it’s a dog-eat-dog world out there

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Se c’è una cosa che mi fa schifo è il cibo per gatti, direi quasi più che la lettiera o, persino, di quando rimettono (stavo per scrivere vomitano, poi ho pensato che è quasi l’ora di cena e qualcuno di voi ipersensibili mangia davanti al computer) e occorre pulire tutto. È una tara che mi porto dietro da quando il primo gatto mise le zampe in casa dei miei, e mia mamma (ovviamente fu lei a prendersi carico della cura degli animali domestici oltre al lavoro e a mio padre e a noi tre figli) la mattina, mentre facevo colazione, apriva quelle bombe chimiche delle scatolette industriali. Negli spot, gatto e padrone si scambiano profondi sguardi d’amore sopra le ciotole ricolme di tali leccornie. Ma credo che se sotto al naso dell’attore ci fossero davvero le porcherie che ci vengono proposte come delikatessen, sono certo che gatto e product manager si prenderebbero delle sonore pedate nei relativi fondoschiena. Magari il gatto no, poverino, non c’entra nulla. Beh, mia madre apriva la scatoletta alla fragranza del giorno e a me, già imbestialito per dover andare a scuola, prono sulla scodella di caffelatte fumante, saliva la nausea.

Ma si sa, uno prende un animale e subito è tutto lanciato nel dargli il meglio. Poi inizia la routine, magari ti svegli tardi o torni a casa a un’ora assurda e non hai voglia di preparare nulla, figurati per una bestia, quindi ti fai tentare e apri la vaschetta. Bleah, pensi, lo sapevo che prima o poi ci sarei cascato. Per non parlare delle lattine, in cui oltre ai moncherini di chissà quale animale macellato senza tanti complimenti e distinguo tra carne e non-carne c’è la broda che, nella strattone dell’apertura, magari ti finisce addosso. Però questo è il prezzo della società occidentale, sfamiamo animali domestici mentre là fuori c’è tutto un emisfero che muore di inedia, e la filosofia dei quattro salti in padella prima o poi la si applica anche agli animali di casa.

A noi però è successo che, mentre eravamo in ferie, uno dei due mici ha contratto un virus intestinale, o forse ha mangiato cibo che, al sole di agosto, si è avariato. Inutile sottolineare che dovendo mobilitare persone ad hoc per provvedere alle bestie abbiamo necessariamente dovuto ricorrere al cibo in scatola. Fatto sta che il veterinario ci ha consigliato una bella dieta e una crema per ricostituire la flora intestinale. Una dieta ovviamente a base di cibo cucinato in casa, pollo, riso, pasta, pesce. Così, io che trovo il cibo in scatola ripugnante, mi trovo alle sette del mattino a disossare polli bolliti in pentola a pressione, staccando pezzi di carne dal cadavere di quello che fino a qualche giorno prima è stato un essere vivente come i miei gatti. Proprio io che, l’unica volta in cui ho provato l’ebbrezza della macelleria durante il servizio militare, sono svenuto dall’orrore prima di tagliare una fettina. E mentre sono lì a violare quel che resta di una vittima designata di allevamento, mentre là fuori riparte per la miliardesima volta la giornata frenetica del genere umano, sento che non mi tornano tutti gli anelli di questa tragica quanto efferata catena alimentare, perché io, quelle due bestie pelose che mi si strusciano sulle caviglie imploranti mentre preparo loro la colazione, mica me le posso mangiare.