ho un piano, è il secondo

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Avete sentito? Era il campanello. Su, andate ad aprire. Non fatemi aspettare inutilmente qui sulla soglia in tuta da casa e in pantofole. Sono il vostro vicino di sopra, potete sincerarvene sbirciando dal buco che non ricordo come si chiama, quello per accorgersi in tempo se stiamo per essere vittima di finti operatori di qualche nuovo marchio di venditori di energia o se è Dio che ci viene a proporre la nostra occasione dietro alle sembianze di qualche evangelizzatore da strada. Lo spioncino, ecco come si chiama. Invece no, it’s only me. Sono io. Sono qui con un scusa qualunque: è vostra la Micra rossa che qualcuno ha parcheggiato con le luci accese? Avete la possibilità di fare fotocopie che mia figlia ha dimenticato il sussidiario a scuola e ci siamo fatti prestare il libro dalla compagna di banco? Stavo per  preparare la carbonara ma ci siamo accorti di aver finito le uova, non è che ve ne avanza un paio? Ma dietro a queste istanze di buon vicinato, nascosta tra le righe di questa dichiarazione di reciproca solidarietà che oggi capita a me ma domani potresti averne bisogno pure tu che sfoggi un portaombrelli nello spazio comune talmente nuovo che non hai nemmeno rimosso il codice a barre, c’è solo la mia latente quanto morbosa curiosità di comparare le diverse sensibilità umane, non necessariamente per sancire un primato etico o estetico o chissà che.

È che uno cresce con questo grande inganno dell’unicità della propria persona e si trova a dover fare i conti con i miliardi di miliardi di combinazioni dei geni ereditari che alla fine ci sarà una serie identica a un’altra, no? E non vedo perché questo doppione non possa essere tu che occupi un appartamento nel mio condominio tale e quale al mio. Già, non ditemi che non ci avete mai pensato. Se vivete in una casa accessibile a tasche mediamente normali come quelle dei miei pantaloni allora avete scelto un appartamento costruito allo stesso modo di altri quattro, cinque o sei ubicati sopra e sotto di voi. Le cucine, i bagni, le camere da letto. Tutto corrisponde, tutto è maledettamente uguale a meno che qualcuno non sia intervenuto in fase progettuale chiedendo, oltre alla personalizzazione del capitolato, anche qualche variante strutturale. E questa cosa che ci sono luoghi indubbiamente familiari ma interpretati differentemente mi mette a disagio e alimenta quella fiammella normalmente delle dimensioni del fuoco del boiler in stato di quiete, ma pronta a bruciare quando soffia forte il vento della competizione tra coinquilini. Non siamo ai livelli di Paperino contro Anacleto Mitraglia, no. Ma la bramosia di vedere le variazioni altrui su un tema ormai noto come i propri ambienti è una anomalia caratteriale da tenere a bada.

Prima rubi i momenti di ingresso e uscita quotidiani, pochi decimi di secondi che ti svelano solo fugaci stralci di vite altrui soventemente al buio. Poi viene la volta in cui ti fai coraggio e provi un qualunque approccio di conversazione con la speranza che il tutto si evolva in un invito a entrare. E quando ci si riesce ecco la meraviglia. La stessa volumetria, occupata da arredi e illuminazione differenti, ci sembra tanto più grande, e sono convinto si tratti di una illusione dei sensi dovuta proprio dal contrasto tra uno spazio a cui ci siamo assuefatti sistemato diversamente. Un po’ come vedere il fratello molto somigliante di un amico che frequentiamo tutti i giorni, l’uguale lievemente diverso. Il muretto dove tu hai la libreria, il controsoffitto a rimarcare il corridoio che invece tu hai unificato con la zona giorno, le camere da letto invertite rispetto a come le occupi tu e il resto della tua famiglia.

Dev’essere un po’ come vedere sé stessi uscendo dal proprio corpo. Noi ci immaginiamo in un modo che ci soddisfa, e invece gli altri ci vedono banali agglomerati di organi e tessuti, con una personalità di cui tutto sommato si può fare a meno, visto che non si era mai presentata l’occasione per farsi un’opinione. Da bambino amavo andare a trovare una famiglia di amici che abitavano nello stesso palazzo ma non ricordo esattamente a che piano, ero davvero piccolo. Ricordo però che uscendo sul loro balcone potevo vedere il mio, lassù in alto, e mi colpiva talmente tanto osservare un posto familiare come quello in cui trascorrevo ore a giocare da un diverso punto di vista che ci penso ancora quarant’anni dopo, non a caso ne scrivo qui. Ma ho sempre avuto l’impressione che la distanza tra il loro appartamento e il nostro fosse almeno di cinque o sei livelli, tanto mi sembrava remota casa mia osservata da lì. Recentemente ho scoperto che c’era solo un piano di differenza. Quegli amici abitavano sotto, nell’appartamento di fronte. Anche questa distorsione della realtà probabilmente deriva da una paura inconscia dell’allontanamento delle proprie sicurezze, o semplicemente si tratta di una banale confusione tra ricordi remoti.

Grazie, comunque, per l’ospitalità. Solo una cosa, prima di chiudere. Se occupate una casa precedentemente appartenuta ad altri, è il mio caso, spero abbiate avuto l’opportunità di vederla prima della scelta, magari abitata dai proprietari che poi hanno firmato il rogito con voi. Ecco, non dimenticherò mai i mobili neri e laccati lucidi della camera matrimoniale, e i faretti incorporati nel top come luce principale della stessa stanza in cui oramai dormo da dieci anni, con mobili differenti. Ancora oggi non mi capacito che qualcuno, prima di me, si sia permesso di recare un affronto così umiliante a quella che sarebbe poi diventata casa mia.

luce dei miei occhi

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In sala ho una lampada bellissima, un pezzo di autentico modernariato vecchio quanto il matrimonio dei miei genitori, cinquantun’anni più un periodo non quantificabile tra il momento in cui è stato conteggiato in una lista nozze e la sua vera data di fabbricazione. Ha una linea anni cinquanta, addirittura c’è una leggenda famigliare che lo vuole disegnato da un architetto famoso, si mormora addirittura Castiglioni. Ma non si ha la prova di tutto ciò se non una notizia senza fonti che avevo trovato su un sito specializzato in forniture d’epoca, memorizzato tra i segnalibri del browser di sistema di almeno tre computer fa, prova poi evaporata con tutti gli altri dati virtuali di quegli hard disk primitivi.

La lampada bellissima è composta da uno ovale in teak di circa centoventi centimetri su cui sono posizionate tre lampade rettangolari in vetro opaco. Il tutto è montato su un’asta di ferro nero fissata su una piantana tonda di marmo, per un totale di un metro e ottanta circa di altezza. È una lampada a cui sono affezionatissimo, intanto perché serve a mantenere nitide le poche reminiscenze del primo soggiorno dei miei, composto da divano e poltrone in velluto blu con un set di mobili in teak, libreria, tavolino e la lampada, appunto, gli unici pezzi sopravvissuti.  Si tratta di ricordi vaghi, non privi delle interferenze di alcune foto che hanno come sfondo quelle delizie vintage, mio papà con mia sorella in braccio e simili.

Poi la lampada si ruppe, probabilmente, e in un momento in cui tutto ciò che era considerato obsoleto veniva fatto vittima di ostracismo in favore di complementi d’arredo più eighties, finì in soffitta, miracolosamente fasciata con carta di giornale e, quindi, protetta dai segni del tempo e dagli urti a cui sono spesso esposti i mobili nei ripostigli. Una volta resomi indipendente, in un guizzo di amarcord mi ritornò in mente la lampada, proprio perché, in pieno boom del design d’epoca, girellavo mercatini dell’usato e discariche alla ricerca di chicche vittime dell’arbitrario oscurantismo e dell’ignoranza altrui. Ho una lampada di valore, pensai, chissà se funziona ancora. La portai da un elettricista che la rimise in sesto, e da allora la lampada ha accompagnato prima un divano e due poltrone anni sessanta in sky verde, provenienti direttamente dalla sala d’aspetto di un dentista e pagate un prezzo a dir tanto irrisorio; quindi l’attuale soggiorno, moderno e minimale, della casa in cui vivo, a prova del fatto che la linea del pseudo-Castiglioni sta bene proprio con tutto.

Ora però la lampada si è guastata, probabilmente un semplice cavo che trasporta la corrente a intermittenza, a seconda del posizionamento della piantana. E il guaio è duplice. Intanto occorre muoverla, e ogni volta che la si sposta, si tratta comunque di un oggetto di mezzo secolo fa, c’è il rischio di scalfirne il corpo di legno. Ma il vero problema è trovare chi sia in grado di ripararla. Anche l’elettricista del paese, che mi conosce perché gli faccio sempre le richieste più assurde come sostituire uno spinotto ormai fuori produzione di un giradischi con una coppia di rca standard o il jack della vecchia cuffia Pioneer, ha messo in dubbio la fattibilità dell’opera. Dovresti trovare un pensionato appassionato di queste cose, mi dice, ci vorranno almeno due ore, io non ho tempo. Ecco, l’elettricista non ha tempo. Ha un negozio al dettaglio di piccoli elettrodomestici che sta per essere spazzato via dalla grande distribuzione e lavora solo sui vecchietti che portano a riparare le radioline per ascoltare le partite, le signore anziane che cercano prese e adattori non più a norma altrimenti dovrebbero sostituire tutte le spine di casa, e gli amanti delle cianfrusaglie come il sottoscritto. Eppure non ha tempo, nemmeno lui. E mi dice che comunque non ne varrebbe la pena, il costo della manodopera sarebbe troppo alto per un oggetto così vecchio.

Allora sto per raccontargli la storia di quella lampada, per fargli capire che oltre all’inestimabile valore affettivo, quel pezzo unico che lui ha l’onore di riportare agli antichi fasti non stonerebbe in una vetrina del centro di Milano, con una bella targhetta sotto con su scritto un migliaio di euro, come minimo. Ma è troppo tardi, entra un signore sulla settantina con un parrucchino arancione e un lettore mp3 in mano di una marca sconosciuta. Chiede se lì vendono le pile.