begato

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Sebastiano lo riconoscevi perché era l’unico che aveva l’accento romano. Portava gli occhiali. Era un po’ più scuro di pelle degli altri. Ed ecco, a quel punto, se qualcuno ti chiedeva un ulteriore tratto identificativo, potevi dirgli che aveva anche una gamba che non funzionava proprio come devono funzionare le gambe di un ragazzino di dieci anni. Occorre essere molto cauti nel descrivere le peculiarità delle persone, a maggior ragione se sono bambini. Cicciotto anziché obeso. Monello al posto di deficiente. Svogliato per non dire che non ha voglia di fare un cazzo. Ma non è questo il punto. Sebastiano viveva in un quartiere di edilizia popolare di quelli aggrappati alle montagne che poi quando vengono giù le frane, o i ruscelli sotterrati reclamano con violenza il loro spazio, oggi, a trenta e più anni da quando quei palazzi sono stati costruiti, organizziamo i concerti per le famiglie che non hanno più nulla e vivono nelle tende sostitutive. E nel quartiere di Sebastiano abitavano i peggio casi umani, le famiglie disastrate, le ragazze madri e i padri  tossicodipendenti, i nuclei con tre e quattro figli con i genitori disoccupati. Tutti i bambini passavano il tempo libero insieme sul tetto del palazzo che più degli altri era un insulto alla geometria e all’architettura stessa, una specie di diga tra due versanti dove sotto passava la strada e sopra, sul tetto, c’era una spianata in cui si poteva giocare. Un palazzo al contrario, una cosa da cartone animato ecologista, con il cortile sopra.

Il fatto è che Sebastiano, con il suo piede, non poteva ricoprire nessun ruolo nelle squadre di calcio improvvisate dagli altri ragazzi. Ma in quel quadro sconcertante di natura, edilizia e umanità aggrappata a un niente, nessuno prendeva in giro Sebastiano per il suo handicap. Nessuno lo lasciava da parte nei giochi, nemmeno quando si trattava di dare calci al pallone. Le due squadre si fronteggiavano sul tetto del palazzo, e a Sebastiano facevano fare la radiocronaca. Lui con il suo accendo romano, gli occhiali e la pelle più scura degli altri. Faceva finta di impugnare un microfono come i giornalisti di Novantesimo Minuto e seguiva l’incontro con una precisione pazzesca, e quelli che passavano di lì, se non erano ragazzi grandi in cerca dello spacciatore di fiducia o adulti alla fine di una vita insopportabile in una domenica pomeriggio, non si fermavano a vedere i cross e i passaggi e le parate dei bambini nel finto campo di cemento, ma sostavano a imparare tutto quello che c’era in quell’esempio di solidarietà spontanea. Una quindicina di giocatori e un radiocronista che raccontava, apparentemente solo per se stesso, le fasi del gioco degli altri.