il brutto, il cattivo

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Le ho fatto un buono acquisto, mi dice la commessa che è lì credo solo per i mesi estivi. Mi vuole sempre far passare alle casse quelle che ti fai da te il conto con la pistola RFID e ogni volta non si ricorda che non è così semplice perché io scelgo che cosa acquistare per pranzo al supermercato in base al cibo che trovo in offerta al 50%, e per i prodotti in scadenza comunque deve battere a mano il codice e poi dividere il prezzo a metà. E questa volta le è sfuggita la confezione di crescenza bio, il bollino con l’indicazione con lo sconto era dall’altra parte rispetto al codice a barre e nel conto finale risulta a prezzo intero.

Il supermercato è deserto, così quando lo faccio notare la commessa può recarsi all’assistenza clienti e chiedere lo storno. Ma ritorna con un tagliando su cui è scritto a penna il prezzo dell’articolo conteggiato in eccesso, 72 centesimi, e mi dice che posso utilizzarlo quando voglio. E in quel momento non so cosa mi prende, perché da una parte dentro di me capisco che già chiedere giustificazioni per 72 centesimi è da stronzi, e in quel momento però da un’altra parte dentro di me sento che devo andare fino in fondo. E quella parte prevale, forse perché sono stanco e l’opportunità di rivalermi su una commessa che è lì per pochi mesi solletica il mio appetito di vendetta su qualcuno di più debole. Così le dico che voglio i soldi, non un buono, che magari non mi capiterà più di fare la spesa lì e quel pezzo di carta alla fine non sarà mai utilizzato. E mentre lo dico mi convinco di farlo perché odio il pressapochismo, proprio io che ho mandato tre volte poco prima un testo al cliente che me lo ha restituito altrettante per correggere dei refusi. La commessa non sa bene cosa fare perché evidentemente la procedura dello storno era sbagliata o si vergogna per me di mettere in piedi una questione per 72 centesimi. Si riprende il buono, lo ripone nel marsupio e mi dà il corrispettivo prendendolo dai suoi soldi personali. Dopo devo fare la spesa, aggiunge, il buono lo posso utilizzare io. Che brutta persona, penso uscendo dal supermercato, ovviamente riferendomi a me stesso.

E per tutto il giorno mi scervello sul fatto che non so cosa voglia dire. Il termine buono, l’essere buono, e lo faccio perché c’è anche un gioco di parole con quanto avvenuto quella mattina. Perché una sorta di cambiale si chiama buono? Non lo so. Poi si dice buono a fare qualcosa, o buono a nulla, e indica la capacità o meno di realizzare qualcosa o realizzare sé stessi, che non c’entra niente con la bontà, quella che al supermercato mi è rimasta congelata dentro mentre mi sporgevo nel frigo a prendere la mia confezione di crescenza bio a 0,72 euro. Anche se di cose che non siamo capaci di fare c’è pieno in ogni ripostiglio, soprattutto da queste parti.

Poi, la sera, ricevo un messaggio via Facebook da un’amica che tanti anni fa è stata molto di più. Suo padre è mancato da poco, mi racconta, lei sta maturando il dolore che è una cosa che non so descrivere perché non mi è ancora successo e che prima o poi mi succederà e quando accadrà io comunque non sarò pronto, e non lo sarò mai. Mi dice che suo papà mi ricordava spesso come una delle persone più buone che avesse mai conosciuto. Io, il re degli stronzi da supermercato che esige che una procedura da millequattrocento delle vecchie lire debba essere portata a termine perché non è opportuno che un colosso multinazionale della grande distribuzione si trattenga quei pochi centesimi senza alcun motivo anche se questo può mandare in crisi una commessa precaria che è lì a sostituire una collega già in ferie. Io sono una persona buona, più di molti altri.