fuori dalle palle, prima di Natale

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Scorrendo questa sintesi fotografica degli eventi che, secondo Il Post, hanno sconvolto l’anno in archiviazione, ci si rende conto che gli individui di cui avremmo fatto a meno anche prima e che si sono finalmente levati di mezzo non sono stati pochi, uno in particolare.

l’italia chiamò

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Domattina vorrei uscire di casa con il tricolore sulle spalle, a mo’ di mantello, legato al collo. Vorrei battere i luoghi dove passo quotidianamente ogni mattina da dieci anni conciato così, a partire dall’ingresso della scuola tra i bimbi e gli accompagnatori. I primi mi additerebbero sicuramente divertiti da un carnevale fuori stagione, gli altri altrettanto meravigliati dalla lunga coda di giubilo per il successo di una nazionale sportiva, una delle tante, magari la più fresca di titolo mondiale di qualcosa. Poi, lungo la strada verso la stazione, il ragazzone affetto da sindrome di Down, quello che incrocio con addosso sempre i Ray Ban a specchio e le cuffie da walkman vecchio stile e che camminando balla e canticchia una musica tutta sua, si meraviglierebbe da quella botta di colore sul mio abituale monocromatismo, forse lui mi chiederebbe che succede. E che dire del goffo impiegato militante di un noto gruppuscolo di subumani di estrema destra, ogni giorno sul mio stesso treno, che in prossimità del vessillo nazionale probabilmente scatterebbe sull’attenti sfoggiando il saluto a braccio teso e che, dopo ore di sforzo intellettivo magari a fine giornata riuscirebbe a darsi una spiegazione del fatto che la bandiera è anche la mia. Poi la scia di gente che lavora, la fiumana di persone nell’ora di punta mattutina che potrebbe decidere dietro a quel segnale di libertà di riemergere dall’esistenza sotterranea verso una luce diversamente rischiarante. Quindi, prima di sedermi e accendere il pc, appenderei dietro la mia postazione quello strascico di entusiasmo da risveglio post-incubo, il mantello che di certo non fa di me un supereroe, semplicemente il cittadino di un nuovo mondo.

operazione “una mentina per Ferrara”

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Offriamo al direttore del foglio il fine pasto decisivo, dopodiché tutti al riparo: il suo contenuto è molto meno nobile della celebre versione demo qui sotto.

A E I O U Y

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al posto tuo

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L’ultimo giorno di lavoro di un collega lo si riconosce subito, alle nove del mattino appena si arriva in ufficio, perché non è un giorno come tutti gli altri.

Se è il collega ad aver dato le dimissioni perché cambia lavoro, quindi si presume vada a stare meglio, leggi la speranza nei suoi occhi, lo vedi pronto al passo successivo, quello che nessuno conosce. Cambiare società, si sa, è comunque una sfida da cui si può tornare vincitori ma anche no, e lo sguardo di chi ci lascia volente, e ha dato il preavviso trenta giorni prima, è un misto di paura, gioia e nostalgia. Ma tutto sommato è uno sguardo giovane, non saprei come definirlo meglio, un po’ perché sono giovani quelli che riescono a cambiare in meglio, un po’ perché forse il panico ti fa gonfiare il petto per istinto di sopravvivenza, come gli animali che si preparano al combattimento, e la forza negli occhi ti conferisce quell’aspetto che si ha da ragazzi boriosi. E anche perché tutti ti invidiano. Per chi è felice di varcare l’ultima volta da collaboratore fisso (stavo per dire dipendente ma poi mi sono accorto dell’anacronismo) l’uscita giù al piano terra per addentrarsi da solo – o almeno non con noi – nel suo futuro, l’ultimo giorno d lavoro è già un giorno di festa, lo coccoliamo, qualche battuta, si va a pranzo insieme l’ultima volta da colleghi. Poi nel pomeriggio ci riuniamo tutti qui nel mio ufficio, che si chiama lo stanzone perché è la stanza più grande, e con un scusa lo facciamo venire qui e gli consegniamo un regalo, comprato grazie a una colletta. Il biglietto è quello dei commiati, felicitazioni per la tua nuova carriera. Poi, un paio di ore prima dell’orario normale di uscita, preceduto da una sua email più o meno di circostanze, il collega fa il giro, mi raccomando sentiamoci, vi ho lasciato l’indirizzo privato di posta, sì ma sarò qui vicino quindi possiamo pranzare insieme di tanto in tanto, e cordiali saluti. Chi era più legato continua l’amicizia parallela fuori di qui, e avanti il prossimo. Il nostro capo non si fa mai vedere in queste occasioni, forse stizzito del fatto che non è riuscito a trattenere la risorsa, e con una scusa o un’altra si astiene dai saluti finali.

La variante, come potete immaginare, è il collega a cui non è stato rinnovato il contratto ed è stato licenziato. E anche in questo caso, lo riconosci subito che non è un giorno come gli altri. Siamo tutti un po’ in colpa, noi abbiamo ancora un lavoro e tu no ma se fossi nei nostri panni saresti imbarazzato anche tu ma per fortuna che non ci sei perché in tal caso saremmo noi quelli ad aver perso il posto di lavoro, dicono i nostri occhi. Rispetto al dimissionario, il licenziato è ovviamente meno speranzoso e più preoccupato, da domani avrà giornate intere per sfogliare annunci di lavoro, i link sui quali ti posizioni con la freccetta del mouse e ti compare già in anteprima il range di salario: rimborso spese, meno di quattrocento euro, da quattro a ottocento euro. E le dinamiche con gli altri sono diverse. Il rancore lo spinge a consumare l’ultimo pasto con i colleghi più stretti, ma non per questo non ci preoccupiamo di salutarlo con una colletta per un pensiero. Nel biglietto non si sa cosa scrivere, il lupo è tirato in ballo dai meno originali, poi qualcuno sdrammatizza e fa il simpatico. Segue mail a tutti, è stato bello lavorare con voi, poi il giro di saluti di rito e il collega si invola appeso a un enorme punto interrogativo aerostatico, lo salutiamo dalla finestra mentre prende quota, aggrappato a quello che per il momento è il suo futuro, la sua unica certezza. Nessuno sa dove sia diretto. Quando sparisce dietro al palazzo di fronte, si torna tutti alla scrivania. Ah, il nostro capo non si fa mai vedere in queste occasioni, forse imbarazzato del fatto che ha dovuto lasciare a casa la risorsa, e con una scusa o un’altra si astiene dai saluti finali.

weekend con il morto

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Mi piacerebbe sperare che questa fosse la volta buona. Quante volte oramai l’ho detto, anzi, l’abbiamo scritto? E poi c’è stato sempre qualcosa che ha fatto sfumare l’affare. L’incomprensione tra le fila dei nostri, il salvataggio dell’ultimo minuto, abbiamo scherzato e votiamo lo stesso la fiducia. Un paio di volte è successo, abbiamo anche vinto le elezioni successive, ma malgrado la leadership, le canzoni di Fossati e di Jovanotti, è stata sufficiente la coscienza integerrima del Turigliatto di turno per mandare all’aria tutto. Ora qualcosa di diverso c’è, a parte il naufragio economico che ci sta travolgendo. C’è che lui, a settantaquattro e ormai completamente sputtanato, mi si passi il termine, su tutti i fronti difficilmente potrà essere riciclato in qualche modo. E anche i suoi fedelissimi e l’elettorato che rappresentano, forse è giunto il momento in cui torneranno sommersi nell’ameno luogo sotterraneo da cui provengono, spinti se non dall’opposizione almeno dai loro ex alleati. Che, di questi tempi, sarebbe comunque un passo in avanti, vero? E io voglio sperare che questa sia la volta buona, perché è da tanto che anelo al suo tracollo politico. Ricordo ancora, era la fine del mese di marzo del 1994, ero barricato nell’allora mia casa di campagna con l’allora mia fidanzata ad attendere, con birra e patatine, fiduciosi i risultati delle elezioni politiche. E quella vittoria inaspettata mi rimase di traverso; stappammo un’altra birra, ricordo, e poi un’altra ancora seguendo alla tv il nostro Paese che aveva scelto di rovinarsi con le proprie mani. Meglio ubriacarsi che arrendersi all’evidenza dei fatti: lui li aveva convinti tutti, il volto nuovo, la discesa in campo, gli slogan calcistici. Il resto è storia ed è lungo e oltremodo complesso da riportare passo per passo. Dicevo che è da tanto che anelo al suo tracollo politico, perché al suo tracollo da essere umano auspico dalla prima volta in cui sentii i Rondò Veneziano su sfondo rosa shocking suggellare l’inizio dei programmi della sua visione di Italia.

risorse divine

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Nella mia profonda ignoranza, non sapevo che si potessero dare le dimissioni da Dalai Lama. A chi si rassegnano? Che parole si usano per scrivere la lettera? C’è un posto vacante? Interessante la collocazione della notizia nella home di Repubblica,in questo momento. Ecco uno screenshot:

eye to eye stand winners and losers, hurt by envy, cut by greed

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Il duello, secondo Makkox, su Il Post in questo momento.