tutto ciò è stupefacente

Standard

Alcuni segnali della senilità si avvertono in evoluzioni o involuzioni, a seconda dei punti di vista, di certi criteri con cui si filtrano le cose che succedono o anche solo nelle opinioni che con il tempo mutano. Di conoscenti che con l’età sono diventati grillisti, addirittura filo-israeliani o metodici praticanti di quei passatempi che confinano l’intelligenza umana in un estremo isolamento, che è poi l’anticamera delle peggiori derive mentali della vecchiaia, ne abbiamo tutti. Mai avremmo detto, per esempio, che un giorno ci saremmo trovati nella mezza età a praticare sport come strategia compulsiva di redenzione dei peccati giovanili, come se rovinarsi di chilometri, di bracciate o di pedalate rendesse nulli automaticamente tutti gli eccessi naturali e artificiali con cui abbiamo tentato di distruggerci da giovani e consentisse di recuperare neuroni, cellule cerebrali, anticorpi, fegato e sciogliere tutta la carne in eccesso di cui anni di appetiti chimici hanno favorito la stratificazione. Addirittura ci troviamo a correre felici a perdifiato ascoltando compilation della stessa musica che un tempo utilizzavamo per abbandonarci agli oblii delle sostanze stupefacenti più in voga. Non stupitevi, quindi, se incontrate runner che combattono ipertensione e colesterolo al ritmo dei The Cure, per esempio. O se la voce di Peter Murphy contribuisce a scalare di corsa gradini a due a due con maggior enfasi. E ancora se gli album preferiti, come Jeopardy dei The Sound ascoltati dall’inizio alla fine, corrispondono con precisione alla metà esatta del tragitto da portare a termine quotidianamente, dopodiché si fa dietro-front e si rientra a casa percorrendo la stessa distanza con un disco nuovo, questa volta di Siouxsie and the Banshees. Che trip.

il danno

Standard

Non so se si tratti di un modo di dire comune, ma dalle mie parti – almeno quando ero ragazzo io – si usava il termine “rovinarsi” nel senso di trovare ogni modo lecito e non per distanziarsi il più possibile dalla realtà. C’erano quelli che si rovinavano di alcolici, quelli che si rovinavano di canne, ci si rovinava di più mescolando le sostanze. Una volta ho chiamato al telefono un amico a casa sua, i cellulari non esistevano ancora, e mi ha risposto dicendomi che era in acido ed era rovinatissimo. Io me lo immaginavo in casa, abitava ovviamente con i genitori vista l’età, al telefono nel corridoio come me che lo avevo chiamato per una questione qualsiasi, forse per chiedergli di fare qualcosa insieme, un film o un salto in birreria, e mi guardavo allo specchio mentre gli parlavo e mi immaginavo lui che faceva la stessa cosa ma rovinatissimo e in acido e mi chiedevo come si poteva vedere in quell’altro specchio a casa sua. Qualche giorno fa mi è tornata in mente quella conversazione strampalata tra me e quell’amico in acido, e ho pensato che si usa il verbo rovinarsi in un senso azzeccatissimo, perché a bombardarsi di quelle cose lì poi alla fine ci si rovina davvero. Si rovinano parti del corpo, magari i polmoni o il fegato, si rovina la testa, a volte addirittura capita che qualcosa si guasta e non si può più aggiustare.

emancipate yourselves from mental slavery

Standard

Il 27 giugno del 1980 ero lì, non proprio sotto il palco ma nella massa di persone arrivate un po’ da ovunque per un concerto che è già passato alla storia. Bob Marley a San Siro, Milano. Stavo con I., ai tempi, che aveva una R4 scura costantemente satura di fumo, in tutti i sensi. Soprattutto di fumo di fumo. Di canna. Ma I. ed io eravamo già passati oltre. E quel pomeriggio, stesi nel prato in attesa della sera, tra una canzone di Pino Daniele e un groove della Average White Band, ci siamo strafatti. Eroina, certo.

Eravamo in tanti a strafarci. Se mi guardo indietro, non c’è stata la solita gavetta. Le Camel, la canna e la siringa. C’è stata tanta sfortuna, molta emulazione, un incidente dietro l’altro, un po’ di debolezza e di disinformazione, solitudine percepita non a livello individuale, ma di massa. Un esercito di giovani, soli tutti insieme, specialmente nel posto dove sono nata e dove ho vissuto. Gli spari intorno e i boati delle bombe che deflagravano lontano, sì, qualcuna anche in città. Ma chi se ne importa, stava già tutto per finire. Meglio chiudere la realtà in bianco nero fuori e concentrarsi sugli effetti stupefacenti e multicolore della droga. Hai mai provato l’eroina tu per parlare? Guarda, provala e poi mi dici. Non smetteresti mai.

E la cosa paradossale è come mi sono lasciata convincere a iniziare, così mi sono lasciata convincere a smettere. La mia famiglia si è ribellata e ho mollato I., quindi ho mollato l’eroina e ne sono uscita. Ma la sfortuna, dicevo. Non dalla sfortuna. Oramai si stava diffondendo come metastasi nella mia vita. Le scelte sempre sbagliate. Un marito alcolizzato, qualche anno dopo, quanto me. Ironia della sorte: ci siamo conosciuti in ospedale, entrambi già con il fegato a pezzi e l’epatite. Quando si è speso tutti i soldi del suo lavoro ancora in droga è scappato via, per fortuna.

Così ho puntato tutto sui miei genitori, su mia sorella, su un paio di cugini e qualche amico, quelli che però se ne approfittavano (avevate ragione voi, mannaggia), mi hanno chiesto soldi per i loro problemi e glieli ho dati. Praticamente tutti. Poi ancora tante bevute, un lavoro tutto sommato decente, ma che fatica. Qualche anno fa, infine, ho iniziato ad avere seri problemi. Psicofarmaci e alcol, a volte a giorni alterni, a volte contemporaneamente.

Avrebbe potuto essere altrimenti? Prima è morta mia mamma, poi poco dopo mio papà, che ormai era nel delirio più completo. Ed ecco che mi sono sentita nuda, non ho niente (se non una tetto che mi avevano comprato i miei, per fortuna) e non so cosa devo fare. Qui non c’è mai stato niente da fare. Sempre più vecchia, sempre più in crisi. Sempre a piangere, al telefono con tutti. E non c’era più mia madre, nessuno mi avrebbe più consolato.

Qualche mese fa, ho bevuto di brutto e preso le pastiglie. Sono salita sul motorino ma il coma etilico mi ha buttato giù. Hai pensato anche tu che fosse l’inizio della fine, vero? Io si. La polizia mi ha sequestrato lo scooter, non sarei potuta più andare al lavoro, ma quello era irrilevante. Il mio fegato ormai era finito. In ospedale sono stata messa in lista d’attesa per un trapianto. Sì, un trapianto. Non me l’avrebbero mai fatto. Perché se continui a bere, perdi il tuo posto. Vai in fondo.

Mia sorella e la sua famiglia, gli unici rimasti a prendersi cura di me, sono stati così cari. Ho trascorso il natale con loro, gonfissima, ma con un po’ di speranza. Di essere fortunata, almeno una volta, nella vita. E lo sono stata: stanotte sono morta. Ho spento tutto, a 50 anni. Anzi, una polmonite mi ha spento. Fa sorridere, vero? Sopravvissuta a un investimento in vespa, siringhe condivise, botte di alcool e tranquillanti. Chissà che altro che non ti ho mai detto. Per poi morire per una polmonite.

Scusa, ho perso il filo. Ti dicevo del concerto di Bob Marley a San Siro. Qualche settimana dopo, quell’anno, sul divano di velluto blu che era nell’ingresso di casa della zia, tua mamma. Io, tu, le tue sorelle. Ascoltavamo musica. Tu avevi 13 anni, giusto? Ma ti eri impallato con il reggae. Lo eravamo un po’ tutti ai tempi. Insomma, ho tirato fuori dalla borsa il biglietto, quella parte che rimane a chi va ai concerti, e che i fanatici come me e te tengono nel portafoglio. C’era Marley di profilo con una canna in bocca, su sfondo verde giallo rosso. Senza che me lo chiedessi ti ho regalato quella reliquia, visto che tu, a 13 anni, non avevi giustamente avuto il permesso di andare.

Senti però, prima che questa tua elegia funebre diventi patetica, e già lo è abbastanza, fai una cosa. Chiudi le virgolette, metti un punto e finiscila qui. E, se proprio vuoi dedicarmi un pezzo, che non sia Redemption Song“.

Ok Gabri, niente Bob Marley. Rimaniamo in silenzio.

perdere il vizio

Standard

Raccolgo e riporto la confessione di A., che ha deciso di uscire dal tunnel. Sono riuscito finalmente a farmi raccontare la sua esperienza e a convincerlo a renderla pubblica, a testimonianza del fatto che voltare pagina è davvero possibile. “Ormai è un anno e mezzo, più o meno, che ho smesso. Non è stato il consiglio di un medico, non è stato l’aut-aut di un parente stretto, non è stato il peggioramento di un malessere, non si sono manifestati sintomi fisici particolari. Si, d’accordo, iniziavo ad accusare un po’ di affaticamento nel tenermi addosso e portare in giro tutto quel peso, e soprattutto sentivo insopportabile il fastidio di andare a letto con quell’assordante ronzio nelle orecchie. Ma non potevo andare avanti così“.

A. ha iniziato a 13 anni. “Facevo terza media, ricordo ancora. Volevo imitare gli amici di mia sorella, più o meno 6-7 anni di differenza, che forse intercettando il mio interesse per quella cosa da grandi mi avevano tirato dentro nel loro giro. Prima sono andato a vedere di cosa si trattava esattamente, spiandoli da fuori. Ed è stato l’errore più grave, perché la curiosità è diventata incontrollabile. Sembrava una cosa divertente, che ti fa sentire grande, anzi, onnipotente, la più sconvolgente delle sostanze stupefacenti in circolo all’epoca“. Non dimentichiamo che erano i primissimi anni 80, quel tipo di atteggiamento era piuttosto cool, perché sinonimo di ribellione.

Ho deciso così di unirmi a loro. La prima volta addirittura sono passati a prendermi a casa, uno di loro era già maggiorenne e aveva l’auto“. Anni dopo, A. si è reso conto che la dipendenza, in realtà, costava cara. “Come non ho fatto ad accorgermi subito che una cosa così divertente non poteva essere gratis? Prima qualche migliaio di lire al mese, per qualche ora la settimana di oblio. Poi botte da centinaia di migliaia di lire. Non sempre, certo, ma almeno una volta all’anno. Addirittura, quando qualche anno dopo, oramai in piena assuefazione, ho voluto fare il grande salto, ci sono voluti un paio di milioni, soldi che i miei genitori avevano guadagnato con il loro lavoro e che mi hanno prestato, pensando fossero per il mio bene. Ma ormai c’ero dentro fino al collo, non c’era più via di uscita“.

A. si lascia anche scappare qualche dettaglio su quella primissima esperienza. “Eravamo tutti in cerchio, c’era una sorta di rituale da osservare. Guardarsi negli occhi, osservarsi per fare attenzione a cosa facevano gli altri, soprattutto ascoltarsi, non interrompersi a vicenda. E, soprattutto, attenti a non sbagliare, per non sprecare nulla di quello che si stava producendo e dover quindi ricominciare da capo“.

Ma, come in ogni branco, c’era un leader. “Non mi scorderò mai la sua espressione. Era il più grande di tutti, con la barba, gli occhi infuocati. Era quello che si faceva sentire di più, diceva cosa fare e cosa non fare, era l’unico che aveva il potere di interrompere gli altri. Anche la gestualità era diversa. Si dimenava, saltava, si contorceva. Non ti nascondo che mi faceva paura. Ma il suo carisma è stato più forte. Prima di congedarci, quella prima volta, è stato gentile e molto amichevole. Di sicuro per assicurarsi la mia presenza le volte successive, senza dubbio; anche se giovane ero dotato, avrei portato il mio valore aggiunto. Così mi ha chiesto come era andata, cosa ne pensavo, se mi era piaciuto. Lì ho capito che non avrei mai più smesso“.

Ma i percorsi personali mutano, si prendono strade diverse. Cambiano le amicizie, a volte peggiorano perché si va in cerca di sensazioni ancora più forti. “Ad un certo punto ho sentito l’esigenza di provare con altre persone, più vicine alla mia sensibilità, al mio vissuto. Soprattutto coetanei, che parlassero il mio stesso linguaggio. Stavo cambiando, sentivo che sarei riuscito a sopravvivere anche fuori da quella cerchia che mi aveva iniziato. In poche parole, formare il mio branco. Senza sapere che sarei entrato in un trip ancora più devastante, perché man mano che aumentava l’intimità, la rottura di un equilibrio dovuta a chi se ne andava o chi voleva incominciare e inserirsi poteva essere fatale. Da allora, l’ho fatto credo con almeno un centinaio di persone diverse, di tutte le età, di tutti gli orientamenti sessuali, in posti differenti. E man mano, mi accorgevo che ero sempre più spesso il più vecchio, tra me e gli altri che volevano provare aumentava sempre più la differenza di età. E con essa, il gap generazionale: background diversi, culture e interessi sempre più distanti che danneggiavano la bellezza delle vibrazioni che fino allora avevo provato, l’unica cosa davvero gratificante di un vizio così pericoloso“.

Paure? Frustrazioni? “Tantissime, purtroppo. Per chi è dentro, c’è il timore di perdere tempo, di non riuscire a regolarsi, di danneggiare anche l’immagine delle persone con cui lo vuoi fare. Verso l’esterno, invece, c’è la frustrazione dovuta alla consapevolezza di fare la cosa sbagliata, di trascurare affetti, amici, lavoro, di sprecare energie e soldi, soprattutto. Ma se non hai il vizio non riesci a capire. Perché poi provi nuovi stimoli, cerchi differenti direzioni. Cambiano i fattori, come si dice, ma il prodotto resta immutato. L’eccitazione dura poco, i preparativi, poi il momento in cui sei in ballo, l’effetto che al massimo non supera le 2 ore, e che ogni volta sembra sempre più rapido“.

E quando finisce? “Ecco, quello è il momento peggiore. Smonti tutto, stacchi i cavi, rimetti i synth nelle custodie, mentre quei pochi che sono venuti al concerto del tuo gruppo sono già al bar del locale a ubriacarsi. E tu devi caricare tutto in macchina, tornare a casa sudato e puzzolente, rimettere gli strumenti nello sgabuzzino, sdraiarti nel letto con l’adrenalina a mille che non puoi sfogare, e aspettare la prossima prova o, peggio, la prossima data che riuscirai a trovare“.

Ora A. ha finalmente smesso di suonare. A più di 40 anni. Ora finalmente la sua strumentazione è chiusa in cantina, forse si deteriorerà. I synth si smemorizzeranno, qualche contatto salterà a causa dell’umidità. Ma non tornerà mai sui suoi passi. A. ora è disintossicato e pulito. Definitivamente.