanno sulla rete ammiraglia, quella che uno tiene come riferimento solo per gli ultimi centottanta secondi di conto alla rovescia, giusto per essere sincronizzati con il resto del mondo e poi, anziché spegnere, lascia lì perché è da non credere.


(nemmeno i Gipsy Kings veri ci possiamo permettere)

(la prima poesia per il nuovo anno)
(prima o poi riusciranno a liberarlo quel benedetto pensiero che da quarant’anni, questi qui, hanno chiuso chissà dove)

sundayness, o domenicosità, ovvero spiegare cos’è la domenica negli altri giorni della settimana

Standard

M. sfonda porte aperte. Poco fa, a cena, in una sera che è la domenica sera, mi ha proposto e abbiamo a lungo discusso di quella sensazione, o come diamine si può chiamare altrimenti, che è la domenica. Ed è incredibile come possa essere un qualcosa di universalmente riconosciuto, almeno qui nell’occidente opulento. La domenica è tutto sommato un argomento oscuro, di cui si cerca di capirne il senso vivendola, ogni maledetta domenica, senza mai arrivare al punto. Senza mai riuscire a spiegare che cos’è quella specie di indescrivibile malessere che si prova la domenica.

Ci si rende sempre conto che è domenica, la domenica. La controprova è pensare che è domenica quando il lunedì successivo non si lavora o non si va a scuola, durante le vacanze, per esempio. Non è l’essere a ridosso di un giorno feriale che fa la differenza. La domenica non potrebbe essere un altro giorno. Da questo punto di vista, potrebbe trattarsi davvero di un giorno da santificare. Un giorno con una marcia in più, con una brillantezza artificiale, come una sorta di video postprodotto in cui si dà una colorazione diversa se c’è il sole, o si accentuano le tonalità di grigio quando è nuvoloso. Il freddo è un freddo da domenica, e in estate si suda diversamente. Le città sono così vuote solo di domenica, anche rispetto a feste in cui in giro si incontra meno gente. Perché si tratta di un vuoto diverso.

A quel punto a tavola è scattata la gara di esemplificazione delle situazioni tipiche da domenica, che cerco di riassumere qui, ma a cui spero aggiungerete qualcosa voi. Vista l’età anagrafica dei conviviali, i contributi partono da almeno 35 anni fa con Buona domenica, di Antonello Venditti. Un pezzo sull’angoscia del settimo giorno da ascoltare anche la domenica pomeriggio, in inverno, mentre fuori piove, i tuoi genitori bevono il tè con le tue vecchie zie e tu non puoi o non vuoi uscire perché non ti sei organizzato e non esistono ancora gli sms. La scena infatti è in bianco e nero (è il 1979), M. sente la sorella grande ascoltare la cassetta di Venditti con ostinazione, senza capire il perché. Il link più immediato è l’ubriacatura da maratona televisiva pomeridiana con cose tipo Domenica In, se non altro per vedere a Discoring le popstar del momento. Siamo ancora in pieni anni ’70. Non è difficile, quindi, immaginare di chiudere il cerchio proprio con Antonello Venditti che canta Buona domenica in playback proprio in quella trasmissione, ricordo che abbiamo subito rintracciato e reso tangibile su youtube.

Con F. invece facciamo un salto in avanti di qualche anno, tipo il 1984. La sensazione della domenica pomeriggio è l’annoiarsi a vuoto in un bar di periferia, le Honda XL dei più grandi della compagnia parcheggiate fuori disordinatamente, dentro il chiacchiericcio sconnesso sopra la telecronaca delle partite. Pochi consumano ma si trascorre lì tanto, troppo tempo e si fumano sigarette ininterrottamente. Habituè che giocano a boccette, whisky e amari di sottomarca. Colonna sonora: qualsiasi pezzo di Vasco Rossi (seguono tutta una serie di cliché e atmosfere tondelliane). Si finirà in discoteca? O al cinema?

Il cinema però è un ricordo collettivo più da grandi, anche perché costoso se ripetuto 4 o 5 volte al mese. La sensazione tirata in ballo però è senza tempo: l’entrare nella sala con la luce del giorno, passando alla luce artificiale che si spegne lasciando il posto alla proiezione. Il tempo e la domenica stessa si sospendono per 90 minuti circa, e si ritorna nel mood dopo i titoli di coda, mentre il cinema ti vomita fuori nel tardo pomeriggio, già buio, mentre magari ha iniziato anche a piovere. Non poteva andare peggio.

C’è chi come A. che aggiunge a questo quadro un particolare ancora più deprimente: la città che ospitava la caserma di C.A.R. – erano i tempi della leva obbligatoria – e che, la domenica pomeriggio, si riempiva di ragazzi con i capelli corti e dagli accenti più improbabili a spasso sotto i portici, a caccia continua di genere femminile, per poi finire la giornata ai tavoli delle numerose pizzerie del centro.

Chiudo con la nomination per la miglior titletrack della domenicosità (o sundayness), la musica votata all’unanimità come quella che più di ogni altra sanciva la fine del tanto agognato obiettivo a medio termine di ogni studente. Questo almeno fino a quando è stata trasmessa in tv. Dopo questa sigla di chiusura, il sipario sulla domenica scendeva irrimediabilmente, per lasciare il posto al lunedì. Si poteva posticipare ancora per qualche manciata di minuti la fine della festa, ma non si sarebbe fatto altro che togliere tempo prezioso al sonno e vendicarsi su il proprio se stesso alle prese con il giorno dopo e dato in pasto alla sveglia del lunedì mattina. E se i compiti non erano terminati, a quel punto, con quella sigla di chiusura, non ci sarebbe stata più alcuna possibilità di rimediare. Tutto troppo tardi. Signore e signori, buonanotte.