se è aperto significa che c’è sempre qualcuno

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La scritta domenica aperto campeggia all’ultimo piano della ripida rampa lungo cui la fila di auto di tutti i colori arranca sfrizionando marce basse, escluse quelle col cambio automatico, ça va sans dire. C’è persino qualcuno difficilmente identificabile in quella colonna ascendente che ascolta del jazz commerciale su Lifegate Radio con il finestrino giù. Vuol darsi delle arie da persona complicata ostentando la contraddizione tra musica ricercata e gusto dozzinale da franchising nei giorni di saldi in cui si sta immergendo, ma è un trucco a cui non abbocca più nessuno: le prime pagine dei siti di news futili, quelle da condivisione sulle pagine Facebook, hanno più volte smascherato queste pose anacronistiche mettendole alla berlina, spaccando il capello in quattro con finalità del tutto strumentali, come in quell’articolo – non so se l’avete letto – in cui si dimostrava che più del 90% delle linee di walking bass sono sequenze di note a cazzo e non sono supportate da nessuno studio teorico. C’è solo una sola grande armonia, di questi tempi, che è facilmente identificabile nella florida pregnanza di Beyoncé e nelle sue foto su cui sospirano grandi e piccini, una perfetta sintesi di tutto quanto sia ascrivibile alla natura con la enne maiuscola – fatta di successo, potere d’acquisto, opulenza e filtri di fotoritocco – negli anni dieci di questo secolo.

Poi però la fila si blocca inspiegabilmente. Da un furgone targato Bulgaria esce a controllare che succede un ragazzo che, tanto per rimanere in tema di cose fuori dal tempo, indossa una felpa mai vista dei Police. La sua visione mi riaccende un desiderio sopito, quello di trascorrere le vacanze estive sul Mar Nero, magari lì si ascolta musica decente. Anche una giovanissima, qualche utilitaria più in là, sembra colpita dalla scena ma poi è il suo ragazzo a riprenderla perché pensava si trattasse di un agente delle forze dell’ordine e non di un fan sospetto di una band che, anche se ha fatto la storia, tra le nuove generazioni conta come il due di picche. Da qualche parte qualcuno accende una sigaretta elettronica. La fragranza la conosco, è la stessa con cui si diletta un mio collega in ufficio e che mi ricorda tantissimo i calzettoni di mia figlia dopo che fa allenamento. Lui sostiene sia aroma di biscotto, ma io non ci credo.

Dentro intanto dev’essere già iniziato lo spettacolo. Oggi il centro commerciale ospiterà un esponente di punta della scena hip hop/trap locale che presenterà il suo nuovo disco e girerà negli ampi corridoi di quella cattedrale dello shopping pedalando su un monociclo e firmando autografi, proprio come faceva tanti anni fa – e io ho avuto la fortuna di vederlo – Peter Tosh, prima dei concerti. Nessuno ha paura della folla, qui, e questo è un fenomeno in controtendenza se pensate a quello che succede di questi tempi e non lo dico per essere cinico. Certi posti come questi, dove risiede la vera ricchezza dell’occidente made in China, sono presidiati h24 anche quando la festa è finita. Domenica aperto è un finto ossimoro che esprime la filosofia di questa ricerca della sicurezza assoluta, totale e continua. Domenica aperto significa che c’è sempre qualcuno con la luce accesa da chiamare se hai paura del buio o della solitudine e che nulla di brutto, qui, ti può succedere.

facciamo il punto su quello che emerge da certe persone

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Ora che la barba va così di moda capisco cosa c’è che non andava nella mia. Volevo tenerla a tutti costi non tanto per un fattore estetico quanto di praticità, non avete idea di che rottura di scatole radersi ogni mattina e quanto possa essere deprimente farlo nella solitudine delle ore prima dell’alba in inverno, quando il bagno non è nemmeno riscaldato adeguatamente. La principale conseguenza di questo modo di allestire i megastore con scaffali alti è che le persone dall’altra parte le vedi appunto solo dal mento in su, ammesso che siano alte a sufficienza, e se uno sfoggia la barba risalta particolarmente. Quelli più bassi sono affari loro, probabilmente hanno più possibilità di trovare la merce – in questo caso si tratta di scarpe del numero giusto – nei ripiani inferiori e quelli sopra l’uno e ottanta, indifferentemente con o senza barba, hanno solo la vista su quelle in esposizione nel livello superiore e in questo negozio, che guarda caso fa parte di una catena, non è detto che ai modelli in cima corrisponda tutta la disponibilità delle misure nelle scatole impilate sotto. Ci sono altri tipi solo nei ripiani bassi, probabilmente occultati perché incompleti nei numeri. Non c’è nulla di conveniente, qui, almeno non lo vedo, ed è questo il motivo per cui le barbe altrui mi fanno riflettere. Ci dev’essere una procedura complessissima per tenerle così curate, io ripeto ci ho provato ma uno non avevo molta pazienza, due non sono provvisto degli strumenti adatti, tre mi sembrava anti-economico rivolgermi settimanalmente a uno di quei barbieri che oggi spopolano tra gli hipster, quattro la barba a me cresce uniformemente ma non ho quei peli setolosi e dritti che sembrano scolpiti, piuttosto un ammasso di lanugine smidollata come la persona a cui appartiene. Cinque, last but not least, se mi rivedo nelle foto di qualche anno fa con la barba mi rendo conto che stavo davvero male. Troppa asimmetria e lineamenti che se ne vanno per i fatti loro. E se questo negozio non avesse adottato questo modo di mostrare la merce che va contro a qualsiasi legge del marketing del punto vendita mi deprimerei di meno. Vedo mariti percorrere i corridoi in punta di piedi alla ricerca delle loro mogli basse, c’è il rischio che non possano concludere lo shopping di coppia. D’altronde l’open space continua a essere principalmente un fattore mentale. Qualche giorno fa, per dire, Fulvio mi ha mostrato il suo ufficio nuovo e sono rimasto sbalordito dalla somiglianza tra la redazione in cui lavora – un posto gigantesco ma cosi parcellizzato da separé di armadietti e scrivanie da farti venire la claustrofobia – e questo inferno della calzatura low cost. Si salvano gli spilungoni come me che invece non corrono rischi di deteriorare i rapporti con il o la partner e riescono persino a conversare dalle due parti di quella muraglia di scarpe made in China. La coppa Italia e la Juve e cenni di storia dei reality nella tv pubblica vanno per la maggiore tra chi non è tenuto a dare giudizi sulle scelte d’acquisto. Ci stupiremmo se parlassero del panlogismo hegeliano o anche solo del sogno della notte precedente, sono argomenti che di fronte a certa realtà non tirano più.

tutti soffrono, a volte

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Con la scusa che certa musica è “bella” secondo la maggior parte della gente talvolta se ne fa un uso inadeguato. La scelta di un ascolto da irradiare lungo le coordinate ben precise dello spazio e del momento non dovrebbe tenere conto solo della qualità o della popolarità di un brano, e su questo non devo essere certo io a dirvelo considerando che ci arrivate benissimo da soli. Subentrano fattori quali il mood del brano in rapporto all’ambiente – mettereste mai un “bel” pezzo dei Nirvana in un centro benessere? – o il genere stesso, addirittura particolari tecnici, velocità e così via, d’altronde saper selezionare musica è una vera arte e può diventare anche un mestiere redditizio. Ma per la gente normale come me e voi la scelta del background è quasi sempre un aspetto secondario sul quale non è quasi mai il caso di perderci troppo tempo, ci fidiamo del nostro gusto, della nostra esperienza e talvolta di quello che si dice in giro, il che denota la superficialità involontaria con cui lo facciamo. Uscireste mai di casa con un abbinamento di colori agghiacciante? No, vero? Solo perché avete un capo firmato “bello” non è detto che debba essere indossato a cazzo, non sempre è il caso di metterlo. Così è la musica. E se volete un mio umile consiglio, tra i criteri da utilizzare per la selezione in pubblico e la musica da diffondere dove si radunano tante persone e la musica non deve essere il fattore comune che lega la gente che si trova nel posto in cui voi fate sentire la vostra playlist – quindi non siete dj perché questo è tutto un altro paio di maniche – dicevo il criterio da considerare in primis è il timbro della voce. Quante volte vi sarà capitato di perdere le staffe al supermercato a causa dei vocalizzi di sottofondo delle cantanti r&b che vanno tanto di moda al giorno d’oggi mentre vi barcamenate tra un due per tre e vostro figlio piccolo che vuole questo o quest’altro e sale e scende dal carrello e fa un caldo porco perché c’è il riscaldamento a manetta e voi avete su il piumino? Quando i sensi sono già chiamati alla prova da numerosi stimoli in eccesso, gravare sulla resistenza delle persone anche con sollecitazioni estreme dell’udito non è certo una buona cosa. Io per esempio bandirei l’esecuzione dei brani cantati da Michael Stipe dai luoghi costipati da calca in eccesso. I pezzi dei REM sono oggettivamente “belli” e ciò ne giustifica la messa in onda a sproposito, ma al contrario il fatto che piacciano a cani e porci non ne dovrebbe essere il motivo di selezione. Se un brano come “Stand” infatti induce l’ascoltatore all’imitazione del celebre balletto che si vede nel video, e quindi in questo caso è il ritmo che mette in secondo piano il registro vocale, di una canzone struggente come “Everybody hurts” che è solo voce e basta ed è esclusivamente un dialogo intimo tra i REM e il singolo ascoltatore non ne dovrebbe essere mai fatto un uso di massa. Il timbro di Stipe mentre centinaia di persone di tutti i tipi si affollano tra scaffali ricolmi di prodotti sopravvissuti al Natale, consapevoli che le feste volgono al termine, stride come poche cose al mondo. La gente si guarda e non capisce la ragione di quell’improvviso disagio e, vi assicuro, è molto difficile riuscire a spiegarlo ad uno ad uno.

la suburbia ha dell’incredibile e nel fine settimana dà il meglio di sé

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La suburbia ha dell’incredibile e nel fine settimana dà il meglio di sé. A me capita di soffermarmi ad ascoltare gli abitanti di queste aree decentrate quando si riversano, nel tempo libero, nei luoghi più frequentati, perché a volte parlano dialetti meridionali così chiusi che non è immediato capire se sono italiani o no. Non solo adulti e anziani, ma anche ragazzi, ventenni e trentenni. Provo a indovinare da quale paese del nordafrica o da quale ex repubblica sovietica provengano, fino a quando un ascolto più attento – ai limiti dello stalking – me ne rivela l’origine. Che poi per me è un generico sud, non sono così colto da distinguere Campania, Calabria, Puglia o Sicilia.

Ma la sorpresa è indifferente alla parlata, nel senso che mi meraviglio di questo culto del dialetto anche tra persone che magari hanno anche un’istruzione di base e che magari vivono nei pressi di Milano da qualche anno, dove frequenteranno scuole o lavoreranno con colleghi nati qui, e mi chiedo come faranno a capirsi. Quelli che mi hanno indotto a questa riflessione stanno sostando insieme a me di fronte a una vetrina di una bigiotteria di un centro commerciale. Ho appuntamento con mia moglie, così ho il tempo di decriptare la loro crittografia orale e venire a capo di quel codice linguistico apparentemente primitivo. Cerco quindi di seguire i loro commenti circa una serie di articoli in vendita proprio nel negozio di fronte al quale ci troviamo sui quali non avevo mai fatto caso prima, a prova del fatto che certe cose si notano solo il sabato pomeriggio.

A catturare il plauso di quella coppia di giovani dall’idioma incomprensibile, un uomo e una donna sui venticinque, è una specie di kit da tamarro dei nostri tempi. Un collier con la scritta love come ciondolo, una coppia di orecchini con un vistoso pitone dorato, anelli con l’effigie del dollaro che imbarazzerebbero persino uno come Flavor Flav. E in effetti sembrerebbero tutti monili da rapper old school di serie B se non fossimo in Italia. Ma poi osservando meglio il pattern grafico sui leggings di lei a forma di teschio capisco di trovarmi proprio qui, nella culla dell’orrore estetico.

Provo anche a paragonare tutto ciò con il senso dell’orrido che vigeva ai miei tempi. C’era un negozietto al mio paesello che si chiamava “La pulce nell’orecchio” e che era una sorta di “Inferno e suicidio” dei poveracci della provincia, ma che tutto sommato aveva una sua dignità e pur vendendo cose piuttosto kitsch non raggiungeva lontanamente le vette agghiaccianti di ora. Ma il peggio deve ancora venire. Dentro vedo un ragazzone supermuscoloso con una canottiera di una squadra di boxe – non so se reale o immaginaria – insieme a una bellezza da Maria De Filippi con pantaloni così aderenti che spiegano la presenza di quell’energumeno a suo fianco. Più ostentano l’inclinazione all’accoppiamento e più necessitano di qualcuno sufficientemente prestante da allontanare gli attacchi degli esemplari in calore. In natura funziona così. In cambio della protezione c’è più possibilità di usufruire dell’esclusiva dell’offrirsi.

Per fortuna la coppia che è lì fuori con me si ricongiunge finalmente con la famigliola di cui era in attesa, qualche parente immigrato con cui hanno pensato di stemperare il ricongiungimento in quel tempio della sintesi socio-culturale. Ma non posso non provare tenerezza per la figlia, già con evidenti problemi di alimentazione in eccesso così piccola, avrà dieci anni come la mia. Magari i genitori cercano di stare attenti ma, dovendo trascorrere tutto il giorno al lavoro e lontano da lei, non possono tenere sotto controllo i nonni che non si fanno tanti problemi nel chiudere un occhio su un boccone in più. Mi immagino il nonno che di nascosto divide il lardo in mezzo al panino con la nipotina, ma solo per una reminiscenza personale.

La suburbia milanese ha un altro primato: è l’unica zona in Italia con un microclima tale per cui a marzo gli adolescenti maschi indossano già le bermuda. Mi viene in mente l’episodio dello stolido che ha contestato il sindaco Pisapia qualche giorno fa che si è presentato in pantaloncini corti di fronte a un’autorità. Ma in quel caso, oltre al qualunquismo del suo intervento, era già abbastanza sconvolgente il rivolgersi a un adulto dandogli del tu. Mi sono immaginato così i genitori di quel Salvini o Di Battista in miniatura, quelli che quando il figlio va male a scuola se la prendono con gli insegnanti con il loro italiano stentato da visioni televisive di massa.

Finalmente arriva mia moglie e, prima di allontanarmi, vedo l’insegna di un protagonista dei non luoghi commerciali della periferia che è uno dei tanti franchising di “Piazza Italia”, più volte alla ribalta per campagne pubblicitarie basate su alcuni aspetti dello squallore della nostra miseria culturale. Mi chiedo, e lo chiedo a voi, se non avrebbe avuto più successo chiamandosi direttamente “Pazza Italia”, quasi quasi provo a proporglielo.

più forte dell’Ikea, incredibilmente vicino come un centro commerciale

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Non sono assolutamente d’accordo sul fatto che avere a cuore piante e fiori sia un indice di sensibilità o anzi, probabilmente è così ma almeno sono certo che non sia vero il contrario. Io rispetto il verde ma non chiedetemi di tenerlo sul balcone o in casa, faccio seccare il basilico nel vasetto e persino le piante grasse che hanno bisogno di meno cure di uno strato di cemento. Anzi la sensibilità la dovreste pretendere nei vostri confronti se qualcuno vi costringe o vi chiede con subdole finalità di accompagnarlo in uno di quei megastore di piante e tutto per il giardinaggio che ora non so se siano una caratteristica dell’area metropolitana di Milano. Sarà che dove sono nato e cresciuto non ho mai sentito l’esigenza di acquistare nemmeno l’erba gatta, mentre non appena trapiantato – è proprio il caso di dirlo – in padania la visita in una di queste aree grandi come centri commerciali ma monosettoriali o al massimo con prodotti variamente correlati è stata una delle prime esperienze di quel tipo di turismo domenicale, quando malgrado il mix tra clima e suburbia ci si impone di mettere il naso fuori.

Ce n’è uno in particolare, a dieci minuti da casa mia, che oltre a tutto per il pollice verde, arredamento da outdoor e – sotto le feste – il più ampio assortimento mai visto di addobbi natalizi e componenti per il presepe, comprende un ampio reparto dedicato agli animali e alla cura degli stessi. Che poi è una vera e propria contraddizione: in questi tempi di scetticismo nei confronti dei consumi, esercizi come quello sono strapieni malgrado i prezzi, soprattutto quando inizia a percepirsi la primavera nell’aria e cresce la voglia di rimestare con guanti e palette nella terra di giardini e vasi ricca di vermi. E in quello che ha anche articoli per cani, gatti e molto altro c’è spesso la fila perché riunisce due tipologie di utenti: quelli che rispettano gli animali e quelli che rispettano le piante, entrambe caratterizzate dalla mancanza di rispetto verso gli esseri umani, soprattutto in fase di ricerca di un posto nell’ampio parcheggio ubicato all’esterno del megastore.

Un altro aspetto di interesse è il costo di certi articoli, che per uno che non è del settore si tratta di un vero e proprio enigma. Piante e bestie da centinaia di euro. Pochi giorni fa per esempio ho fatto caso a un turaco cresta rossa, un uccello mai sentito nominare prima malgrado mia figlia conosca ogni tipo di animale sconosciuto come la genetta tigrina e il fennec, in offerta a 1.200 euro, tanto che non ho potuto non sottolineare a mia moglie l’assonanza con la ferrari testa rossa.
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Ditemi voi chi cazzo si comprerebbe un turaco cresta rossa a quella cifra, ma un qualsiasi animale che se ti si apre la voliera e fugge per tornarsene da dove è venuto con quel costo ti manda in fumo il capitale investito. Per non parlare di geki a più di ottanta euro, camaleonti che poi che senso ha tenersene uno in casa che si mimetizza e non lo vedi e magari lo schiacci per errore, considerando quello che lo paghi, e roditori che se non li vedessi lì in bella mostra non ci penseresti due volte ad avvertire gli addetti alla derattizzazione. Ho notato poi il frutto di un’operazione di marketing infelice: un calendario dell’avvento per gatti, ogni sportellino associato a una lattina di gusti differenti, talmente lontano dal buon senso da rimanere ampiamente invenduto sino a a fine marzo. Che poi uno non osa pensare a come sarà l’analoga iniziativa per la Pasqua imminente.
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In Italia non si può mica essere così blasfemi, nemmeno quando si tratta di mici che in quanto a sacralità, almeno da come si evince da Facebook, non si scherza.

Alla fine, qui nella regione in cui tutto è oversize quasi come gli Stati Uniti, muoversi con un carrello tra latte di pelati, maggiociondoli dalle radici costrette in giare finto-antiche o cuccioli di non-so-che-razza-canina che giocano e cagano nello stesso cestone protetto dalle mani dei bimbi avide di contatto con la straordinarietà non c’è tutta sta differenza. Così se avete in programma di trasferirvi da queste parti sappiate che, se qualcuno vi invita ad accompagnarlo a comprare la sabbia per la lettiera che fa la palla o due rametti di rosmarino, è sempre meglio chiedergli prima dove.

quello che di noi dice uno scontrino, voce per voce

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Alla fine il gioco è tirare a indovinare il totale, perché la sequenza ritmica dei beep della pistola RfID che mi ha trascinato lungo lo stato di ipnosi sento che sta per interrompersi, è facile capire quando è il momento perché quello che sembra lo sparo di un videogioco arcade che ha continuato a tempo per un intero carrello di spesa su articoli e prodotti di piccole e medie dimensioni effettua una pausa. La cassiera chiede alla donna che mi precede di sollevare la confezione da sei bottiglie di acqua da due litri e l’operazione richiede un po’. Un po’ di fatica e di forza fisica. La donna punta le Hogan sul linoleum sottostante e fa leva con le braccia per porgere il pesante articolo. Ho giusto il tempo per preparare la mia spesa dietro il divisore e dare un’occhiata alla corsia a fianco, dove una famiglia piuttosto numerosa avvisa in cassa che oltre a una certa cifra non potrà pagare, quindi chiede di essere avvertita quando il conto si avvicina al limite massimo, che corrisponde al budget a disposizione. Il marito passa alla moglie che veste un velo integrale che non sembra il massimo della comodità il contenuto del carrello pezzo per pezzo, mentre i cinque figli intorno, tutti tra i dieci e tre anni, alternano giochi improvvisati alla lettura dei nomi dei dolciumi alla fila delle casse, quelli che gli esperti di marketing della GDO mettono lì proprio per indurre i bimbi a chiedere alle mamme di comprarli. Nemmeno a farlo apposta il divario economico tra quella fila e la mia diventa smaccatamente amorale quando l’ultimo beep da questa parte decreta il totale, ben centosessanta euro ai quali la facoltosa avventrice non fa una grinza. Ripone con il massimo ordine gli ultimi pezzi nelle borse recanti i brand di altri supermercati, diversi da quello in cui ci troviamo, e favorisce la carta di credito per l’atto conclusivo. Ah no, c’è ancora lo scontrino e le figurine, un pacchetto ogni dieci euro di spesa che fanno sedici pacchetti che meno male che non porto mai mia figlia a fare compere, altrimenti sai come li invidierebbe. Poi tocca a me e me la cavo in qualche minuto, ho davvero poche cose, quelle che servono per cominciare la settimana con qualche genere di conforto.

Ma non finisce così. Rivedo la famiglia di chissà quale paese arabo poco dopo, tutti in fila alla fermata dell’autobus mentre anche questa domenica si avvia alla conclusione. La fermata poco oltre il parcheggio del centro commerciale dalla quale fa la spola una navetta dedicata ai clienti. Il padre e i quattro figli maschi in piedi con un sacchetto in mano ciascuno, la madre che è l’unica seduta, in braccio la bimba più piccola, sotto la pensilina entrambe a guardare in un punto che non saprei dire se è il futuro, un altro posto o una risposta più semplice, che da qui non si vede perché ormai le giornate sono troppo corte.

c’è baruffa nell’aria

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A furia di sentir parlare di quell’età dell’oro che è stato il secolo scorso, pur nella sua brevità come asseriva qualcuno, ora siamo sempre più scettici verso i numerosi traghettatori di esperienze dal passato che ci presentano la loro infanzia trascorsa durante la ricostruzione post-bellica, negli anni del boom economico, nei cortei delle contestazioni studentesche, dietro al grilletto di una p38 o sotto le spalline di una giacca spencer come il migliore dei mondi possibili e che da allora nessuno mai più potrà aspirare a tanto. E le cabine a gettoni e la Lambretta e il Commodore 64 e via dicendo. Io sono uno di questi, ovviamente, ma mi nascondo dietro a una narrazione impersonale in modo da non scontentare nessuno, sapete come funziona nell’editoria cialtrona e fai-da-te.

E può rientrare in questo dibattito la presunta scomparsa, con il nuovo millennio, dell’odore degli esercizi commerciali al dettaglio con la loro scomparsa tout court. Già vedo il vostro sistema di ricerca ravanare nell’hard disk della memoria con la query *.madeleine e gli occhi che iniziano a luccicare al ricordo della panna da cinquanta lire con la cannella sopra che compravate con la vostra mamma dalla signora Ines o la torrefazione del signor Gianbattista che con il suo aroma di caffè ogni mattina riempiva le scale del vostro palazzo.

Perché non si sente più il profumo millessenze delle drogherie perché non esistono più le drogherie, almeno dalla mie parti e nell’area metropolitana che a breve qui intorno sarà costituita. Non si sente più l’odore delle botteghe dei ciabattini, perché sono spariti entrambi, sia le botteghe che i ciabattini. E così via. Ci resta un’eredità meno romantica fatta di gelaterie che a Milano e a Perugia e a Catania hanno gli stessi gusti fighi e presidiati che sanno dello stesso gusto, librerie dove al posto della carta si percepisce solo la fragranza dei gadget in plastica, catene di abbigliamento tutte uguali dove prevalgono gli afrori umani durante i saldi e l’asetticità dei tabacchini in cui nessuno può fumare tantomeno gli avventori che imperturbabili perdono le loro fortune al videopoker.

Nei bar solo toast bruciacchiati, al limite solo i ristoranti cinesi non sono mai cambiati e sono rimasti in linea con l’olio utilizzato per la cottura dei cibi, così quando esci di lì è sempre meglio portare tutto in una lavanderia cinese. Tutto il resto è noia e non solo olfattiva, diciamocelo. Pensate a tutte le storie che nella letteratura e nei film sono nate nei negozietti, così li chiamano i più appassionati, e grazie ai loro esercenti prima che la centrocommercialità omologasse i nostri consumi e ci si ricordasse di loro solo per gli scontrini fiscali o, meglio, la loro non emissione. Quelle vicende in cui le commesse delle piccole librerie si innamorano di chi prima li voleva schiacciare sotto il peso di un colosso dell’editoria, o le rivendite di articoli per fumatori frequentate da scrittori e ladruncoli di riviste porno. Per non parlare delle artigiane del cioccolato, lì sì che aromi e amori erano davvero l’uno anagramma dell’altro. Poi vabbé, se volete liquidare il discorso e questi tromboni che ogni prima era sempre meglio di ogni adesso, fategli l’esempio delle pescherie e vedrete tutta la poesia finire lì, con l’alzarsi della saracinesca.

il gigante buono

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Tra la fila dei latticini e il Grande Corridoio Centrale da cui si dipanano tutti i settori, una vera e propria dorsale con cartelli di smistamento colorati e cataste di prodotti in promozione poste in prossimità dei corridoi tematici, si aggira un animatore camuffato da topo antropomorfo, una specie di Geronimo Stilton in giacca e pantaloni di velluto con una sproporzionata testa da ratto amichevole, per quanto possano comunque ispirare fratellanza i roditori comuni in un paesaggio antropizzato come quello qui intorno, perfettamente identico agli altri in cui sorgono i supermercati di periferia.

La persona che presta il movimento e la voce al topo con mani e piedi si aggira con un incedere che ricorda più il Santo Padre che un addetto all’accoglienza clienti. Che poi, obiettivamente, grandi e piccini trovano quel costume piuttosto respingente, ai limiti dell’horror, non meraviglierebbe assistere a una scena splatter in cui, ebbro degli odori di formaggi che esalano da ogni dove, il topo azzanna il primo acquirente che passa con il carrello il cui contenuto supera ampiamente i cento euro di spesa. Ecco, ricorda più il coniglione di Donnie Darko che un qualsiasi personaggio della letteratura infantile. Insegue i bambini che scappano e vanno a rifugiarsi dietro le gonne delle mamme tutte prese a comparare prezzi con costo al chilo, visibilmente a disagio nel mantenere un contegno volto a rassicurare i figli spaventati e increduli della mancata corrispondenza e conseguente delusione tra quanto possa essere tenero un animale dalle sembianze umane visto alla tv rispetto a incontrarlo dal vero.

Una bambina dal volto rossastro e lunghe trecce, in tuta-pigiama e pantofole, sembra meno disorientata dal discutibile intrattenimento offerto dal supermercato. La madre, anche lei in pantofole e una gonna dai colori sgargianti, un capo d’abbigliamento piuttosto tipico che solo i nomadi riescono a indossare e che ci si domanda di che marca siano e quali negozi le mettano in commercio, continua la sua scelta di prodotti con l’etichetta “prezzo discount”. Il padre, poco più dietro, è visibilmente ubriaco e si è appisolato in piedi, con i gomiti appoggiati al carrello e blocca parzialmente il passaggio, tanto che la scia di clienti che deve passare è costretta a spostarlo più a lato, mentre lui continua indisturbato nel suo stato catatonico.

Di fronte, dove inizia il reparto dei vestiti, un uomo sembra molto interessato agli sviluppi di quella spettacolare quanto involontaria coincidenza di eventi ma viene distratto da un articolo in vendita, una maglietta per ragazzine bianca con una scritta in pailettes rosse, “I love my blog”, con la o di love dalla forma di cuore, e pensa che non avere una macchina fotografica sempre a disposizione, nemmeno nel cellulare, a volte impedisce di cogliere e documentare le occasioni migliori.

un pianeta terra terra

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Sabato più pioggia uguale centro commerciale. Non fa una piega, e sono in molti a non farla. Come si usa dire, la crisi non c’è perché mangiano tutti da Spizzico. Sarà.

Il centro commerciale in questione una volta era il Gigantesco Supermercato in mezzo a una galleria di negozi, i soliti brand che resistono perché con la loro solidità economica che si chiama franchising sono gli unici a potersi permettere l’affitto dei muri. In quel Gigantesco Supermercato, nel cuore del centro commerciale, fino a qualche tempo fa era messo tutto alla rinfusa, essendo talmente grande da rendere vano un modo strutturato e intelligente per guidare il visitatore lontano dalle sue necessità segnate a matita su un post-it e vicino alle offerte di tutto quello che non avrebbe mai voluto comprare ma che poi alla fine si ritrova nel carrello. Su questo, lo sapete meglio di me, ci sono studi e strategie mica da ridere. Così si sono inventati la formula Planet, che consiste nell’aver reso il Gigantesco Supermercato un vero e proprio sistema di consumo, il pianeta acquisti su cui si atterra dopo aver sorvolato i negozi satellite intorno e i vari spazi di ristoro. Dentro, ora colpisce il perfetto ordine, l’estetica ammiccante del restyle, il corpo perfetto di una creatura feroce quanto disciplinata composta di tutti i prodotti, tutte le scatole, tutti i barattoli ognuno nel proprio spazio dedicato. Congegni vitali che rendono l’esperienza del visitatore un viaggio allucinante nell’organismo di un essere vivente spietato e pronto a digerirti per poi espellerti, scontrino alla mano.

Nella apparente calma delle funzioni involontarie, la respirazione nel reparto alimentari, il battito cardiaco al banco gastronomia con il continuo bip bip del display che aggiorna di una unità alla volta il turno di chi deve essere servito, ecco l’apparato riproduttivo che è quello che attira di più l’utenza maschile e giovane: elettronica informatica e videogiochi. Un percorso segnato in rosso tra gli scaffali conduce a un salottino, due poltrone di fronte a una playstation con tv lcd. Due ragazzini obesi, conciati alla moda e con i capelli passati alla piastra, stanno giocando a sparare e uccidere persone finte, dentro lo schermo a non so quanti pollici tanto che assassino e cadavere sono in scala di poco inferiore all’1:1. La grafica è impressionante, sembra un film. L’audio è in qualità perfetta: dialoghi, colonna sonora e i colpi di pistola risuonano tutto intorno. Dietro, la fila dei curiosi che vogliono provare.

gli anelli più piccoli delle catene

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Il cratere artificiale scavato all’imbocco del paese ha svelato la sua natura. Nessun meteorite: si tratta di buco propedeutico alle fondamenta di un colossale piano terra posto sotto a un primo piano sormontato da un secondo, un’anima di cemento armato a cui è stato dato un corpo, un corpo che è stato vestito fino ad assumere le sembianze di un megamulticentro sportivo della catena Virgin. Millemila metri quadrati di fitness, palestre, piscine, spogliatoi, spazi comuni stanno per essere inaugurati a fianco di uno dei tanti non-luoghi dell’hinterland, un’area che già ospita l’immancabile Esselunga, il Decathlon, un Leroy-Merlin, con il contorno di concessionarie di automobili varie, tutti insieme appassionatamente lungo il perimetro di una rotonda ubicata in un incrocio strategico, a meno di un chilometro dal centro del paese.

Il megamulticentro sportivo Virgin sancirà probabilmente la fine della piscina con palestra nuova fiammante ubicata a cinque minuti a piedi da casa mia, nel parco, un complesso modernissimo costruito pochi anni fa e di proprietà, per il 51%, del comune, quindi anche mio. Un progetto nato tra mille polemiche e che è stato anche causa del fallimento dell’amministrazione di centrodestra precedente all’attuale, di centrosinistra, che ha dovuto risanare a fatica un buco economico non indifferente. Ma verrà colpita anche una seconda palestra privata, piuttosto frequentata, che difficilmente farà fronte al vantaggio competitivo della multinazionale del sudore benefico. E sono pronto a scommettere che anche molte società sportive amatoriali della zona vedranno diminuire i loro iscritti, magari quelli più allocchi attirati dalle insegne luminose di un paese dei bengodi dove, oltre ad allenarsi, potranno avere maggiori opportunità di vita sociale grazie a una formula che unisce sport a divertimento, l’ennesimo all inclusive in cui manca solo che ti lavino la maglietta e calzini sudati per farteli trovare pronti al successivo ingresso (cosa che peraltro succede altrove). In più, determinerà l’ennesimo cambiamento delle abitudini di vita dei miei concittadini, perché per recarsi al megamulticentro sportivo Virgin dovranno comunque utilizzare l’automobile, l’ubicazione seppur limitrofa è comunque raggiungibile quasi esclusivamente con una superstrada. Il percorso pedonale e ciclabile attraversa una strada provinciale molto trafficata. E poi, non dimentichiamo che non ci sarà certo problema di parcheggio.

Resta da chiedersi quale altra componente della nostra esistenza rimane disponibile per essere target di questa speculazione all’ingrosso. Dopo supermercati e centri commerciali che hanno cancellato, oltre al commercio al dettaglio, anche il piacere della spesa quotidiana, prassi soppiantata dai mega-acquisti settimanali nei ritagli di tempo del nostro orario di lavoro o, meglio, nel finesettimana. Dopo i megastore culturali, in cui trovi ovunque gli stessi libri e gli stessi cd e dei quali vuoi mettere la comodità di entrare con il carrello della spesa? Poi il bricolage e l’abbigliamento, insomma, cosa resta ancora da vendere? La scuola? Sorgeranno catene di mega-complessi privati dove iscrivere i nostri figli dagli otto mesi dell’asilo nido alla quinta superiore, spazi in cui c’è tutto, li accompagni la mattina e li ritiri prima di tornare a casa ma non hai remore perché sono seguiti da personal trainer e assistenti e comunque possono chiedere aiuto alla receptionist messa lì da qualche agenzia interinale? O il tempo libero: immagino spazi multipiano in erba sintetica dedicati ai finesettimana delle famigliole, ogni livello una fascia di età con giochi e passatempo adatti, un abbonamento mensile adulti a prezzo pieno e under dodici a prezzo ridotto, le famiglie si organizzano e un genitore accompagna anche i figli degli altri e sta lì, sulla panchina sotto il sole artificiale a curare gruppi di scalmanati che sfogano le smanie di caciara mentre dai finti lampioni si diffondono canzoni adatte al target? Oppure bocciofile e circoli per la terza età, qui gli sponsor non mancano, magari con la navetta che fa la raccolta di chi non può più utilizzare un mezzo proprio. Un posto sicuro in cui investire la pensione, e poi via in questi multiplex tra balere e giochi di carte, spazi per la socializzazione, gadget e promozioni ad hoc per uno dei gruppi di acquisto che, ad oggi, se la passa comunque ancora discretamente.

Ed è facile immaginare come sarà questo paesino tra dieci o venti anni, l’ennesimo quartiere dormitorio con tanti satelliti commerciali tematici intorno, dove le uniche infrastrutture attive presenti saranno sempre più solo i distributori di benzina.