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Mentre ormai a malapena riesco a scrivere con la penna in mano e la mia calligrafia tende sempre più a un insieme di segni indistinti che a posteriori sono il primo a non riuscire a decifrare, tutte le lettere si somigliano e il risultato è una sorta di elettrocardiogramma obliquo, dopo anni di videoterminale sono diventato un asso della dattilografia. Sarà che ho un trascorso di valente tastierista, suonavo pure i soli di Tony Banks, e utilizzo indifferentemente tutte le dita di entrambe le mani in totale indipendenza. Anzi, talvolta scrivendo cerco di andare a tempo con una base immaginaria, o se lavoro ascoltando musica per aumentare la concentrazione cerco di seguire il ritmo di questa o quell’altra traccia della playlist del giorno. Fino ad automatismi talvolta preoccupanti. Le mie dita infatti corrono veloci sulla periferica da input, spesso anche più rapide del pensiero tanto che si verifica in continuazione il fenomeno identificabile come “coda di lucertola”: stacchi il centro di controllo ma le membra si muovono da sé, tanto sono use alla routine. Si tratta in realtà di un banale fenomeno di latenza, durante il quale l’informazione parte dal cervello ma viene fraintesa dalle mani prima che l’informazione stessa venga decodificata. Le dita così fraintendono la matrice della parola e la completano scrivendone un’altra di uso più comune, di eguale matrice ma di desinenza differente. Per esempio, se penso “comunitario” scrivo “comunicazione”, se penso “infortunio” scrivo “informatizzare”, penso a “impossibile” e scrivo “implementare”. Insomma, funziono un po’ come un T9, ma meno intelligente e con un lessico molto più ridotto.